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PREMI

 

PREMI

Insieme ai​​ ​​ castighi, entrano nei​​ ​​ mezzi educativi come binomio classico per motivare o rinforzare il consenso educativo, promuovere maggiore impegno, generalmente in stretto riferimento con i​​ ​​ valori educativi. Tale rapporto è indebolito oggi in molta educazione, specie in quella familiare, per il largo uso di incentivi legati al consumo, all’edonismo, al piacere, nel migliore dei casi al successo, ma per lo più alla richiesta di prestazioni «dovute»: spesso in sostituzione di reale vicinanza e​​ ​​ impegno educativo genitoriale.

1. Il p. può essere un’aggiunta a sorpresa; può essere una gratificazione abbinata al conseguimento di un risultato che viene voluto in relazione al p. Esso può costituire il motivo del fare, può semplicemente evidenziarne, sostenerne, dichiararne il valore. Il massimo potenziale educativo viene liberato quando la stessa attuazione assume la qualifica di p. per averlo eseguito o conseguito con e per il suo stesso valore intrinseco, oggettivo, soggettivo, personale. Ma, come si è accennato, se inflazionato ed estrinseco, può non aiutare a penetrare e fissare il valore dell’impegno educativo, anzi può risultare fuorviante e riduttivo se non eticamente e educativamente negativo. La stessa critica vale anche se la tensione premiante è concentrata su contenuti e fini diretti, quando questi rispondono a una concezione gretta di sé e della vita, individualistica e privatistica, materialista, consumista, di potenza e dominio, di emergenza fatua.

2. La pedagogia del p. rientra all’interno di un’antropologia generale, vale a dire di una visione globale della vita e della condotta, e all’interno di essa, di che cosa è educativo della persona. P. collaterali di natura piacevole, utile, affettiva, concessiva, possono essere ammessi se iniziali, ma transitori e parziali rispetto alla promozione di un’esperienza motivante di p. connessa con il conseguimento degli esiti validi e vitali personali, sociali, culturali, etici, religiosi, unica connessione sostanzialmente educante. È educativo premiare anche l’intenzione e l’impegno, riconoscendo che il valore personale non è unicamente limitato all’esito. Sono p. educanti il riconoscimento e la lode, il dono di stima, fiducia, responsabilità a chi fa qualsiasi cosa buona. Si può tacere il biasimo, mai la lode. Al di là dell’utopia del dovere puro, la pedagogia cristiana accetta i p. del risultato, del compimento di sé, del riconoscimento sociale, della soddisfazione personale. Anche in rapporto ai p. è importante essere educatori coerenti, costanti, giusti nella distribuzione.

Bibliografia

Froidure E.,​​ P. e castighi nell’educazione giovanile,​​ Torino, SEI, 1963;​​ Zulliger H.,​​ Helfen und Strafel,​​ Stuttgart, Klett,​​ 1965; Ducati A.,​​ P. e castighi, Milano, Anonima Edizioni Viola, [s.d.].

P. Gianola




PREVENZIONE

 

PREVENZIONE

La p. è un aspetto della metodologia educativa che tende a preservare le giovani generazioni da carenze rilevanti sul piano della strutturazione della personalità e della socializzazione e che inoltre mira ad individuare eventuali fattori di rischio nello sviluppo evolutivo del soggetto al fine di evitare l’insorgere di comportamenti disadattanti, come l’assunzione di droghe e alcool, atti di vandalismo, abbandono scolastico (​​ dispersione scolastica), passività nei confronti dei​​ ​​ mass-media, disturbi psichici, condotte suicidarie (​​ suicidio). Etimologicamente il termine​​ pre-venio​​ può assumere più significati. In questo contesto, facciamo riferimento a due di essi in particolare: 1) arrivo prima; 2) anticipo, impedisco, ostacolo, evito qualcosa che ritengo comunque negativo e pericoloso. La p. si colloca in una dimensione temporale di tipo lineare e, specie nella seconda accezione, sembra nascere da finalità negative esplicitandosi attraverso azioni di controffensiva, di sfida contro qualcosa o qualcuno che non è manifesto ma di cui si ipotizzano scenari futuri.

1.​​ Riferimenti storici.​​ La p. affonda le sue radici nell’origine stessa del Cristianesimo, il cui influsso si è esteso, soprattutto nella cultura occidentale, nel corso dei secoli. È però nell’Ottocento che, sia a causa della traumatica esperienza della Rivoluzione francese e sia a motivo del sovvertimento dell’ordine antico causato da Napoleone, l’Europa sembra orientarsi con decisione verso l’idea «preventiva». E la p. investe il campo​​ politico​​ come orientamento a restaurare l’antico, conservando però quanto di positivo avevano portato i tempi nuovi; entra nel tessuto​​ sociale,​​ esprimendosi in una molteplicità di interventi a favore dei poveri (ospedali, istituti per vecchi, vedove, orfani...); propone in campo​​ penale​​ principi e sensibilità nuove (si pensi ad es. a C. Beccaria per il quale è meglio prevenire i delitti che punirli...). Ma in modo ancor più chiaro la p. tende a identificarsi con l’idea stessa di​​ ​​ educazione che è p. prima ancora della modalità di approccio metodologico: preventivo appunto o repressivo. In questo contesto la​​ ​​ religione che da sempre, almeno come tensione ideale, aveva fatto suo questo approccio, viene identificata come mezzo privilegiato di p. personale e sociale, garanzia di ordine e di pace. Don​​ ​​ Bosco ne diventa uno dei rappresentanti più significativi, sia per la sua personalità che per la sua attività. Emblematico il suo scritto sul​​ ​​ sistema preventivo.

2.​​ Attività e obiettivi.​​ L’attività preventiva in campo educativo si esplica attraverso opere di informazione e divulgazione scientifica ma soprattutto di carattere formativo (intendendo con ciò l’instaurarsi di un rapporto tra individuo-individuo o individuo-oggetto che si influenzano reciprocamente interagendo in un determinato contesto storico ed ambientale). In tal senso la p. deve essere intesa come un atto che si fa «con» i destinatari dell’intervento e non «per» loro (da una concezione lineare della p. ad una circolare o processuale); nella p., pertanto, l’azione deve essere sinergica e non è pensabile la delega. Gli obiettivi verso i quali agire (individuazione ed integrazione degli indicatori di rischio, dei fattori protettivi, miglioramento della qualità di vita) devono essere esplicitamente condivisi dai soggetti che vi partecipano (giovani educatori, utenti, operatori, collettività); obiettivo ultimo è il miglioramento della condizione esistenziale dei giovani nella prospettiva di un loro maggior benessere ma, a differenza del concetto di cura, il benessere perseguito nell’ambito dell’educazione è simultaneamente di due destinatari diversi: la persona bisognosa e la collettività. L’idea di​​ ​​ benessere sottesa infatti considera la persona nella sua globalità e interezza, non nella parte malata da curare. Nel contempo si prefigge di evitare che altri membri della collettività si possano trovare in simili situazioni di disagio o possano, in qualche misura, avere ricadute negative, incappare in condizioni sfavorevoli determinate dall’azione del soggetto in difficoltà.

3.​​ Livelli di p.​​ La ricerca di indicatori di rischio capaci di offrire elementi utili ad una classificazione e definizione di possibili percorsi preventivi, pone in evidenza la necessità di operare una distinzione terminologica e di contenuto di diversi possibili livelli entro i quali collocare un progetto mirato. A ciascun livello corrispondono obiettivi, caratteristiche, metodologie e destinatari diversi che ne determinano il segno e l’andamento, pur non dovendoli considerare in maniera statica e chiusa.

3.1.​​ Primo livello: p. potenziale o promozione.​​ In esso si colloca ogni tipo di intervento capace di influire in modo positivo sulla qualità della vita giovanile promuovendo salute, cultura, socializzazione. Entra in gioco la definizione di un quadro di riferimento di più ampio respiro rispetto a quello della pura p.: la promozione. Promuovere vuol dire infatti un andare da qualche parte, probabilmente attraverso cammini sconosciuti, un fare per, ma anche un fare con, orientato alla costruzione di qualcosa che non è preesistente. Nel «promuovere» restano ostacoli e il problema di trovare delle vie per affrontarli o aggirarli; ma diventa importante il di-venire, da dove e in che modo si arriva a certi appuntamenti: il «pro» diviene premessa e orientamento. Rientrano in questa categoria le attività di carattere sportivo, ricreativo, culturale o di socializzazione generica rivolte a minori e / o giovani, e i problemi di aggiornamento generale rivolti ad adulti che rivestono un ruolo educativo.

3.2.​​ Secondo livello: p. specifica del disadattamento.​​ Ad esso corrispondono interventi legati a progetti mirati su fattori di disagio personale e / o sociale che possono favorire l’instaurarsi di situazioni di disadattamento e devianza giovanile. Appartengono a questa categoria servizi e interventi volti ad alleviare condizioni di deprivazione culturale, affettiva e sociale e ad orientare la persona in fasi e momenti di cambiamento cruciale.

3.3.​​ Terzo livello: p. specifica primaria.​​ In essa si collocano interventi centrati su fattori-rischio tipici dei fenomeni di dipendenza giovanile. A questa categoria appartengono i progetti di educazione alla salute, di sensibilizzazione e formazione orientati all’uso di sostanze, alla manipolazione del corpo, ecc., promuovendo nell’individuo senso critico, maturità affettiva, autonomia di pensiero e azione, ecc.

3.3.​​ Quarto livello: p. specifica secondaria.​​ In essa si situano interventi rivolti direttamente a soggetti già coinvolti, in diverso grado, in situazioni ormai compromesse, in qualche «subcultura deviante» (es. consumatori o ex-consumatori di droghe, consumatori di alcool, attori di episodi legati alla microcriminalità, ecc.). Fanno capo a questa categoria attività di carattere psicologico come il​​ ​​ counseling, il sostegno psicopedagogico, la risocializzazione, la psicoterapia breve, e attività di carattere sociale volte a prevenire processi di stigmatizzazione ed emarginazione, come ad es. il reinserimento lavorativo e le iniziative di aggregazione.

4.​​ I​​ modelli.​​ Se nell’ambito della p. sanitaria è possibile individuare un buon livello di elaborazione teorica ed una specifica identificazione di differenti procedure metodologiche, non altrettanto è possibile fare a proposito del tema p. nell’ambito delle scienze sociali e dell’educazione. In esso, infatti, l’introduzione di tale concetto e la conseguente metodologia sono di recente concezione e definizione; come sostiene Colecchia (1995), la ricerca in campo psicosociale non ha ancora raggiunto livelli di definizione chiara circa le tipologie dei comportamenti a rischio che possono provocare, a breve o a lungo termine, effetti nocivi per il soggetto che li metta in atto. La natura stessa del periodo evolutivo in cui sono coinvolti i soggetti a cui è rivolta l’attività di p., è all’origine delle difficoltà di definizione esatta non solo dei comportamenti indicatori di disagio, ma anche delle relative strategie preventive attuabili. I modelli interpretativi dei fenomeni di disagio giovanile e le corrispondenti strategie preventive, possono essere tanti quanti i potenziali destinatari per cui occorre fondamentalmente creare chiarezza intorno all’approccio teorico che si intende utilizzare. Generalmente contemplano al loro interno differenti prospettive ed approcci. È da pensare ad una​​ prospettiva medico-biologica​​ entro l’apporto specifico dell’istituzione scolastica con attenzione puntata sull’individuazione precoce e di recupero dei casi più conclamati. Così pure occorre certamente un​​ approccio psicologico,​​ in cui l’attenzione è centrata sulla ricerca di meccanismi che si trovano alla base dei rapporti distorti fra l’individuo e la collettività, l’individuo e le cose, gli oggetti di consumo, l’individuo e le figure genitoriali ecc. L’indagine è cioè portata più che sugli agenti manifesti del disagio, sulle latenti disfunzioni psichiche cui è andato incontro il soggetto. Né si può trascurare un​​ approccio sociologico,​​ in cui l’attenzione è volta alla ricerca delle motivazioni e dei disagi individuali posti in relazione con il contesto sociale e culturale all’interno del quale l’individuo si colloca. Anche se in genere a ciascun approccio corrisponde un modello di p., non si dimostra di alcuna efficacia il considerarli come interpretazioni contrastanti o escludentesi. Appare invece meno riduttivo utilizzare alcune categorie concettuali capaci di offrire letture più integrali ed integrate dell’idea di p. e della sua possibile progettualità. Ciò comporta aver chiari: in primo luogo la rappresentazione che si ha dell’oggetto verso il quale si intende volgere la propria attenzione (droga, dispersione scolastica, microcriminalità, televisione, ecc.); in secondo luogo l’area d’intervento verso cui si vuole orientare la propria iniziativa (il singolo, la comunità ecc.); in terzo luogo i contenuti dell’intervento (promozione di cambiamenti di ordine culturale, psicologico, sociale); in quarto luogo le finalità «negative» (evitare i processi di emarginazione sociale, intervenire precocemente su fattori che potrebbero dar luogo a comportamenti autodistruttivi); infine le finalità «positive» (creazione di opportunità più consone ai bisogni dei giovani e capaci di favorirne una più concreta ed attiva integrazione nella società adulta). I più recenti orientamenti preferiscono puntare sugli elementi positivi attraverso il rinforzo delle doti e competenze dell’individuo (empowerment,​​ coping, autoefficacia, ecc.), favorendo un ambiente positivo che favorisca lo sviluppo di tali capacità. Pertanto, anche a livello metodologico, la p. richiede che, accanto ai fattori di rischio, da combattere o contenere, si sviluppi una corrispondente analisi dei fattori protettivi, su cui far leva per migliorare la situazione. Ciò significa sostenere la prosocialità più che combattere l’antisocialità. Da una filosofia che tende a contenere e gestire i rischi ad una che vuole promuovere e migliorare le condizioni di partenza e le risorse iniziali del ragazzo, che guarda con favore alle potenzialità attuali che il ragazzo possiede.

5.​​ La metodologia.​​ In tal senso l’obiettivo ultimo di una p. davvero efficace dovrebbe essere quello di produrre un​​ cambiamento​​ sia a livello individuale che sociale in cui i punti di riferimento costanti siano: la dimensione temporale (perché un progetto di p. sia davvero tale occorre un lasso di tempo mediamente lungo, seppur delimitato, capace di garantire la piena attuazione e di consentire l’operare di opportune verifiche in tappe intermedie); la dimensione della consapevolezza (ogni progetto mirato di p. deve avere chiari e definiti gli obiettivi che intende perseguire, deve sforzarsi di conoscere al meglio la realtà su cui intende intervenire ma soprattutto non deve considerare «oggetto passivo» coloro verso e per i quali il progetto è studiato); e la dimensione della coerenza (verso se stessi, verso il giovane e verso il progetto). D’altro canto lo stesso termine p. richiama ad una idea concreta centrata sul​​ fare,​​ sulla pratica attiva, sul coinvolgimento e l’interazione tra colui che propone (educatore) e colui che indica la strada sulla quale immettersi per raggiungerlo in maniera reale e totale (educando), in un continuo​​ feedback​​ fatto di regressioni e avanzamenti, di aggiustamenti e ripensamenti che ne garantiscono la qualità e l’autenticità. Ogni progetto di p. / promozione si prefigge di combattere un nemico che sa di non poter sconfiggere totalmente ma che spera di indebolire attraverso il «rinforzo», inteso come l’elaborazione di strategie non distruttive e di soluzione dei problemi, che può offrire al giovane in fase evolutiva. Potremmo perciò concludere affermando che​​ proprium​​ della pedagogia è la p. in quanto coincidente con l’azione educativa, cioè con il «venire prima», e con l’essere efficace attraverso una connotazione positiva che offra al giovane l’opportunità di realizzare il più compiutamente possibile il suo progetto di vita.

Bibliografia

Braido P.,​​ Breve storia del «sistema preventivo»,​​ Roma, LAS, 1993; Regoliosi L.,​​ La p. del disagio giovanile, Roma, NIS, 1994; Id.,​​ La p. possibile,​​ Milano, Cortina, 1995; Colecchia N. (Ed.),​​ Adolescenti e p.,​​ Roma, Il Pensiero Scientifico, 1995; Braido P.,​​ Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco,​​ Roma, LAS, 2000; Milan G.,​​ Il disagio giovanile e strategie educative, Roma, Città Nuova, 2001; Cusson D. P. M.,​​ Prévenir la délinquance. Les méthodes efficaces, Paris, PUF, 2002; Farrington D. P. - J. W. Coid (Edd.),​​ Early prevention of adult antisocial behavior, Cambridge, CUP, 2003; Nizzoli U. - C. Colli (Edd.),​​ Giovani che rischiano la vita.​​ Capire e trattare i comportamenti a rischio negli adolescenti,​​ Milano, McGraw-Hill, 2004; Barbagli G. - U. Gatti,​​ Prevenire la criminalità, Bologna, Il Mulino, 2005.

D. Castelli - G. Vettorato




PROATTIVITÀ

 

PROATTIVITÀ

Gli psicologi umanisti lamentano che la persona dai comportamentisti e dalla​​ ​​ psicoanalisi è considerata prevalentemente come passiva, capace solo di reagire all’ambiente e agli impulsi inconsci. Essi ritengono invece che una descrizione realistica dei processi della condotta umana deve tener conto anche della capacità originale che il soggetto ha di progettare il proprio futuro. Nella voce​​ ​​ motivazione le due correnti, proattiva e reattiva, sono descritte con un qualche dettaglio.

1. La capacità di progettare si fonda principalmente sulla maturazione cognitiva, che prospetta alla persona orizzonti di​​ ​​ valori; questi possono venir percepiti come «beni per me», e diventare scopi della condotta. Come si vede, la p. è collegata alla teoria cognitiva della motivazione: gli autori che sottolineano la dimensione della p. si richiamano alla dimostrata forza motivante delle intenzioni e dei progetti a lunga portata. La p. può anche essere considerata come un tratto della personalità, e un indizio di maturità e sanità psichica: la condotta proattiva è plastica, si adatta alla realtà, contrariamente alla rigida condotta reattiva; essa è accompagnata da un sentimento di gioiosa conquista, mentre in quella reattiva vi è rassegnazione a una costrizione interna o esterna; nella condotta proattiva gli altri e la realtà in genere sono visti come buoni e termine di possibile collaborazione, mentre la persona fondamentalmente reattiva si chiude in se stessa, nel tentativo di difendersi da un mondo esteriore ed interiore che percepisce come un minaccioso nemico.

2. La p. è perciò una dimensione che può essere utilmente tenuta in conto in psicoterapia, come avviene nella​​ ​​ logoterapia di​​ ​​ V. Frankl. Ma anche l’educazione viene qualificata dall’attenzione alla p., vista come fondamento del sentimento di responsabilità e di un impegno a lunga portata. In varie ricerche il test «Purpose in Life» (PIL, Uno scopo nella vita) di V. Frankl si è dimostrato un buon predittore di varie disposizioni che condizionano il raggiungimento di mete educative.

Bibliografia

Frankl V. E.,​​ Uno psicologo nei Lager,​​ Milano, Ares, 1967; Allport G. W.,​​ Psicologia della personalità,​​ Roma, LAS, 1977; Ronco A. - L. Piano,​​ L’atteggiamento dei giovani verso la morte,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 37 (1990) 296-313; Ronco A.,​​ Introduzione alla psicologia,​​ Roma, LAS, 1991.

A. Ronco




PROBLEM SOLVING

 

PROBLEM SOLVING

La capacità di saper affrontare problemi è da tutti riconosciuta come una manifestazione tipica dell’​​ ​​ intelligenza umana. Generalmente per problema si intende una situazione iniziale complessa da cui un individuo deve partire per raggiungere uno scopo trovando mezzi e strumenti idonei.

1. Il tema del p.s. non è certo di oggi e dall’inizio del secolo è stato affrontato da molti punti di vista. Vanno ricordate in particolare le riflessioni di​​ ​​ Dewey e di​​ ​​ Piaget. In questi ultimi anni l’approccio della psicologia cognitivista ha sviluppato un’ampia attività di ricerca con l’ausilio di metodologie anche nuove (ad es. la simulazione del processo di soluzione sul computer), ha esaminato il comportamento al variare della natura dei problemi e ha analizzato le differenze nelle competenze di esperti e non esperti.

2. Sono stati individuati diversi procedimenti euristici o strategie per la soluzione dei problemi. Uno di questi procedimenti consiste nel procedere in modo​​ casuale​​ verso la soluzione. Un esempio è dato dal modello di ricerca per prova ed errore non accompagnato dalla pianificazione dei tentativi effettuati, spesso seguito dai bambini. Un altro modo di procedere è quello di cercare una possibile strada che può condurre alla soluzione e percorrerla fino in fondo. Tuttavia in caso di difficoltà è sempre possibile in ogni momento ritornare indietro fino ad un certo punto e tentare di procedere da quel punto in avanti e così di seguito. Un altro procedimento euristico molto utilizzato è quello definito degli​​ strumenti​​ e​​ fini.​​ Esso si è dimostrato molto efficace quando si è voluto costruire un programma al computer capace di risolvere qualsiasi problema (il programma è generalmente conosciuto come GPS:​​ General P. Solver,​​ di Newell-Simon, 1969). Il procedimento consiste nell’osservare la situazione problematica e lo scopo da conseguire e selezionare un passo che riduce la distanza tra il punto iniziale e la soluzione. Questo modo di procedere alle volte è stato anche detto​​ ricerca a ritroso​​ o​​ in avanti.​​ Nel primo caso si parte dallo scopo e si seleziona l’operazione da svolgere per conseguirlo. Nel secondo si parte da una situazione iniziale e si sceglie la via per raggiungere lo scopo.

3. Nel corso delle ricerche sono stati proposti un certo numero di modelli e descrizioni di processi che vengono attivati per raggiungere la soluzione di un problema. Ne ricordiamo due particolarmente significativi in contesto pedagogico. Schoenfeld (1987) ha suggerito di insegnare quattro attività per migliorare la capacità di risolvere i problemi:​​ analizzare e comprendere il problema​​ disegnando un diagramma (quando possibile), esaminando casi specifici per esemplificare il problema e per esplorare la gamma di possibilità attraverso casi che lo circoscrivano al fine di trovare uno schema solutorio induttivo da un numero finito di casi, cercando di semplificare il problema attraverso un confronto che scopra la corrispondenza simmetrica tra gli uni e gli altri senza perdere di vista la globalità;​​ disegnare e pianificare una soluzione​​ gerarchicamente, sapendo spiegare in ogni momento che cosa si sta facendo, il perché e che cosa si vuol fare con quanto ottenuto;​​ esaminare le soluzioni date a problemi difficili​​ prendendo in considerazione dei problemi simili e prestando attenzione alle diversità riscontrate;​​ verificare la soluzione​​ ponendosi questi interrogativi: sono stati utilizzati tutti i dati? la soluzione è ragionevolmente conforme alle previsioni? poteva essere ottenuta in altro modo? Bransford e Stein (1984) parlano di cinque componenti (IDEAL): identificazione​​ (identifica l’esistenza di una situazione problematica);​​ definizione​​ (cerca di precisarla e di descriverla nel modo più accurato possibile);​​ esplorazione​​ (esplora le possibili soluzioni alternative: per fare questo spezza il problema in sottoproblemi più affrontabili, richiama casi speciali già incontrati, lavora a ritroso);​​ azione​​ (agisci sviluppando le ipotesi fatte);​​ osservazione​​ (osserva i risultati ottenuti dalle operazioni eseguite e se si adattano bene ai termini del problema).

Bibliografia

Polya G.,​​ How to solve it,​​ New York, Doubleday, 1957; Newell A. - H. A. Simon,​​ Human p.s.,​​ Englewood​​ Cliffs, Prentice-Hall, 1972; Bransford J. D. - B. S. Stein,​​ The IDEAL p. solver,​​ Belmonte, Wadsworth, 1984; Schoenfeld A.,​​ Cognitive science and mathematics education,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1987; Smith M. U. (Ed.),​​ Toward a unified theory of p.s. Views from content domains, Ibid., 1991; Sternberg R. J. - P. A. Frensch,​​ Complex p.s.: principles and mechanisms,​​ Ibid., 1991; Mayer R. E.,​​ Thinking,​​ p.s.,​​ cognition,​​ New York, Freeman,​​ 21992.

M. Comoglio




PROBLEMATICISMO PEDAGOGICO

 

PROBLEMATICISMO​​ PEDAGOGICO

Sono dette genericamente problematicistiche quelle posizioni filosofiche pragmaticistiche, storicistiche, immanentistiche, esistenzialistiche che rifiutano assolutezze di tipo metafisico e pretese dogmatiche di verità sovrastoriche e di valori eterni. Lo scetticismo e il nichilismo vengono evitati, perché la problematicità e non definitività della ricerca vengono connesse con le potenzialità di apertura universale e critica della ragione. Essa, come ragione trascendentale, può fare opera di demistificazione antidogmatica e di comprensione pratica della realtà storica umana.

1. In un senso più specifico, il termine è venuto alla ribalta nell’ambito della filosofia italiana del ’900 con U. Spirito (1896-1979) e con A. Banfi (1886-1957). Di fronte alle contraddizioni della metafisica occidentale e dell’attualismo di​​ ​​ Gentile (di cui era stato discepolo), U. Spirito vede nel p. l’unica posizione teoretica possibile. Penserà di superarla con una prospettiva di vita come ricerca, come arte, come amore e, da ultimo, affidandosi alle potenzialità critiche ed operative della scienza. Rispetto alle pretese assolutistiche del neo-idealismo crociano e gentiliano, il p. di Banfi, discepolo di Martinetti, si pone come razionalismo critico, ispirato al kantismo della Scuola di Marburgo, al pensiero di Simmel (di cui fu amico) e alle suggestioni teoretiche della fenomenologia husserliana. Nel suo pensiero, di respiro europeo, in analogia con la prospettiva kantiana, la ragione ha una funzione critico-trascendentale, non fondativa; ma insieme assolve ad una funzione unificativa dell’infinita problematicità dell’esperienza, mantenendo aperta la ricerca e sostenendo «praticamente» l’impegno dell’«uomo copernicano», costruttore di sé e del suo mondo nella storia. In questa linea, il Banfi, da sempre antifascista, nel secondo dopoguerra aderirà al partito comunista e si avvicinerà a posizioni etico-politiche ispirate ad un marxismo non dogmatico e visto come strumento di critica sociale e civile.

2. Lo stesso Banfi, ma soprattutto il suo discepolo​​ ​​ Bertin (1912-2002), hanno offerto una versione problematicistica della pedagogia, che stimola a prendere coscienza della relatività e problematicità dell’esistenza ed in particolare dell’esperienza educativa. Rispetto ad esse viene evidenziata la necessità di affrontare i problemi in chiave di una razionalità aperta e dinamica (che nell’ultimo Bertin si avvicina alla «lievità» e alla libertà nietzscheiana). L’aderenza alla realtà e la fedeltà alla ragione si esprimono pedagogicamente in una «educazione alla ragione», per favorire l’autonomia, il coraggio, la disponibilità, l’impegno socio-politico, l’apertura all’oltre, al bello, al nobile e agli altri con l’amicizia, la simpatia, la solidarietà. Tale posizione pedagogica, da parte spiritualistica e neotomista, è stata accusata di assolutizzare a sua volta la problematicità e di cadere quindi nel dogmatismo e nel relativismo; e da parte marxista è stata tacciata di ideologismo borghese. Tuttavia, nel pluralismo attuale, il p.p. ottiene considerazione per le sue stimolazioni di una libertà in senso democratico-solidale e per prospettive educative aperte a valori esistenziali personalizzati.

Bibliografia

Miano V.,​​ Il p. e l’educazione,​​ Roma, PAS, 1960; Banfi A.,​​ La problematicità dell’educazione e il pensiero pedagogico,​​ a cura di G. M. Bertin, Firenze, La Nuova Italia, 1961; Bertin G. M.,​​ Educazione alla ragione,​​ Roma, Armando, 1968; Spirito U.,​​ Dall’attualismo al p.,​​ Firenze, Sansoni, 1976; Bertin G. M.,​​ Nietzsche. L’inattuale: idea pedagogica,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977; Bertin G. M. - M. G. Contini,​​ Progettualità esistenziale,​​ Roma, Armando, 1981; Beseghi E., «P.p.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9405-9413; Baldacci M.,​​ Il p., Lecce, Milella, 2004.

C. Nanni




PROCEDIMENTO DIDATTICO

 

PROCEDIMENTO DIDATTICO

Il termine p. (dal lat.​​ procedere,​​ comp. di​​ pro,​​ avanti, e​​ cedere,​​ andare) indica un complesso di operazioni con cui si risolve un problema, si conduce un’esperienza. Per p.d.​​ si può intendere la via seguita nello svolgimento di un’unità didattica, o nell’applicazione di un metodo, o nella realizzazione di un obiettivo in sede didattica. Per questo nella​​ ​​ programmazione i p. spesso vengono identificati con le attività da prevedere, che devono rispondere ai criteri di scelta metodologica relativi a: obiettivi-contenuti-soggetti in situazione, sempre tenendo presenti i principi didattici.

1. Una definizione di p.d., di frequente riferimento nei trattati di didattica, è quella di R. Titone che lo considera come «la via particolare seguita nell’applicazione di un metodo o una forma d’insegnamento» (Titone, 1975, 384) e ne indica 6 tipi complementari e variamente combinabili a seconda della necessità dello svolgimento di una lezione: induttivi (osservazione, sperimentazione, comparazione, astrazione, generalizzazione) e deduttivi (applicazione, verifica, dimostrazione), sintetici (conclusione, definizione, riassunto, ricapitolazione) e analitici (divisione, classificazione), espositivi e interrogativi.

2. I p.d. possono indicare, inoltre, sia il percorso da seguire da parte dell’insegnante nella conduzione didattica della propria disciplina di studio:​​ pre-test​​ (analisi della situazione) - programmazione - realizzazione - verifica (post-test),​​ sia le modalità procedurali da seguire in corrispondenza alle fasi del processo assimilativo del soggetto che apprende, che vanno dal momento globale o intuitivo, al momento analitico di ricerca e al momento sintetico (d’integrazione - organizzazione - sistematizzazione - collegamento). I p.d., ovviamente, variano a seconda che la didattica sia centrata o sulla materia da insegnare, quindi sull’insegnante, o sull’alunno e sul suo apprendimento.

3. Oggi, con il supporto dell’informatica, i p.d. dispongono di un ricco ventaglio di sussidi didattici che vanno dalla possibilità di presentare il materiale delle lezioni, alla scelta delle strategie e degli interventi desiderati, ecc. Con l’editoria multimediale, soprattutto con l’​​ ​​ e-learning​​ e l’apprendimento virtuale, la didattica digitale sta ormai rivoluzionando i p.d.

Bibliografia

Titone R.,​​ Metodologia didattica,​​ Roma, LAS,​​ 31975;​​ Motos Teruel T.,​​ Las técnicas dramáticas: procedimiento didáctico para la enseñanza de la lengua y literatura en la educación secundaria, Valencia,​​ Universitat de València, Servei de Publicacions, 1993;​​ De Corte E.,​​ Les fondements de l’action didactique, Bruxelles / Paris, De Boeck / Larcier,​​ 31996.

H.-C. A. Chang




PROCESSO DI BOLOGNA

 

PROCESSO DI BOLOGNA

Per P.d.B. s’intende la creazione entro il 2010 dello​​ Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, delimitato dalla conoscenza, arricchito dalla cittadinanza europea, scandito da competenze e consapevolezze valoriali. Il P.d.B. nasce con la Dichiarazione di Bologna del 19 giugno 1999 firmata da 29 Ministri dell’Istruzione che impegnano i propri Paesi a partecipare alla riforma dei loro sistemi di istruzione superiore per facilitare la trasparenza e la cooperazione.

1. Gli obiettivi principali del P.d.B. sono l’incremento di competizione, la mobilità, l’occupazione attraverso il raggiungimento da parte di ogni sistema dei seguenti sei traguardi: 1) rilascio di titoli di laurea, master e dottorato, facilmente leggibili e comparabili (Diploma Supplement); 2) introduzione del doppio ciclo di formazione universitaria; 3) riconoscimento e trasferimento dei crediti formativi; 4) mobilità di studenti e professori; 5) accertamento dei livelli di qualità con comparazione di criteri e metodologie; 6) promozione della dimensione europea. Nell’incontro di Praga (2001) si aggiungono tre obiettivi: 7) educazione permanente; 8) partecipazione degli studenti; 9) capacità di attrazione. A Berlino (2003) si aggiunge un altro obiettivo: 10) favorire la ricerca e la formazione (dottorato).

2. La struttura denominata​​ The Bologna Follow-up group (BFUG), prepara gli incontri semestrali, le iniziative connesse ed esamina lo stato di avanzamento del P.d.B. Nell’estate 2000 viene lanciato il​​ Tuning Educational Structures in Europe project​​ che offre alcune linee generali di azione per orientare le università, soprattutto per il trasferimento dei crediti. Le università di Deusto-Bilbao (Spagna) e Groningen (Olanda) sono i centri di elaborazione del progetto di sintonia dei sistemi educativi, vengono rivisti gli obiettivi e precisate le aspettative di ciascuna disciplina (competenze generali e specifiche), senza che le università perdano specificità e autonomia. I discorsi si concentrano su curricoli e chiarezza dei risultati di apprendimento. I Consigli europei di Lisbona (2000) e Barcellona (2002) convergono sul P.d.B. Entrando nel sistema di convergenza le università accettano di condividere l’obiettivo comune e lo realizzano a livello nazionale (riforme strutturali), internazionale (incontri e verifiche europee), istituzionale (Facoltà, Dipartimenti). Nel 2007 sono 46 i Paesi che partecipano al P.d.B. Le nuove priorità riguardano: la sinergia tra ricerca e formazione; la dimensione sociale; la mobilità; le relazioni con il resto del mondo. Nel bilancio di Londra,​​ Stocktaking Report​​ (2007), si sollecita la predisposizione di percorsi di istruzione superiore flessibili, con il riconoscimento di apprendimenti maturati in vari contesti. Le sfide correnti per il sistema italiano sono: la dispersione negli studi; il conseguimento del titolo entro i tempi prescritti; il miglioramento dei livelli di occupazione di chi ha conseguito la laurea triennale; l’internazionalizzazione del sistema universitario.

Bibliografia

Haug G.,​​ Tuning educational structures in Europe.​​ Project launching event. The Tuning project in the context of main trends in higher education in Europe, Brussels, European University Association (EUA), 4 May 2001; Europa,​​ Ricerca e formazione.​​ Verso uno spazio europeo della ricerca, in http: / / europa.eu / scadplus / leg / it / lvb / i23010.htm, 2005; Rauhvargers A. et al.​​ (Edd.),​​ Bologna Process Stocktaking Report from a working group appointed by the Bologna Follow-up Group to the Ministerial Conference in London, May 2007, London, Department for Education and Skills, Socrates, 2007.

S. Chistolini




PROCESSO EDUCATIVO

 

PROCESSO EDUCATIVO

Per p. si intende in generale una successione di fatti o fenomeni o attività aventi tra loro un nesso più o meno profondo. A voler essere più circostanziati, specie quando si parla di p. storici, in cui oltre agli andamenti fisici, naturali, interviene anche l’azione umana libera, nell’idea di p. è contenuta anche l’implicanza di una sequenzialità rivolta verso qualcosa che si pone, più o meno coscientemente, come fine e che porta a organizzare l’insieme, e persino a sottoporre a regole e norme le soggettività che intervengono o interagiscono nel p. In pedagogia l’idea di p. è anzitutto connessa con il divenire e con la crescita delle persone. In tal senso il termine si applica alla​​ ​​ formazione. Il concetto di p. è poi applicato all’azione e all’intervento di educatori (e degli stessi educandi) sul divenire personale. In tal senso si parla di p.e. (​​ educazione).

1.​​ L’educazione come p.​​ L’educazione, infatti, non si risolve in un atto singolo o in un’azione di breve durata. Necessita di dispiegarsi nel tempo e di agire su piani articolati e diversi; e di organizzarsi secondo un certo disegno o progetto, più o meno manifesto o più o meno cosciente, ma non per questo meno impegnativo o strutturante l’azione concreta (​​ curricolo). In senso più largo l’educazione è p. perché parte dalla carica di vitalità insita nell’organismo totale, la sviluppa e la investe nelle situazioni relazionali in cui viene a vivere e operare. Essa, infatti, per un verso funziona come una​​ concentrazione interna​​ di strutture e dinamiche germinali corporee e psichiche, spirituali e di grazia, e per altro verso come​​ sviluppo evolutivo genetico​​ di personalità, di vita, di comportamenti, di un sistema di relazioni verso sé, gli altri, il mondo, la società, la cultura, la storia, la trascendenza.

2.​​ Proposte diverse.​​ Il behaviorismo insiste sul p. d’apprendimento sociale rinforzato. La​​ ​​ psicoanalisi mette a fuoco il p. di rientro nelle profondità inconsce, di gioco dinamico tra es, ego e super-ego, di funzione mediatrice dell’io, di patologia e di sublimazione. L’​​ ​​ umanesimo, classico e nuovo, definisce preferibilmente p. cognitivi, elettivi, conativi, proattivi e progettuali virtuosi. L’indirizzo esistenziale ed esperienziale è attento ai p. fattuali, relativi, contestuali e storici. Indirizzi di​​ ​​ psicopedagogia e sociopedagogia si spartiscono accentuazioni intime e ambientali, relazionali formali e contenutistiche. Qualcuno aggiunge p. di trascendenza etica, storica, religiosa.

3.​​ P.e. formali. Il p.e. globale si articola in molti p. formali e sostanziali.​​ Tra i primi si possono includere p. di​​ ​​ liberazione della vitalità interiore, fino alla massima espansione organica, funzionale e operazionale. Centrale è il p. di liberazione delle condizioni di uso abituale della libertà personale come fatto e valore psicologico, etico, sociale, religioso. La pedagogia recente ha dato molti nomi e contenuti a questo p.e. fondamentale: realizzazione di sé e del potenziale vitale (​​ Rogers, Karkhuff),​​ ​​ autoeducazione (Schneider),​​ ​​ personalizzazione (García Hoz), ominizzazione e cristificazione (Teilhard de Chardin), coscientizzazione (​​ Freire), epigenesi o divenire dell’io (​​ Erikson,​​ ​​ Allport, Rapaport, Guindon), liberazione popolare (Pedagogia terzomondista). I p. di​​ ​​ socializzazione guidano l’inserimento della persona nelle relazioni interpersonali, nei sistemi culturali di interpretazione, di valori, di progetti, nei sistemi politici, economici, professionali lavorativi, religiosi, in quelli del mondo fisico e virtuale. Oggi i p. di​​ ​​ comunicazione hanno aperto nuove vie, offerto potenti strumenti, permesso migliore conoscenza e uso delle dinamiche, delle leggi, delle condizioni di apprendimento-insegnamento, messo a disposizione informazioni variegate: non senza l’insorgenza di specifici problemi umani, esistenziali, educativi. Così pure, oggi si è molto attenti e si provano strategie specifiche per p. di cambiamento, correzione,​​ ​​ conversione, recupero, rieducazione. Ma per essi oltre il curare c’è il rimotivare e l’esercitare in positivo persone e comunità di riferimento. In tal senso dovrà essere necessaria la critica relativa ai sistemi culturali e valoriali di appartenenza; e magari occorrerà impegnarsi a far evolvere e cambiare radicalmente non solo persone, ma anche contesti di vita.

4.​​ P.e. sostanziali.​​ Tra essi si può anzitutto includere la​​ ​​ identificazione personale che è conquista di una identità personale, culturale e sociale, autocosciente ed articolata, di una buona immagine di sé, tra reale, profondo e idealità, aperta a sviluppi e consolidamenti. La​​ ​​ appartenenza è presa di coscienza, definizione, sviluppo relazionale centripeto e centrifugo, dell’essere​​ con e in​​ relazione ai sistemi contestuali naturali, personali, sociali, etnici, politici, religiosi, ma anche generazionali, locali e mondiali, intimi e pubblici. In tal senso è p. dinamico da interpretare, da assimilare e integrare nelle sue molte dimensioni. La​​ ​​ partecipazione operativa attiva, consegue dalla sintesi dinamica delle diverse facce dell’identità e della pluralità delle appartenenze. Esige un’ampia articolazione di sotto-processi educativi soggettivo-oggettivi, di percezione, valutazione, giudizio, decisione, preparazione, divenire complesso e realistico. È unitaria rispetto alla soggettività olistica impegnata; è pluralistica rispetto alla molteplicità contemporanea di ruoli e compiti. Rischia conflitti e richiede composizioni e integrazioni impegnative, gerarchie di verità e valori, priorità di impegni e di urgenze.

5.​​ Il​​ cammino processuale.​​ Una sequenza di p. chiede riflessione e attuazione competente. L’​​ ​​ azione educativa parte impegnando il soggetto in un p. di​​ esperienza conoscitiva​​ delle realtà interiori e di contesto, delle rappresentazioni di valore e di verità, di norme e di modelli di atteggiamento e di comportamento. Passa attraverso un p. decisivo di​​ valorizzazione​​ oggettiva e soggettiva, personalizzata. Genera​​ ​​ amore che è​​ tensione affettiva e morale, tendenzialmente irresistibile. Sviluppa il​​ dovere,​​ non come necessità esterna, ma come tensione interiore. Conclude con la​​ volontà dei fini e dei mezzi, di consenso e di coerenza. Segue l’attuazione​​ fedele. Globalmente vi è un p. unico di interiorizzazione di fattori reali, ideali e modali educanti e di investimento integratore di sé e dei propri poteri vitali personali e contestuali. Il p. di​​ organizzazione personale​​ cognitiva, affettiva, progettuale, resta sempre solo relativamente finalistico in quanto è sempre aperto a ulteriori aggiunte e dilatazioni, miglioramenti di qualità e perfino correzioni, cioè sempre critico e disposto a p. continui di ristrutturazione del campo e di riorganizzazione più avanzata di esso.

6.​​ Quando i. p. sono educativi?​​ Lo sono per alcune qualità: in quanto sono consapevoli e intenzionali, vale a dire rivolti all’effettiva educazione della personalità; in quanto sono direzionali, vale a dire dotati di spinta e tensione intenzionale umanamente significativa; in quanto sono complessi, vale a dire liberatori di vitalità, relazionali a realtà, generatori di buone forme dell’essere, dell’agire virtuoso, dell’operare valido, del vivere solidale con gli altri; ed infine in quanto sono bisognosi di mediazione e di guida.

Bibliografia

Allport G. W.​​ Divenire. Fondamenti di una psicologia della personalità,​​ Firenze, Barbera, 1968; Gianola P.,​​ Il campo e la domanda,​​ il progetto e l’azione. Per una pedagogia metodologica.​​ Edizione a cura di C. Nanni, Roma, LAS, 2003; García Hoz V.,​​ L’educazione personalizzata, Brescia, La Scuola, 2005.

P. Gianola




PROFESSIONALITÀ

 

PROFESSIONALITÀ

Acquisire nuova p. è un’esigenza sentita fortemente dalle società moderne ad alto sviluppo tecnologico. È un termine che non si trova in tutte le lingue e non è in realtà facile definirlo, anche perché esso è molto legato ad un certo modello organizzativo del mondo del​​ ​​ lavoro e a volte ad una visione settoriale di chi svolge una determinata attività.

1.​​ Una realtà composita.​​ La p. si evolve nel tempo seguendo l’evolversi del sistema di rapporti tra mondo produttivo e società, istruzione e sviluppo economico-sociale di un Paese. Quando parliamo di p. potremmo comunque intendere​​ l’insieme unitario di conoscenze e competenze operative mediante le quali l’uomo si pone intenzionalmente di fronte alla vita attiva riferita ad un preciso contesto storico «possedendo» in termini positivi un suo lavoro​​ (Chiosso, 1981, 153).​​ Il termine p. non abbraccia solo una dimensione oggettiva che riguarda esclusivamente il posto di lavoro, ma anche una dimensione soggettiva più attenta alla qualità e ai valori richiesti alla persona che lavora. Tutto ciò rende la p. una realtà composita che coinvolge dimensioni conoscitive e capacità operative, atteggiamenti nei confronti del lavoro e delle stesse strutture interessate alla produzione e formazione. Per p. quindi si potrebbe anche intendere​​ il processo attraverso il quale l’uomo,​​ mediante il lavoro,​​ costruisce il suo progetto di vita,​​ qualunque esso sia.​​ In questo senso la p. non esprime soltanto la qualificazione dell’attività, ma anche la qualificazione dell’uomo che lavora. Essa dunque non è uno stato, ma un processo che si sviluppa tra l’uomo e la realtà dinamica oggettiva in una società in evoluzione. Una definizione di p. può quindi assumere sfumature e caratteristiche alquanto diverse in base ai modelli presi come riferimento sull’organizzazione del lavoro.

2.​​ Modelli di p.​​ Restringendo l’analisi al sec. XX, un primo modello di p. è quello che fa riferimento all’organizzazione scientifica del lavoro elaborata da Taylor dove i compiti complessivi di un’organizzazione vengono assolti da compiti individuali ben distinti, analizzati in dettaglio, in modo da scomporli in semplici operazioni facilmente eseguibili legate ad un posto di lavoro ben definito. È questo un modello che l’evoluzione tecnologica tende oggi a superare, sostituendo la logica della mansione con quella del ruolo che nel lavoro, oltre alla parte esecutiva, considera anche le aspirazioni, le attese e i comportamenti con i colleghi, le problematiche aziendali e sociali. Un secondo modello di p. deriva dalla teoria delle relazioni umane che vede non solo le problematiche del posto di lavoro ma anche delle persone che lo occupano, che devono essere motivate e indotte a partecipare al sistema di comportamento organizzativo in modo da riuscire, per quanto è possibile, a coniugare il raggiungimento degli obiettivi personali con quelli del mondo esterno. La p., vista in quest’ottica, non è più legata unicamente ai processi tecnologico-produttivi, ma anche ad altre istanze sociali e personali. Si vuole giustamente accentuare che è opportuno tenere ben presente nell’organizzazione del lavoro il problema produttivo non staccato da aspetti legati al comportamento umano, ma legato ad aspetti attitudinali, motivazionali e di atteggiamento. Un terzo modello di p. mette in particolare rilievo gli aspetti razionali e intellettivi del comportamento organizzativo. Esso si ritrova oggi con sempre maggiore frequenza in opere di economisti, di studiosi dei processi di pianificazione, di sociologi e psicopedagogisti industriali, di filosofi e di teologi sociali. Secondo questo modello, ancora da approfondire, la p. può essere definita da una serie di elementi basati sulla capacità di prendere decisioni e risolvere problemi; sulla capacità di definire di volta in volta gli atteggiamenti voluti, gli obiettivi da perseguire e i parametri quantitativi e qualitativi necessari per raggiungerli. In questa nuova concezione, p. significa non solo capacità di capire e guidare gli scopi, di collaborare con membri del proprio gruppo nel lavoro, di comunicare con tutti e sviluppare positive azioni di influenza sociale, ma soprattutto significa nuovo modo di organizzare il lavoro. Questo modello suppone di organizzare gli interventi in cui si utilizza la propria capacità professionale sul massimo decentramento possibile, cercando di coordinare la più larga partecipazione per armonizzare e anche potenziare, nei rapporti di produzione e di lavoro, l’efficienza con la democrazia.

3.​​ Caratteristiche della p.​​ Nel definire la p. è quindi necessario tener presente un insieme di dimensioni soggettive e oggettive che riguardano sia le qualità e i valori richiesti alla persona, sia i problemi di interazione con strutture e persone nel suo rapporto con il mondo esterno. Un insieme di fattori che caratterizzano la p., legati all’acquisizione di conoscenze sul ruolo da assumere e sulle principali caratteristiche richieste dal lavoro che si intenderà svolgere, alla capacità di risposta ad una domanda tecnologica e culturale sempre più esigente ed alla capacità d’immaginare soluzioni diverse dalle attuali. Una peculiarità della nuova p. riguarda però la sua dinamicità, il suo evolversi nel tempo, provocato anche dalla necessità di un continuo confronto con la realtà odierna. In questo contesto si evidenzia come una delle principali caratteristiche la predisposizione al cambiamento, alla formazione permanente e alla capacità di collaborazione in un contesto pluralistico. Non è ormai pensabile poter acquisire tutto a 20 / 30 anni, ma è necessario continuare a confrontare quanto acquisito con il mondo in rapido cambiamento, essere attenti alle osservazioni e ai rilievi che via via vengono fatti da studiosi sull’argomento. La capacità di aggiornarsi è diventata ormai un elemento caratterizzante della nuova p.

Bibliografia

Chiosso G.,​​ Cultura,​​ lavoro e professione, Milano, Vita e Pensiero, 1981; Margiotta U. et al.,​​ La p. docente nell’istruzione secondaria: Syllabus, Lecce, Pensa Multimedia, 2004; Cambi F. et al.,​​ Le p. educative: tipologia,​​ interpretazione e modello,​​ Roma, Carocci, 2003; Fontana U.,​​ Senza perdersi: p. e relazioni pastorali, Padova, Messaggero, 2005; Negri M. P. - M. Castoldi,​​ P. formativa empowerment per le scuole, Milano, Angeli, 2007.

N. Zanni




PROFILO EDUCATIVO

 

PROFILO EDUCATIVO

Per p.e. si intende la descrizione sintetica delle caratteristiche personali di natura cognitiva, affettiva, motivazionale e sociale, tracciata in generale al fine di impostare, condurre e valutare un intervento educativo.

1.​​ In psicologia dell’educazione.​​ Il p. di un soggetto viene definito sulla base dei problemi educativi che devono essere affrontati. Le variabili prese in considerazione possono essere variabili di personalità (come sistema di valori personali, autostima), variabili di atteggiamento (come disponibilità verso un’attività o una relazione), variabili di competenza (come capacità strategiche di controllo delle emozioni), variabili cognitive (come struttura della conoscenza), variabili affettive (come ansia di base, livello di emotività) ecc. La descrizione delle caratteristiche di un soggetto viene espressa generalmente per mezzo di scale che indicano i livelli o valori assunti dalle variabili prese in considerazione. Per giungere a queste descrizioni si possono usare strumenti diagnostici differenti come​​ ​​ test,​​ ​​ questionari,​​ ​​ colloqui,​​ ​​ osservazione sistematica, ecc. Nel caso di disturbi, evidenziati da livelli bassi nei valori rilevati per le diverse variabili, il p. assume il ruolo di diagnosi funzionale per impostare un’azione terapeutica e / o rieducativa. In psicologia comportamentale la definizione di un p. di base serve a evidenziare i comportamenti «bersaglio» e quindi gli obiettivi di modifica del comportamento da conseguire.

2.​​ In didattica.​​ Il p.e. assume caratteristiche analoghe a quelle di un p. psicologico, ma in questo caso le variabili considerate si riferiscono prevalentemente alle conoscenze effettivamente disponibili (concetti e abilità), agli atteggiamenti verso le discipline e in genere verso la scuola, alle competenze strategiche relative all’​​ ​​ apprendimento. Per redigere un p. possono essere usati sia i risultati scolastici, sia dati desunti dall’applicazione di test e questionari, sia elementi derivati da colloqui e da osservazioni sistematiche. Il risultato di questa descrizione serve da base di appoggio per impostare l’azione didattica. Anche in questo caso un p. che faccia emergere debolezze o particolari doti segnala l’esigenza di impostare percorsi di insegnamento più individualizzati e rivolti a rispondere alle carenze o punti di forza emersi.

3.​​ In campo educativo.​​ Il termine è stato usato in una pluralità di accezioni: a) come descrizione di un modello di riferimento per l’azione educativa sia dal punto di vista dell’educando (modello ideale di giovane educato), sia da quello dell’educatore (personaggi o modelli ideali ispiratori per impostare l’azione educativa); b) come descrizione di modello di pratica educativa oppure di uno stile educativo particolare; c) come descrizione, talora categorizzata per tipologie distinte, di soggetti per i quali si deve impostare un’azione educativa. Secondo quest’ultima categoria può essere ricondotta la proposta di de La Garanderie (1991) che tratta appunto di «p. pedagogici» nel senso di caratteristiche personali degli educandi da individuare, evidenziando più che i lati deboli, le qualità positive al fine di potenziare queste ultime e far leva su di esse per promuovere una crescita equilibrata che tenga conto anche delle altre qualità necessarie.

Bibliografia

Scurati C.,​​ P. nell’educazione,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1977; Suggett D.,​​ Guidelines for descriptive assessment,​​ Melbourne, VISE,​​ 1985; Broadfoot P. (Ed.),​​ Introducing profiling: a practical manual,​​ London, Macmillan, 1987; La Garanderie de A.,​​ I p. pedagogici,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1991; Calonghi L.,​​ P. e livelli nella valutazione del profitto,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 605-616; Calonghi L. - C. Coggi,​​ P. e valutazione formativa,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 39 (1992) 977-990; Center D. - L. Allison,​​ Il p. psicologico, Roma, Carocci, 2004.

M. Pellerey