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POLITICA

 

POLITICA

1.​​ Potere politico e​​ ​​ formazione.​​ Vi è connessione tra esercizio del potere politico e processo educativo. L’azione p. implica necessariamente una concezione dell’uomo e della società (eguaglianza e perequazione sociale, tolleranza e pacifica convivenza, p. culturale e difesa delle minoranze, ecc.). La formazione non può sfuggire a quei modelli politici con cui nella prassi deve misurarsi (assetto istituzionale, distribuzione del potere, ripartizione dei ruoli, ecc.). Da una parte l’esercizio del potere comporta scelte di indirizzo e di intervento, con conseguente incremento ad una cultura della p. che è anche ricerca e formazione Dall’altra il conseguimento di un’istruzione superiore o di nozioni speciali si configura come una condizione primaria, tale da permettere la strada al successo e a vere e proprie posizioni di potere. Politologi e attori politici svolgono ruoli concettualmente distinti, tuttavia non separabili, talora assommati in una stessa persona se questa appartiene ad uno schieramento politico. Infatti la p. è​​ arte​​ e​​ scienza:​​ arte come tecnica, tattica e prudenza insieme; scienza come elaborazione di strutture conoscitive. Da​​ ​​ Socrate in poi, gli aspetti politici dell’educazione vengono messi in risalto sotto questo o quel profilo. Per​​ ​​ Platone vi è coincidenza tra formazione dei filosofi e formazione dei reggitori della​​ polis.​​ Nella storia occidentale, con l’avvento del concetto di​​ societas,​​ i grandi movimenti politici sono stati preceduti, accompagnati o seguiti dalla fondazione di istituzioni educative. Circa gli studiosi del nesso tra p. e educazione possiamo partire da J. Locke e​​ ​​ Rousseau, per giungere a W. von Humboldt e J. S. Mill e terminare con i più vicini ai problemi del nostro tempo: da M. Weber a M. Horkheimer, J.​​ ​​ Maritain e J. Rawls. L’idea di p. come vocazione, l’umanesimo integrale e il neocontrattualismo uniscono e distinguono p., formazione e giustizia. Ugualmente la teoria critica non mirava al puro aumento del sapere, bensì all’emancipazione dell’uomo. Ulteriori contributi sono ricavabili tuttora dalla riflessione di​​ ​​ Gramsci sul nesso tra azione educativa e prassi p. L’esercizio del potere può assumere due aspetti nei riguardi dell’universo educativo. Si può parlare di una p.​​ educante​​ oppure di una p.​​ educativa.​​ Nel primo caso, la p. stessa, in quanto ordinamento della società secondo un orientamento valoriale, pone le premesse dell’educazione, intesa come iniziazione etica e civile. È in una società, e più precisamente entro istituzioni giuste, che un soggetto esistente diviene soggetto responsabile, consapevole, storico. Ciò che è accidentale o precario è elemento costitutivo delle singole realtà, problematiche per natura e definizione rispetto a determinati obiettivi da spostare sempre più avanti e in vista di valori perennemente da realizzare. La p. esercita una sua funzione educante proprio perché indirizzata, con forte realismo, nelle sue espressioni più nobili, verso quei fini che, per largo consenso, sono fondamentali per ogni assetto sociale: libertà, razionalità, democrazia, uguaglianza, sicurezza, progresso, solidarietà. Tuttavia l’indagine circa i risultati deve essere avalutativa, ossia imparziale e oggettiva a prescindere dai motivi ideali a cui si sono richiamati gli attori politici. L’Occidente del secondo dopoguerra, nei casi felici della ricostruzione e della pace, ha mostrato la tendenza verso una​​ paideia​​ fatta, come dev’essere, di cultura (coltivazione e tutela di beni artistici e scientifici) e di civiltà (ordinamento razionale delle istituzioni, sulla base dei diritti dell’uomo e del cittadino). Ora, la connessione tra p. e educazione non è mai un punto di partenza, bensì una meta perenne. Finanche le situazioni migliori possibili presentano punti di frizione. Se poi guardiamo ad archi di tempo secolari, se non addirittura millenari, scorgiamo non poche fratture tra esercizio del potere e disegno ordinato della società. La classe p., in ogni epoca, mira a interessi politici. Entro questa prospettiva la formazione, la cultura, la scienza possono essere strumentalizzate per il potere o a favore dell’immagine di chi lo detiene. Il mecenatismo è prodigo di benefici per poche persone ed ignora il rimanente della società. L’assolutismo illuminato si ispira alla ragione che, in primo luogo, è ragione di Stato. Il tiranno che erige monumenti perenni, a testimonianza della propria gloria, opprime chi non si piega ai suoi voleri. Ogni forma di protezionismo culturale e formativo, a favore di individui o di ceti privilegiati, tende alla egemonia e alla censura. Se la cultura ufficiale, in nome di un ugualitarismo di facciata, è omologata, vengono ostacolate la irriducibilità e singolarità di ciascuna persona e ogni forma di creatività individuale o collettiva. La p.​​ educativa,​​ almeno così come viene intesa comunemente in senso riduttivo, si occupa di quelle particolari istituzioni sociali che, insieme a vari apparati di supporto, hanno per scopo l’istruzione di vario livello ed indirizzo. Se non sono accettabili, per nessun campo politico, l’improvvisazione e il dilettantismo, tanto più questa affermazione vale per coloro che gestiscono strutture e risorse per la formazione delle coscienze. Sono facilmente prevedibili effetti perversi, a danno di intere generazioni, quando gli attori politici sono impreparati e quando vi sono contraddizioni tra successive gestioni. Per ogni caso ed ogni situazione l’impatto dottrinale o ideologico è indubbio, se non addirittura funzionale. Però va colto esso stesso come oggetto d’indagine per i segnali che fornisce e le conseguenze che provoca. Inoltre tutte le iniziative politiche cadono su realtà dinamicamente complesse, rese tali dai rapporti di forza esistenti tra ceti e gruppi sociali che esprimono interessi e aspettative più o meno maturi e livelli culturali di base più o meno elevati. Per queste ed altre ragioni non esistono istituzioni e modelli educativi trasferibili da una situazione nazionale all’altra, anche se si possono costruire criteri e paradigmi per valutare differenti situazioni e confrontarle. Un discorso parallelo, integrativo e complementare a quello della p. educativa è quello sulla​​ ​​ educazione sociopolitica. Con quest’ultima espressione ci riferiamo sia alla maturazione dei cittadini in quanto tali sia ad una vera e propria materia scolastica. Uno dei fini dell’educazione, considerata sotto questo profilo, è la formazione dei soggetti e dei gruppi sociali alla cultura p., fatta di concettualizzazione e di determinate conoscenze. Si possono avere opinioni diverse, o anche diametralmente opposte, circa i medesimi fatti o eventi politici. Però le regole del discorso devono essere uguali per tutti perché universali e le regole del gioco devono essere rispettate da tutti perché pattuite. La conoscenza di ciò che è negativo in una determinata situazione non è lo scopo ultimo dell’educazione sociopolitica; occorre anche sapere perché si ritiene negativo questo o quello. Se è inammissibile una pedagogia di Stato, è altrettanto illecito che la classe p. contraddica con i suoi interventi le linee di sviluppo, scientificamente fondate, dell’azione educativa. Di qui la necessità di definire i compiti degli attori politici nel campo della formazione. Non occorre che costoro siano esperti di pedagogia: è necessaria la consapevolezza da parte loro dei rapporti tra scopi e scelte, tra scelte e risultati, tra risultati e successivi interventi in un campo specifico dell’azione p. Neppure si chiede che dirigenti scolastici e insegnanti siano scienziati della p. per il fatto di svolgere una funzione pubblica che, in quanto tale, ha rilevanza p. Si chiede però che siano consapevoli di tale rilevanza. I problemi della scuola rimangono velleitari se vengono ignorate quelle premesse politiche che sole permettono di affrontarli.

2.​​ La scienza p. dell’educazione.​​ La scienza p. dell’educazione rappresenta un netto progresso rispetto alla p. educativa, genericamente intesa. Essa studia la funzione educativa degli atti politici e i risvolti politici dei fenomeni educativi. È una disciplina applicata a quelle istituzioni e a quegli interventi che possono favorire per tutti i cittadini la migliore educazione possibile. Pertanto per scienza p. dell’educazione si intende l’insieme ordinato di dottrine e teorie che regolano sia le scelte di grande rilievo (programmazione, riforme, investimenti, ecc.) sia i provvedimenti concreti (organizzazione, gestione, dirigenza delle scuole, ecc.) per l’educazione dei singoli e l’elevazione culturale dei gruppi sociali. Essa è una specializzazione della scienza p. generale. Con l’espressione onnicomprensiva​​ volontà p.​​ possiamo denominare sia l’imperio della classe p. sia l’influenza della classe dominante sulle istituzioni formative, scolastiche ed extrascolastiche. La classe p. è composta dalle persone collocate in sedi politiche (parlamento, governo, partiti politici). La classe dominante è composta da coloro che, pur non ricoprendo cariche politiche, esercitano le loro attività entro istituzioni non-politiche ma con indubbi riflessi politici (grande finanza, industria culturale, ordini professionali, corpi accademici, centri di informazione, ecc.). Possiamo usare l’espressione​​ valenza p.​​ per denotare gli aspetti politici dell’educazione, per quanto riguarda sia gli educatori (esercizio di un’autorità legittimata da determinati principi e regolata da una legislazione speciale), sia gli educandi (arricchimento delle loro capacità e abilità con conseguente arricchimento della loro personale forza contrattuale; riconoscimento del loro​​ status​​ di studenti con diritti di partecipazione e integrazione; flessibilità dei piani di studio con «crediti» e opzioni). Il diritto all’educazione, in tutte le sue forme, è il riconoscimento globale di questi aspetti politici dell’educazione. Nei Paesi di consolidata tradizione democratica la formazione tende ad emancipare le persone e ad esaltarne le caratteristiche. Di qui lo spazio concesso a percorsi mobili (uscite e rientri, curricoli individualizzati, sistema dei crediti, ecc.). Nei Paesi del socialismo reale, fino alla fine degli anni Ottanta, gli interessi individuali erano subordinati a quelli collettivi. Di qui una stretta correlazione tra programmazione educativa e pianificazione economica. Per comprendere la varietà dei modelli e delle strutture occorre rifarsi a ragioni storico-politiche.

3.​​ Prospettive di sviluppo.​​ Lo scopo della scienza p., nella mente dei suoi fondatori, consiste nella scoperta e dimostrazione di quelle leggi o tendenze costanti che regolano l’ordinamento politico (Mosca, 1895). La sua natura, oltre che teorica, è operativa. La scienza p. dell’educazione, un suo settore tendenzialmente autonomo, ne condivide la vocazione pragmatica (Izzo, 1994). Dalla scienza p. generale essa acquisisce l’approccio sistemico a particolari aspetti della realtà sociale. Pertanto essa prende l’avvio dai temi di fondo: i rapporti di potere, la formazione delle decisioni, la legittimità delle leggi, la legalità delle norme, la discrezionalità degli atti. Riprende anche alcune distinzioni categoriali, quali consenso, assenso e dissenso; classe p., dominante e dirigente; potere, autorità e dominio, ecc. Sotto questo profilo si arricchiscono di significato e divengono comprensibili alcune espressioni pedagogiche, come educazione compensatrice, pari opportunità, libertà didattica, ecc. Gli studi sulla p. educativa, condotti fino a farne una scienza, sono stati incrementati dallo Stato sociale e dalla conseguente evoluzione delle politiche sociali. Per comprendere il passaggio da condotte empiriche ai fondamenti di una vera e propria scienza p. dell’educazione, si può partire da una classificazione che di recente si è andata precisando nel campo della politologia. È ufficio della p. generale (politics)​​ gestire interventi ordinari e affrontare eventi straordinari. Alle singole condotte politiche (policies)​​ spetta garantire unitarietà d’indirizzo e di programmazione nei singoli settori specifici (difesa, interni, esteri, ecc.), con buone approssimazioni circa gli effetti prevedibili. Però è da preventivare anche l’imprevedibile, giacché non è sopprimibile ogni elemento di accidentalità o di disordine. Ciò che è precario costituisce elemento costitutivo dell’esperienza sociale e p. Per quanto concerne la realtà educativa, va detto che essa è fatta di persone consapevoli, ciascuna a sua misura, dei propri bisogni. Rimangono inavvertite spesso le reali necessità. Lo scopo politico è quello di sollecitare nelle persone la coscienza dei propri bisogni reali e di elevare i livelli delle loro aspettative, mediante interventi coordinati di natura sociale. Rispondere soltanto a domande esplicite, ancorché arretrate, significa consolidare l’esistente. L’educazione rientra nelle materie delle​​ social policies​​ (insieme all’assistenza, alla sanità, alla previdenza sociale, ecc.), dando luogo appunto alla cosiddetta​​ educational policy.​​ Con quest’ultima espressione non si intende «p. educativa» nel senso comune (l’opera dei ministri o degli amministratori), bensì condotta p., basata scientificamente, a proposito di ciò che è «educazionale». E per educazionale si intende la somma degli interventi o dei provvedimenti che, pur non essendo direttamente educativi (per es., la valutazione della «produttività» scolastica), promuovono l’azione educativa in ogni sua espressione. Fondare o gestire razionalmente le istituzioni formative sono atti squisitamente politici. La razionalità delle istituzioni lascia campo all’attività professionale dei dirigenti e dei docenti. La p. educazionale non detta precettistiche pedagogiche. Designa e assegna ruoli (attori politici, funzionari amministrativi, esperti, e via di seguito). Ogni​​ policy​​ ha un’importanza equivalente rispetto a tutte le altre. Tuttavia la​​ educational policy,​​ a giusto titolo, può essere considerata preminente e prioritaria perché permette al cittadino di fruire al meglio dei servizi erogati da tutte le altre condotte politiche. Questa affermazione è convalidata da una recente teoria circa la massimizzazione dei fini. I fini delle varie condotte politiche sono molteplici e, oltre certi livelli di incremento, divengono tra loro contraddittori. Per es., «i processi sociali congruenti con la massimizzazione del valore di sicurezza non sono necessariamente adeguati anche come strumenti per la realizzazione del valore di libertà o di uguaglianza» (Fisichella, 1994, 52). Fanno eccezione i fini educativi, che non presentano alcuna contraddizione con nessun altro fine sociale, ma addirittura, quando sono perseguiti nel modo migliore possibile, permettono di regolare e valutare tutti i fini sociali.

Bibliografia

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D. Izzo




portatori di HANDICAP

 

HANDICAP: portatori di

Non è sempre facile trovare il vocabolo più adatto per esprimere una realtà, soprattutto se questa è complessa e tocca le persone. Così succede nel caso di cui ora ci occupiamo. Le persone con h. sono quelle che o fin dalla nascita o in seguito a evento morboso o traumatico presentano una menomazione fisica, sensoriale o psichica che impedisce o rende loro più difficile vivere una vita autonoma e indipendente.

1.​​ Uso terminologico.​​ La terminologia usata per riassumere questo concetto con migliore o peggiore fortuna, è stata molto varia: deficiente, minorato, anormale, subnormale, ipodotato, ecc. sono tutti termini usati e criticati. L’elenco è più ampio se lo restringiamo al campo dell’h. mentale, cominciando dalla classica distinzione tra idiozia, imbecillità e debolezza. Sempre nel campo dell’h. mentale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 1954, propose il termine di «insufficienza mentale». Successivamente si è andato affermando, perché ritenuto più socialmente accettabile e meno carico di prognosi negativa, il termine handicappato o persona portatrice di h., sia esso fisico, sensoriale o mentale. Ultimamente ha prevalso la dizione «diversamente abile». Alle tre categorie sopra indicate (fisico, sensoriale e mentale) si farà ora riferimento, dando maggior rilievo alla problematica relativa alle persone con h. mentale.

2.​​ Gli h. fisici o motori.​​ Ne sono portatrici quelle persone che per difetto di sviluppo congenito o acquisito sono diventate deficitarie nell’uso del corpo e delle membra. Una classificazione di questi h. motori può essere fatta a seconda dell’origine cerebrale, spinale, muscolare o osseo-articolare. È evidente che ciascuno di questi tipi di minorazione pone problemi specifici per l’influsso che esercita sulla​​ ​​ personalità o sul comportamento del soggetto e per le possibilità di​​ ​​ recupero che offre. Le conseguenze di queste minorazioni sullo sviluppo globale della persona sono collegate alla loro gravità, agli eventuali disturbi associati e possono produrre insicurezza e sensi di esclusione e di abbandono. L’azione di recupero e riabilitazione, oltre che essere tempestiva, deve mirare ad un recupero funzionale, a dare alla persona il massimo possibile di autonomia e indipendenza ed a garantire una valorizzazione personale e sociale. È importante sottolineare, però, che l’h. non porta necessariamente al disadattamento ma che il disadattamento è solo uno dei modi di vivere l’h.

3. Gli h. sensoriali.​​ Si riferiscono, in modo particolare, alle minorazioni visive e a quelle uditive, nelle principali gradazioni di gravità (ciechi e ambliopi per gli h. visivi, sordomuti e sordastri per gli h. uditivi). Anche queste deficienze sensoriali pongono problemi di sviluppo equilibrato e armonico delle persone che ne sono portatrici e richiedono interventi psicopedagogici adeguati. Gli interventi di recupero nel caso di h. sensoriali hanno alla base due tipi di azione: l’utilizzo ottimale dei resti sensoriali e il potenziamento della cosiddetta supplenza sensoriale. I resti sensoriali vanno bene utilizzati anche con eventuali protesi, eccetto nei casi in cui una loro sovrastimolazione possa essere nociva. La supplenza sensoriale, e cioè la sostituzione delle funzioni di un senso con il potenziamento degli altri, è un fenomeno ben conosciuto, anche se le spiegazioni di esso non sono unanimi: c’è una superiorità compensatoria di tipo organico (non è stato mai dimostrato)? c’è un migliore utilizzo degli altri sensi con risultati non raggiunti nella normalità? c’è un arricchimento degli altri sensi dovuto alla necessità di rispondere ad esigenze della vita quotidiana? Queste ultime ipotesi sembrano più accettabili della prima. Nell’intervento rieducativo lo scopo è quello di portare la persona con h. sensoriale il più vicino possibile a fare tutto ciò che fanno coloro che di h. sensoriale non soffrono.

4.​​ L’h. mentale.​​ Nel campo dell’h. particolare rilievo assume l’h. mentale o insufficienza mentale. Si tratta di un problema complesso e difficile. È complesso il concetto, sono complesse le ripercussioni sullo sviluppo globale della personalità, sono complesse le modalità di intervento così come sono complesse le posizioni più o meno ideologicizzate che conducono ai vari tipi di azione di recupero. Tre distinzioni iniziali vanno fatte per aiutare la comprensione del concetto di h. o insufficienza mentale: insufficienza congenita, precoce e insufficienza acquisita; già Esquirol distingueva, a suo tempo, tra demente e deficiente: il primo è un uomo privato dei beni che possedeva, il secondo si è trovato sempre nella povertà. Bisogna distinguere inoltre tra insufficienza mentale e insufficienza affettiva: la frequente interazione tra sviluppo intellettivo e sviluppo affettivo può condurre a diagnosi sbagliate. Molti casi, diagnosticati inizialmente come insufficienze mentali si sono dimostrati in seguito a trattamento psicoterapeutico forme di​​ ​​ autismo o di​​ ​​ psicosi infantili. C’è infine da distinguere tra vero h. e falsa anormalità, dovuta quest’ultima, in particolare, a fattori estrinseci allo sviluppo, e cioè a forme di abbandono intellettuale, morale o fisico.

5.​​ L’identificazione e la successiva classificazione delle forme di h. mentale.​​ Sono andate cambiando nel tempo passando da impostazioni diagnostiche legate ad un solo sintomo ad impostazioni più complesse: si passa, per es., da una diagnosi basata sul linguaggio, all’età mentale o al quoziente di intelligenza, all’esame globale della personalità e del comportamento. Si arriva così al cosiddetto «quoziente di sviluppo» di A. Gesell, quoziente che si ricava dall’analisi di quattro aspetti della personalità: comportamento motorio, comportamento linguistico, comportamenti di adattamento e comportamento personale e sociale. Occorre perciò affermare che l’h. mentale così come è multideterminato è anche multidimensionale. Ragionando in questo modo, P. Parent e C. Gonnet affermano che la nozione di debolezza mentale non ha l’unità concettuale che qualche volta le è attribuita e R. Zazzo sottolinea che «la debolezza mentale non è definibile soltanto per il ritmo intellettuale di crescita». Questa concezione più dinamica del concetto di h. mentale ha favorito il superamento della irrecuperabilità ed ha stimolato pedagogisti ed educatori ad un maggiore impegno sul piano scolastico ed educativo.

6. Dalla diagnosi al recupero.​​ Le migliori possibilità di recupero sono legate alla precocità dell’intervento; da ciò nasce l’esigenza di una diagnosi precoce. Questa può essere soltanto il risultato di una stretta collaborazione tra genitori, asili di infanzia e scuole materne e servizi socio-sanitari per l’infanzia. I genitori vanno aiutati a superare tre grossi ostacoli che ritardano il recupero: la non accettazione dell’h., l’ansia per il futuro del figlio, l’iper-protezionismo. La​​ ​​ famiglia, pertanto, diventa la prima struttura per il recupero delle persone portatrici di h. mentali. La famiglia dovrà successivamente accompagnare l’azione svolta da altre strutture di recupero, come i centri di riabilitazione, la scuola ed i centri di​​ ​​ formazione professionale. L’azione integrata di famiglia, scuola, formazione professionale, servizi sociali e di riabilitazione deve portare al raggiungimento di un obiettivo, meta di tutto l’impegno educativo e rieducativo: l’inserimento sociale e lavorativo della persona portatrice di h. All’azione della famiglia, prima struttura di riabilitazione e inserimento, si aggiunge in un secondo momento la scuola, dalla materna alle superiori. Sono stati ormai superati i tempi degli istituti medico-psico-pedagogici, delle scuole speciali (rimangono, evidentemente, istituzioni specializzate per i gravissimi), delle classi speciali e delle classi differenziali.

7.​​ H. e scuola.​​ L’attenzione sistematica della scuola al problema del recupero dei soggetti portatori di h., e in particolare di h. mentale, risale alla fine dell’Ottocento ed ai primi anni del Novecento. Nomi internazionalmente illustri della psichiatria e della pedagogia italiana hanno messo le basi degli interventi istituzionali di recupero. Basti ricordare S. De Sanctis, M.​​ ​​ Montessori, G. Montesano, C. Bonfigli. Del 1899, infatti, è la creazione della Lega Nazionale per la Protezione dei Fanciulli deficienti. Alla costituzione della Lega fece seguito, nel 1900, la prima Scuola Magistrale Ortofrenica a Roma e, nel 1901, il primo Istituto Medico-Psico-Pedagogico. L’azione di recupero scolastico vide fasi alterne di interesse e di routine e solo alla fine degli anni sessanta, in concomitanza con la rivoluzione socio-culturale di quegli anni, assunse rilievo e ottenne un riconoscimento legislativo a cui, pur lentamente, ha corrisposto un’adesione convinta e partecipe della scuola in particolare e della società civile in generale. La lotta all’​​ ​​ emarginazione di ogni tipo portò anche ad una riflessione sui problemi dell’h. e alla necessità di muoversi nella direzione del superamento di ogni intervento sostanzialmente o apparentemente discriminatorio. Nel 1971 la L. n. 118 del 30 marzo, all’art. 28 afferma, anche se con qualche limitazione legata alla gravità dell’h., che l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica. Questa normativa fu perfezionata e meglio specificata nella L. 517 del 1977. Dalla scuola si ampliò l’azione di lotta all’emarginazione nella formazione professionale, nell’inserimento lavorativo, nelle varie manifestazioni di vita sociale. All’insegna della deistituzionalizzazione si è lavorato per favorire un’integrazione sociale delle persone a rischio: si è trattato, dall’inizio degli anni settanta ad oggi, di un’azione di grande portata civile, anche se condotta a volte senza condizioni che ne garantissero l’efficacia. Si è lavorato con carenza di strutture adeguate e con operatori sociali e scolastici non sempre opportunamente e adeguatamente preparati.

8.​​ Formazione professionale e h.​​ Oltre al lavoro della scuola, va anche riconosciuto il contributo dato dalla formazione professionale per favorire un inserimento lavorativo delle persone con h., nella convinzione che un vero inserimento sociale (obiettivo ultimo dell’azione di recupero) non può essere raggiunto se non si ottiene anche un inserimento lavorativo rispettoso della dignità della persona. Gli interventi tendenti all’inserimento lavorativo hanno potuto avvantaggiarsi di notevoli contributi dell’Unione Europea che, non solo finanziariamente, ma anche con la promozione di scambi di esperienze tra i paesi membri, ha facilitato l’arricchimento a livello di metodologie, tecniche, strumenti e preparazione degli operatori. L’obiettivo «integrazione» nasce dalla centralità della persona e dalla conseguente esigenza di aiutare i portatori di h. ad un recupero di dignità, di autonomia e di protagonismo che, senza ignorare difficoltà oggettive, non parta da posizioni pregiudiziali di totale o parziale irrecuperabilità. A questo riguardo, e lasciando ad altre voci gli aspetti operativi di integrazione scolastica, lavorativa e sociale (​​ sostegno educativo, recupero, rieducazione), vanno sottolineate alcune essenziali esigenze.

9. L’integrazione sociale degli handicappati.​​ Va detto in primo luogo che nessuna vera integrazione sociale della persona con h. è possibile se non esiste accettazione da parte della società in cui deve integrarsi e se da parte della popolazione civile la persona con h. non viene accolta con le sue limitazioni: infatti non c’è integrazione senza accettazione. È anche importante ricordare che per quanto riguarda le possibilità di recupero della persona con h. non è possibile fare delle prognosi a priori: non si possono porre limiti iniziali all’intervento educativo. Va infine detto che occorre prestare particolare attenzione alla parte sana della persona handicappata; a volte, l’attenzione all’aspetto deficitario corre il rischio di far dimenticare lo sviluppo di altre capacità e potenzialità. Sempre in riferimento all’integrazione sociale vanno segnalate tante iniziative oggi esistenti che favoriscono il recupero e l’inserimento di queste persone, tra cui, l’organizzazione nazionale e internazionale di gare e olimpiadi che prevedono la loro partecipazione.

Bibliografia

Zazzo R.,​​ Une recherche d’équipe sur la dé­bilité mentale,​​ in «Enfance»​​ 4-5 (1960) 333-497; Zavalloni R.,​​ La pedagogia speciale e i suoi problemi, Brescia, La Scuola, 1967; Pesci G.,​​ Handicappati e scuola in 7 paesi europei,​​ Roma, Armando, 1977; Bellomo L. - L. Ribolzi,​​ L’inserimento degli handicappati nella scuola dell’obbligo,​​ Bologna, Il Mulino, 1979; Edgerton R.,​​ Il ritardo mentale,​​ Roma, Armando, 1979; Comassi M.,​​ Per l’inserimento degli handicappati nella scuola. Leggi e disposizioni amministrative ordinate e commentate,​​ Pisa, Edizioni del Cerro, 1981; Pavone M. - M. Tortello,​​ Handicappati,​​ scuola,​​ enti locali,​​ Firenze, Nuova Guaraldi Editrice, 1983; Morganti E. (Ed.),​​ Gli handicappati dopo la terza media,​​ Bologna, Cappelli, 1984; Vico G.,​​ Handicappati,​​ Brescia, La Scuola, 1984; Gatto F.,​​ Educazione,​​ scuola,​​ diversità,​​ Roma, Herder, 1991; Ceppi E.,​​ I minorati della vista. Storia e metodi delle scuole speciali,​​ Roma, Armando, 1992; Meazzini P.,​​ Psicopatologia dell’h.,​​ Milano, Masson, 1996; Battaglia A. et al.,​​ Figli per sempre,​​ Roma, Carocci, 2002.

M. Gutiérrez




PORTFOLIO

 

PORTFOLIO

1. Il p. nasce da riflessioni e problematiche sorte nel vissuto scolastico e nella società degli ultimi decenni. I rapidi cambiamenti hanno portato a una revisione del concetto di​​ ​​ apprendimento tradizionale che appare ormai troppo ristretto all’ambiente entro il quale è prodotto e valutato. Molti autori in questi anni hanno sottolineato l’importanza di avvicinare il concetto di apprendimento così come è inteso nel mondo della scuola al concetto di apprendimento così come è inteso nella vita reale. In questa nuova scuola gli studenti dovrebbero essere impegnati ad apprendere conoscenze ma soprattutto a dimostrare come le sanno usare in contesti veri, concreti.

2. Il p. è uno strumento utilizzato nella vita reale da professionisti per raccogliere la documentazione del lavoro che hanno svolto. Introdotto nella scuola, ha assunto una ricchezza di connotazioni e di descrizioni estremamente ampia. Il p. è una raccolta e una antologia sistematica, organizzata, finalizzata, di prestazioni e lavori dello studente in una o più discipline scolastiche, di criteri utilizzati per selezionarli e per giudicare il loro valore accompagnati da autoriflessioni dello studente, ricchezza di evidenza riguardo a ciò che lo studente è in grado di fare e come è in grado di farlo, commenti dell’insegnante. Il suo scopo è quello di raccontare la storia dell’impegno, del progresso e del miglioramento dello studente, per controllare lo sviluppo delle conoscenze, delle abilità e delle attitudini da acquisire in una specifica disciplina, per manifestare interessi, sforzi e per illustrare vari aspetti connessi al processo di apprendimento. Alla raccolta possono contribuire più persone: insegnante, studente, genitori o altri. Lo scopo è quello di incoraggiare nello studente l’attitudine all’autovalutazione del proprio progresso, lo sviluppo del senso di autoefficacia, l’autopercezione delle proprie abilità, le attribuzioni di successo e di fallimento, la scelta di obiettivi e di attività, la responsabilità nel proprio apprendimento.

Bibliografia

Arter J.,​​ Using portfolios in instruction and assessment: State of the art summary,​​ Portland, OR, Northwest Regional Educational Laboratory, 1990;​​ Paulson F. L. - P. R. Paulson - C. A. Meyer,​​ What makes a p. a p., in «Educational Leadership»​​ 48 (1991)​​ 60-63; Arter J.- V. Spandel,​​ Using p. of student work in instruction and assessment, in «Educational Measurement: Issues and Practices»​​ 11 (1992) 36-44; Johnson N. J. - L. M. Rose,​​ Portfolios: Clarifying,​​ constructing and enhancing,​​ Lancaster, PA, Techonomic Publishing, 1997; Wiggins G.,​​ Educative assessment. Designing assessments to inform and improve student performance, San Francisco, CA, Jossey-Bass Publishers, 1998; Comoglio M.,​​ Insegnare e apprendere con il p., Milano, RCS-Fabbri Editore, 2003; Johnson R. S. - J. S. Mims-Cox - A. Douyle-Nichols,​​ Developing portfolios in education. A guide to reflection,​​ inquiry and assessment, Thousand Oaks, CA, Sage, 2006.

M. Comoglio




POSITIVISMO E EDUCAZIONE

 

POSITIVISMO E EDUCAZIONE

1.​​ Il P. come movimento culturale.​​ Il complesso movimento culturale che si è soliti definire con il termine di P. si sviluppò a partire dai primi decenni del XIX sec. in Francia, in Inghilterra, in Germania e infine anche in Italia, riflettendo e intrecciandosi con i processi di modernizzazione che stavano trasformando in modo radicale la vita produttiva e sociale. Si trattò di un’epoca complessivamente pacifica sul piano dei conflitti militari e segnata da importanti scoperte in campo scientifico e tecnologico che determinarono un forte rinnovamento e incremento della produzione, dall’ampliamento dei mercati e il potenziamento dei trasporti, dal moltiplicarsi del fenomeno dell’urbanesimo, dai progressi in campo medico che debellarono antichi flagelli e migliorarono le condizioni di vita specie dei ceti popolari. Questi importanti mutamenti socio-economici si accompagnarono alla definitiva affermazione della borghesia imprenditoriale sia sul piano politico sia sul piano del costume e dei valori.

1.1.​​ Sotto il profilo teorico​​ alcuni tratti di fondo comuni consentono l’identificazione del P. come movimento culturale. Il primo carattere è rappresentato dal primato assegnato al «fatto» inteso come unica esperienza verificabile: ciò che è, è ciò che appare come osservabile. La realtà non è che un tessuto di fatti, cioè di accadimenti verificabili. Ne consegue che il modello di conoscenza sperimentale basato sulla capacità di previsione secondo leggi scientifiche costituisce il modello positivo di tutto il sapere (non solo, dunque, delle scienze naturali, ma valido anche per lo studio dell’individuo e della società). Si profila così la possibilità di una nuova era storica e di una nuova società organizzata secondo il modello scientifico-sperimentale concepito come alternativo e, dunque, incompatibile con altri modelli culturali e sociali di tipo, per es., religioso o metafisico (Saint-Simon, Comte). Il secondo tratto caratteristico è dato dalla concezione evolutiva a base naturalistica dei fenomeni umani e sociali. La storia dell’uomo e della società non sarebbe che un ininterrotto processo evolutivo che è via via passato da forme di vita e di organizzazione sociale più semplici a forme via via sempre più complesse (Spencer, Darwin). L’età positivistica è pervasa da un ottimismo generalizzato che scaturisce dalla convinzione di un progresso inarrestabile (talvolta pensato come frutto dell’ingegnosità umana, talaltra come necessità automatica) verso condizioni di benessere diffuso in una società pacifica e percorsa dal principio della solidarietà. Salvo qualche eccezione (per es. Stuart Mill), il P. è dunque segnato da una fiducia spesso acritica, sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli governata dalla scienza.

1.2.​​ Al​​ ​​ naturalismo evolutivo​​ corrispondono sul piano etico-sociale istanze antimetafisiche ed anti-confessionali, fortemente critiche e liberistiche, ma che tuttavia non sfuggono, a loro volta, a esiti deterministici (​​ Ardigò, Lombroso). L’uomo è visto quasi come un epifenomeno della natura. L’etica è ridotta per lo più a socialità, ovvero alla disposizione a seguire le leggi che governano la società e a viverle come dovere (​​ Durkheim). Sul versante politico la cultura positivista manifesta aspetti non meno ambivalenti, d’un lato valorizzando gli ideali umanitari e progressisti tipici della democrazia e, dall’altro, imprimendo nei fatti alla società liberale uno sviluppo condizionato dagli interessi della borghesia produttiva, per lo più di sentimenti moderati e conservatori.

2.​​ Il​​ P. come movimento pedagogico.​​ Nel P. si coglie un forte interesse per l’educazione e la pedagogia e molti dei suoi più autorevoli esponenti si occupano di tematiche formative (Spencer, Durkheim, Bain, Ardigò). La pedagogia è concepita come scienza sociale per eccellenza ed è reputata come una delle forme scientifiche della trasformazione sociale nella misura in cui essa sa ristrutturarsi in senso positivo e sperimentale. La scuola, a sua volta, è considerata in maniera strettamente funzionale con l’organizzazione della società ed è perciò vista come lo strumento attraverso cui è possibile promuovere i processi di modernizzazione sia sul piano della mentalità individuale sia a livello di comportamenti collettivi. L’analisi pedagogica non si svolge tuttavia in quelle forme lineari che l’adozione del metodo sperimentale e i protagonisti stessi potrebbero far ritenere, ma si articola sul piano teorico in forme alquanto complesse, oscillando tra tendenze dogmatiche e istanze critiche. Anche in sede pedagogica si registrano due linee di sviluppo della pedagogia positivistica: una linea dogmatica in cui prevale l’identificazione della scientificità con la scienza evolutiva, intesa come unico criterio di verità, con la congruente riproposizione di una nuova metafisica al posto di quella che si voleva combattere (per quanto riguarda l’Italia all’interno di questo orizzonte culturale si collocano autori come Ardigò, Angiulli, De Dominicis, Siciliani). Un’altra linea di sviluppo privilegia invece il metodo critico, la dimensione sperimentale, il confronto con la realtà in vista dello sviluppo dell’uomo e della società e non per la scienza presa per se stessa, con un approccio, dunque, più umanistico e storico (​​ Gabelli, Marchesini, Pasquali,​​ ​​ Villari) e meno condizionato da pregiudiziali di tipo ideologico. Gli studi e le ricerche più recenti individuano in questa seconda linea di sviluppo l’esito più significativo e produttivo del P. pedagogico sul piano storico.

3.​​ La valutazione storiografica del P.​​ È opportuno, a questo punto, aprire una breve parentesi per accennare al fatto che in campo storiografico la valutazione del P. sia come fenomeno culturale sia, più specificamente, come movimento pedagogico è stata a lungo controversa ed è ancora oggi motivo di discussioni. Su di esso sono pesati il giudizio di netta e complessiva condanna dell’​​ ​​ idealismo, le riserve del​​ ​​ marxismo che lo ha a lungo guardato con diffidenza in quanto ideologia tipicamente borghese (anche se non sono mancate venature positiveggianti più che significative nei movimenti socialisti europei) e, infine, le critiche ad una visione spesso acritica della scienza e del metodo scientifico avanzate negli ambienti scientifici del primo Novecento ben più scaltriti dei positivisti tardo-ottocenteschi sul piano epistemologico. Né hanno giovato sul piano della ricostruzione e dell’analisi storica, a loro volta, i tentativi compiuti da una parte della storiografia di formazione tardo-positivista volti ad una acritica e un po’ scontata difesa del movimento. Il graduale stemperarsi delle polemiche anche contingenti e il moltiplicarsi delle ricerche su singoli aspetti hanno contribuito, con il trascorrere del tempo, a sgombrare il campo da molti fraintendimenti e sospetti e, soprattutto, hanno consentito una migliore conoscenza del P. non solo in quanto pura teoria, ma nei suoi vari apporti specifici in campo sociale, giuridico, medico, pedagogico e così via. Ciò ha permesso una valutazione più serena dei risultati effettivamente raggiunti e, dunque, meno condizionata da pregiudizi di parte. Anche per quanto riguarda il campo dell’educazione e della scuola gli studiosi sono concordi nel rilevare che gli apporti più significativi sono venuti non tanto sul piano dall’elaborazione teorica (spesso esposta a tendenze dottrinarie) quanto dall’individuazione e dall’approfondimento di alcuni nuovi ambiti di ricerca che hanno consentito alle prassi educative di compiere significativi progressi. In primo luogo va ricordato che le ricerche sperimentali in medicina e in psicologia applicate all’educazione hanno, per es., permesso di aprire la strada ad una conoscenza più puntuale e meno approssimativa del fanciullo, dal funzionamento della sua intelligenza ai meccanismi di apprendimento. Se certe semplificazioni e riduzioni delle funzioni intellettive ci sembrano oggi sconcertanti e improponibili, non si può dimenticare che i fondamentali apporti della scuola psico-pedagogica di​​ ​​ Binet,​​ ​​ Claparède,​​ ​​ Decroly e, più tardi,​​ ​​ Piaget non sarebbero stati possibili se non avessero potuto avvalersi dei risultati raggiunti per via sperimentale nell’ultimo Ottocento in campo neuro-fisiologico. Per restare ancora sulla conoscenza del fanciullo, va inoltre richiamato come la cultura positivista abbia opportunamente valorizzato la dimensione che oggi diremmo della corporeità promuovendo, da un lato, migliori pratiche igieniche, maggiori cure alimentari, una più avvertita attenzione alla salute fisica (in sostanza una concezione più sana dell’esistenza) e, dall’altro, sostenendo con grande vigore (in ciò aiutata da una visione militar-nazionalista del quadro politico complessivo) l’introduzione dell’educazione fisica nella scuola, giudicata necessaria integrazione dell’educazione intellettuale e morale. Sul piano dei metodi didattici la valorizzazione delle pratiche induttive promosse una visione meno libresca e mnemonistica della scuola, più vicina alle «cose» e meno basata sulle parole e sul ragionamento astratto, andando oltre le consuetudini didattiche di metà Ottocento ancora in larga misura affidate alla ripetizione e alla memorizzazione. Occorre peraltro avvertire che non tutte le realizzazioni furono all’altezza delle affermazioni di principio e delle esperienze dei maestri più esperti e competenti. Non a torto​​ ​​ Lombardo-Radice avrebbe denunciato agli inizi del nuovo secolo una diffusa mentalità «pedagogistica», incapace di alzarsi al di sopra della semplicità dell’esperienza, polemicamente contrapposta alla mentalità «pedagogica» capace invece di misurarsi anche con la riflessione teorica. L’ottimismo progressista del P. congiunto con le scoperte mediche e quelle psicologiche consentirono, infine, un approccio scientificamente più corretto e articolato al problema dell’handicap mentale e fisico e una visione meno punitiva e più rieducativa (anche se l’esperienza pratica non andò oltre il perfezionamento delle forme di segregazione) della devianza infantile e giovanile.

4.​​ L’interesse per la scuola.​​ Resta da richiamare un’ultima questione e cioè il forte interesse che la cultura positivista manifestò in genere per il problema scolastico. La ragione va ricercata in alcuni dati storici: le trasformazioni tecnologiche e produttive che sollecitavano una manodopera più istruita; la sempre maggiore circolazione della cultura scritta; le spinte emancipative (spesso di matrice anarchica e socialista) che agitavano, talora in modo disordinato, i ceti popolari; le resistenze della Chiesa alla modernità laica giudicata come un pericolo per la fede religiosa; il bisogno di stabilità della società borghese impegnata nell’espansionismo coloniale; la legittimazione dei valori borghesi come valori sociali egemoni. La scuola fu prospettata sia come potente occasione di modernizzazione sia come strumento di socializzazione politica collettiva e, dunque, nel medesimo tempo fattore di progresso, emancipazione e di controllo sociale. L’analisi del​​ ​​ funzionalismo sociologico si può considerare a tal riguardo esemplare: attraverso la scuola, opportunamente ristrutturata su basi scientifiche, era possibile orientare e guidare i comportamenti individuali e sociali liberandoli da quegli atteggiamenti e sentimenti che non risultavano funzionali alla civiltà moderna (ignoranza, superstizioni, senso fatalistico della vita) e promuovendo quelli che ne erano invece elemento costitutivo (fiducia nel progresso, disponibilità al nuovo, iniziativa personale). Alla scuola era inoltre fatto carico di sostenere i sentimenti di lealtà, ordine e disciplina necessari per lo sviluppo ordinato della società borghese sia mediante la circolazione e interiorizzazione dei valori nazionali (con il passaggio dalla fedeltà al gruppo, al clan, alla famiglia alla fedeltà alla nazione) e sia attraverso la promozione di quei codici di comportamento anche individuali che la borghesia liberale aveva posto a base del suo accreditamento come classe egemone (lealtà, rispetto delle apparenze, laicità nel modo di guardare all’esistenza, paternalismo). Da queste premesse scaturirono le politiche scolastiche del secondo Ottocento destinate a segnare un tornante significativo nella storia sociale e civile dei paesi europei e anglosassoni: affermazione e generalizzazione dell’​​ ​​ obbligo scolastico inteso come «minimo garantito» di sapere per ciascun cittadino; netta distinzione tra la scuola per tutti e la scuola destinata alle élites dirigenti; diretto intervento dello Stato in campo scolastico (con la creazione, in alcuni casi, di veri e propri sistemi scolastici statali, come in Francia e in Italia); laicizzazione dei programmi; potenziamento del sapere scientifico pur in un quadro di perdurante primato ancora assegnato alla cultura classica.

Bibliografia

Spirito U.,​​ Il pensiero pedagogico del P.,​​ Firenze, Giuntine-Sansoni, 1956; Bertoni-Jovine D. - R. Tisato (Edd.),​​ P. pedagogico italiano,​​ 2​​ voll., Torino, UTET, 1973-1976; Cambi F.,​​ La pedagogia borghese nell’Italia contemporanea,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1974; Santucci A. (Ed.),​​ Scienza e filosofia nella cultura positivistica,​​ Milano, Feltrinelli, 1982; Papa E. R. (Ed.),​​ Il​​ P. e la cultura italiana,​​ Milano, Angeli, 1985; Chiosso G., «La questione scolastica in Italia: l’istruzione popolare», in R. Lill - F. Traniello (Edd.),​​ Il​​ «Kulturkampf» in Italia e nei paesi di lingua tedesca,​​ Bologna, Il Mulino, 1992, 335-388.

G. Chiosso




POSTMODERNO / POSTMODERNITÀ

 

POSTMODERNO /​​ POSTMODERNITÀ

Più che una delimitazione cronologica, sia l’aggettivo sostantivato che il sostantivo astratto, starebbero ad indicare una situazione, uno stato, una condizione, una sensibilità letteraria, artistica, filosofica e culturale in genere che si va distanziando dalla​​ ​​ modernità.

1. Il condizionale è d’obbligo, in quanto si ha a che fare con un termine, carico di emozionalità contrapposta, quasi una parola d’ordine, di indubbia presa sui mass media e sull’immaginario collettivo, a cui vengono assegnati significati diversi fino all’ambiguità. Usato già in saggi letterari spagnoli e statunitensi di critica letteraria degli anni ’30-40 e dallo storico A. Toynbee nel 1947 in​​ A study of history,​​ per indicare una nuova fase storica successiva all’età moderna, il termine ha avuto fortuna con il saggio del filosofo francese J.-F. Lyotard (La condition postmoderne,​​ 1979) e in sede letteraria con il saggio del critico statunitense I. Hassan (The question of post-modernism,​​ 1981).

2. Secondo i teorici del p. la cultura moderna, vale a dire la visione del mondo e della vita, tipica della vicenda storica delle società dell’Occidente post-medioevale, sarebbe giunta al suo tramonto. La condizione postmoderna renderebbe manifesti i limiti e le sue configurazioni culturali ispirate all’umanesimo antropocentrico, che ha nella scienza e nella tecnica le sue massime espressioni di razionalità e nella capacità di trasformazione industriale e di azione politica le vie per costruire il proprio destino storico ed intramondano; ed evidenzierebbe la non assolutezza delle sue grandi narrazioni («meta-racconti» nella terminologia di Lyotard), specie quelli dell’​​ ​​ illuminismo, dell’idealismo, del positivismo e del marxismo, che a loro modo legittimavano filosoficamente, eticamente e politicamente l’egemonia culturale dell’Occidente. O perlomeno metterebbe in risalto che, rispetto a una «modernità solida», con le sue strutture consolidate, prevarrebbe una «modernità liquida», caratterizzata dai flussi, dai processi, dalla costante innovazione, conseguente all’irrompere delle tecnologie informatizzate, dalla globalizzazione dell’esistenza e del mercato e culturalmente dal declino della metafisica. Il sapere risulterebbe irrimediabilmente frammentato, ipotetico, situato, costituzionalmente​​ in itinere,​​ insormontabilmente storico-culturale. Contenutisticamente assisteremmo alla motiplicazione delle​​ Weltanschauung​​ e delle fedi, che danno spettacolo di sé e che diventano piuttosto merce di consumo massmediologico, senza che nessuna possa di diritto imporsi alle altre come più vera. Al massimo può trovare pragmaticamente maggior accoglienza rispetto alle altre. Più che un sapere che definisce, avremmo a che fare con un sapere che parla, narra, racconta delle cose-eventi o di sé, che interpreta e produce nuove o rinnovate comprensioni (che «sfondano» le comprensioni precedenti, più che «fondare» posizioni) o semplicemente che opera «tecnologicamente» sul reale o lo «simula virtualmente».

3. Considerato da Habermas come segno della crisi in cui versa il progetto emancipativo della modernità, esaltato o bollato come «pensiero debole» (che si appoggia ed oltrepassa la critica culturale di Nietzsche e Heidegger), tacciato di rimettere in corso posizioni pre-moderne o reazionarie, il p. esprime a suo modo il vasto​​ ​​ pluralismo e la complessità sociale contemporanea. In tal senso costituisce un utile termine di confronto per la pratica educativa e la ricerca pedagogica, chiamata oggi, sempre più, a non fermarsi a soluzioni tecniche, ma a ripensare globalmente la cultura formativa.

Bibliografia

Lyotard J.-F.,​​ La condizione postmoderna,​​ Milano, Feltrinelli, 1981; Vattimo G. - P. A. Rovatti (Edd.),​​ Il pensiero debole,​​ Ibid., 1983; Vattimo G.,​​ La fine della modernità,​​ Milano, Garzanti, 1985; Habermas L,​​ Il discorso filosofico della modernità,​​ Roma / Bari, Laterza, 1987; Bauman Z.,​​ Modernità​​ Liquida, Ibid., 2002; Chiurazzi G.,​​ Il p., Milano, Mondadori, 2002; Ambrosi E.,​​ Il bello del relativismo, Venezia, Marsilio, 2005; Bauman Z.,​​ Il disagio della p., Milano, Mondadori, 2007.

C. Nanni




POVEDA Pedro

 

POVEDA Pedro

n. a Linares nel 1874 - m. a Madrid nel 1936, sacerdote ed educatore spagnolo.

1. Fonda scuole per emarginati a Guadix (1902); propone la creazione di un’Istituzione che dia impulso all’educazione a livello nazionale​​ (Ensayo de un proyecto pedagógico para la fundación de una Institución Católica de Enseñanza,​​ Gijón,​​ 1911); fonda l’Istituzione Teresiana ad Oviedo (1911). L’antropologia​​ pedagogica di P. parte dalla sua spiritualità di incarnazione: «la persona di Cristo, la sua natura e la sua vita costituiscono la norma sicura per arrivare ad essere santo... essendo allo stesso tempo con l’umanesimo verità» (1965, 249-250). La persona umana raggiunge il suo massimo, cioè l’essere «eminentemente umana», nella sua unione con Dio. Da qui deriva l’insistenza sulla​​ immagine​​ di Dio in Cristo: sulla​​ vocazione,​​ Consejos a las profesoras y alumnas de las primeras Academias de Santa Teresa​​ (1912);​​ Andad como conviene a la vocación,​​ in​​ Jesús Maestro de oración​​ (1922); e sulla​​ temporalità,​​ Alrededor de un proyecto​​ (1913);​​ El estudio de la pedagogía en los seminarios​​ (1916).

2. La riflessione sul suo tempo sensibilizza P. sui conflitti tra individuo e società, sulla problematica tra fede e scienza e sulle nuove caratteristiche della condizione femminile. Ad essi ispira la sua proposta pedagogica che si sviluppa a partire dai punti seguenti: il principio della​​ comunicazione,​​ come risposta alla socialità umana, concretamente alla necessità di relazione e partecipazione,​​ Hablemos de las alumnas​​ (1935); il principio di​​ libertà-responsabilità​​ come spazio umano in cui, attraverso la formazione ai valori, si decide l’educazione e il significato della vita; il principio della​​ parità-differenza,​​ fatta salva l’uguaglianza ontologica e teologica riguardo all’origine, alla natura e al fine dell’uomo e della​​ ​​ donna, come pure alla loro differenza. P. dà la priorità al​​ clima formatore​​ costantemente ricostruito a partire dai valori della fortezza e dell’allegria.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ P.P.,​​ Obras. Creí por esto hablé;​​ edición crítica y estudio de M.ª D. Gómez Molleda, Madrid, Narcea, 2005. b)​​ Studi: Galino Carrillo A. ( Ed.),​​ Humanismo pedagógico de P.P. Algunas dimensiones, Ibid., 2000; Valle López Á. del,​​ La pedagogía de inspiración católica, Madrid, Síntesis, 2000.

Á. Galino - Á. Del Valle




PRAGMATISMO

 

PRAGMATISMO

Il termine fu coniato nella seconda metà dell’Ottocento, ed è principalmente associato alla filosofia degli americani Peirce,​​ ​​ James e​​ ​​ Dewey, anche se pensatori come l’inglese Schiller, gli spagnoli​​ ​​ Unamuno e​​ ​​ Ortega y Gasset, i francesi Bergson e Le Roy, il tedesco Vaihinger e gli italiani Papini, Aliotta, Vailati e Calderoni sono stati a vario titolo partecipi del movimento di idee che ha questo nome. A introdurre il termine P. fu appunto Peirce col saggio del 1878​​ How to moke our ideas clear​​ e fu successivamente James, con modalità che Peirce vivacemente disapprovò, a diffonderlo (cfr. il vol.​​ Pragmatism,​​ a new name for some old ways of thinking,​​ del 1907, preceduto da​​ The will to believe​​ del 1886).​​ Fu principalmente con Dewey, che ne propose la versione «strumentalistica», che il P. assunse rilevanza pedagogica, ponendosi mediatamente a fondamento dell’attivismo e contribuendo a stabilire i presupposti teorici della scuola «progressiva» (​​ Scuole Nuove).

1. In una sua accezione tecnica e ristretta, molto spesso fraintesa, il P. indica una concezione dei metodi e degli statuti conoscitivi che pone l’accento non solo sulla​​ funzione​​ pratica del conoscere ma anche – e in un certo senso preminentemente – sulla sua legittimazione​​ pratica.​​ La tesi, molto criticata e spesso fraintesa (per es. da Bertrand Russell, per il quale essa era soprattutto in armonia con l’industrialismo e con lo spirito di intrapresa americano, interpretazione a cui Dewey reagì vivacemente), che il valore della conoscenza deriva dalla sua utilità e che il vero si identifica, appunto, con ciò che è utile e conveniente, ne è l’espressione estrema e più esplicita. La figura concettuale jamesiana della «volontà di credere» la esemplifica, seppure in modo rovesciato, assai chiaramente. Il credere è volitivo e non constatativo ed in quanto è voluto sottostà a regole pratiche, più che logiche o epistemologiche. Un’idea è vera in quanto il crederla è «utile» e «conveniente» e produce effetti positivi per la vita individuale e associata. In una accezione più larga il P. riprende motivi della cultura e del pensiero filosofico occidentale maturati e riproposti nel corso dei secoli, e riconducibili alle posizioni dottrinali nel cui ambito si afferma il primato della​​ voluntas,​​ della​​ caritas​​ ecc. sulle determinazioni della razionalità conoscitiva, da quelle di Paolo di Tarso a quelle agostiniane giù giù fino ai francescani del tardo​​ ​​ Medioevo, e in particolare a Duns Scoto a cui il pragmatista Peirce si riferiva come a un antesignano e a un maestro.

2. Non c’è da stupirsi che il P. abbia contribuito a generare un particolare tipo, molto significativo e influente, di filosofia dell’educazione. In realtà il P. era un modello di filosofia pedagogica e tale si rivelò, in anni più recenti, nella sua versione strumentalistica, proposta e argomentata da Dewey. Tale strumentalismo non aveva a che fare, ovviamente, con la mediocre e banale strumentalità dell’operare motivato da interessi pratici immediati, ma poneva l’accento sulla posizione sovraordinata della prassi umana complessivamente assunta rispetto alle varie e settoriali pratiche teoriche. Le formule di rivisitazione e di riabilitazione del P. (cfr. R. Rorty,​​ The relevance of pragmatism)​​ proposte negli ultimi decenni, costituiscono una conferma diretta o indiretta delle origini di questo orientamento filosofico e delle sue caratteristiche più intrinseche ed autentiche, al di là di una caratterizzazione – simpatetica o critica – in termini di concetto d’epoca, maturato sullo sfondo della scientificità moderno-contemporanea, e connesso a esigenze di produttività materiale con mezzi tecnici. Va anzi rilevato che molto dello spirito del P. è da porre in relazione all’opposta esigenza di dare alla strumentalità razionale e tecnica il più ampio respiro di una ricerca sul senso ultimo e radicale dell’agire umano.

Bibliografia

Papini G.,​​ P.,​​ Firenze, Vallecchi, 1920; Ayer A. J.,​​ The origins of pragmatism. Studies in the philosophy of C.S. Peirce and W. James,​​ San Francisco, Freeman, 1958; Bosco N.,​​ La filosofia pragmatica di C.S. Peirce,​​ Torino, Edizioni di Filosofia, 1959; Santucci A.,​​ Il​​ P. in Italia,​​ Bologna, Il Mulino, 1963; Roggerone G. A.,​​ W. James e la crisi della coscienza contemporanea,​​ Milano, Marzorati,​​ 21967; Santucci A. (Ed.),​​ Il​​ P.,​​ Torino, UTET, 1970; Sini C.,​​ Il P. americano,​​ Bari, Laterza, 1972; Murphy J. P.,​​ Il p., Bologna, Il Mulino, 2001.

A. Granese




PRATICHE EDUCATIVE

 

PRATICHE EDUCATIVE

Le p.e. sono forme coerenti e complesse di p. umana collaborativa, attuate in un contesto sociale, caratterizzate da specifica intenzionalità formativa. Una p.e. è di conseguenza guidata teoreticamente, storicamente e culturalmente da ideali di bene da perseguire in favore di coloro ai quali è rivolta (Pellerey, 1999) e si distingue da p. umane di altro tipo per la coerenza che segue rispetto alla definizione di​​ ​​ educazione dalla quale trae ispirazione.

1. Le p.e. possono descrivere il senso della cultura civile di un gruppo, di una società, di una popolazione, di una nazione. Ad es., P. Freire (2004) sottolinea come la p.e. esige dei saperi necessari e obbliga a rivisitare l’etica e l’estetica dell’insegnamento, l’«agire» educativo, il rigore metodologico, la ricerca, il rispetto delle diversità etniche e culturali, l’accettazione della novità e della critica… per affermare che questi aspetti si ritrovano nella fase di osservazione della p.e. stessa. In altre parole, più semplicemente, l’espressione «p.e.» si usa in senso generale per indicare l’attività in quanto insieme di azioni e di influenze di insegnamento, condotta da un insegnante a favore di studenti in un luogo per un certo periodo di tempo, al fine di promuovere lo sviluppo e la crescita di abilità, comportamenti, conoscenze.

2. Spesso le buone p.e. seguono modelli (sistemi o metodi) educativi di riferimento all’interno dei quali si possono individuare concetti e principi che riguardano livelli logici differenti che coinvolgono il piano scientifico, quello operativo o progettuale, ecc. Tra le espressioni che possono assumere un significato analogo a p.e. si trovano il «fare educativo» o il «fatto educativo». Inoltre non è infrequente sentire trattare di p.e. quando una istituzione scolastica indica le prassi, le consuetudini, le tradizioni e le innovazioni che la caratterizzano. In tal contesto si producono p.e. nel significato di documentazione di qualità che spesso una istituzione di tipo scolastico o formativo ritiene importante ai fini della propria certificazione, autovalutazione o promozione.

3. In ultima analisi l’espressione «p.e.» per alcuni può essere impropriamente usata per descrivere e presentare esperienze didattiche o metodologie che rispondono a requisiti di qualità svolte in un contesto istituzionale. Questo significato negli ultimi anni è stato talvolta anche attribuito all’espressione «buone prassi», o «buone p.» (best practices), che soprattutto all’interno di una struttura pone un accento particolare agli aspetti più di cultura organizzativa, di collaborazione tra esperti in didattica o in metodologica di successo.

Bibliografia

MacIntyre A.,​​ After virtue.​​ A study in moral Theory,​​ Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981; Guardini R.,​​ Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Milano, Vita e Pensiero, 1986; Pellerey M.,​​ L’agire educativo. La p. pedagogica tra modernità e postmodernità, Roma, LAS, 1988;​​ Meirieu P.,​​ Le choix d’éduquer, Paris,​​ ESF, 1991; Macario L.,​​ Imparare a vivere da uomo adulto. Note di metodologia dell’educazione, Roma, LAS, 1993; Meirieu P.,​​ La pédagogie entre le dire et le faire, Paris, ESF, 1995; Lombardo P.,​​ Educare ai valori, Verona, Vita Nuova, 1996; Pellerey M.,​​ Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999; Milani L.,​​ Competenza pedagogica e progettualità educativa, Brescia, La Scuola, 2000; Freire P.,​​ Pedagogia dell’autonomia,​​ Torino, Ega, 2004.

M. Bay




PREADOLESCENZA

 

PREADOLESCENZA

L’età situata tra la fine della fanciullezza (​​ fanciullo) e l’inizio dell’​​ ​​ adolescenza vera e propria è una fase di transizione particolare che presenta aspetti di difficile interpretazione e pone soprattutto problemi educativi e sociali di notevole rilevanza.

1.​​ Il​​ segmento p. nell’arco evolutivo.​​ Non più bambini e non ancora adolescenti: ecco la condizione dei ragazzi dai 10 ai 14 anni. Su di loro è concentrata una mole di interventi educativi che è senza pari in qualsiasi altra fase dell’intero arco evolutivo. Eppure il mondo psicologico della p. appare ancora un «continente sommerso». La p. infatti, usualmente poco nota come periodo a se stante, sembra indicare una fascia d’anni piuttosto fugace, un’età dai confini incerti e con «crescite» più nascoste che appariscenti. In concomitanza con l’evoluzione puberale, si assiste (lungo il breve volgere di 3-4 anni) ad un susseguirsi di profonde e rapide trasformazioni fisiche, psicologiche e sociali che segnano in modo globale e irreversibile lo sviluppo della personalità. È l’età delle grandi «migrazioni». Tra esse ricordiamo: l’addio al corpo del bambino, con lo sviluppo fisico e puberale; l’uscita dalla famiglia e l’entrata nel mondo dei coetanei; la crisi della «religione di chiesa», con la caduta di appartenenza e l’avvio ad una religiosità più soggettiva e personalizzata; la «presa delle distanze» dalla scuola, con crescente aumento (per ampie fasce di soggetti) della demotivazione all’apprendimento; il passaggio lento e graduale dalla logica operativa a quella formale; il transito dalle identificazioni ad un primo avvio verso l’identità personale e sociale.

2.​​ La configurazione attuale della p.​​ La p. oggi sembra delinearsi per le seguenti caratteristiche: è un’età caratterizzata da un movimento di uscita dalla famiglia e da uno di «entrata nel mondo sociale»; è una nuova età di scoperta; rappresenta una fase di nuova relazionalità amicale; è ancora un’età di multiforme dipendenza; si configura come «transito dalle identificazioni verso l’identità»; in essa la progettualità è in un timido avvio; lo​​ ​​ sviluppo morale​​ appare ancora in bilico fra eteronomia ed autonomia. Il preadolescente pone problemi alla società e alle istituzioni perché dispone di una identità frammentata e disarmonica. È un soggetto disarmonico in quanto le principali dimensioni dello sviluppo sono anticipate o posticipate rispetto all’età cronologica. La crescita non arriva cioè in modo sincronico, ma si instaura in una disparità di tempi, in una «asincronicità» tra aspetti dello sviluppo. In questa disarmonia evolutiva appaiono precoci o anticipate le dimensioni dello sviluppo percettivo, psicomotorio, sociale e affettivo-sessuale, mentre risultano in ritardo alcuni aspetti dello sviluppo logico, in particolare lo spirito critico, e quello morale e religioso. Tuttavia in forza di un sistema di accomodamento dinamico, tipico di tutte le situazioni in forte crescita, il preadolescente dispone di un notevole potere di recupero e adattamento. Un’età come questa godeva tradizionalmente di «buona salute». Oggi, per una certa percentuale di soggetti, essa è esposta al rischio di molteplici forme di disadattamento. Il mancato adattamento inizia in famiglia, prosegue nella scuola, si accentua nei gruppi sociali di riferimento e può confluire in forme di devianza che aumenteranno durante l’adolescenza. È per questa ragione che l’accompagnamento educativo a questa età deve essere mirato ed accurato, avere obiettivi specifici e disporre di metodologie atte alla​​ ​​ prevenzione e al​​ ​​ recupero.

3.​​ Le «domande» dei preadolescenti alle​​ ​​ istituzioni educative.​​ Indagini psico-sociologiche indicano che i preadolescenti chiedono alla famiglia: dialogo educativo più ampio e profondo; spinta all’autonomia, non iper-protezione o negazione delle energie e risorse dei ragazzi; educazione affettiva e sessuale e non silenzio o trascuratezza; guida spirituale nel cammino della crescita e non solo soddisfacimento dei bisogni puramente materiali; orientamento nelle scelte non solo scolastiche ma culturali ed esistenziali. Alla scuola i preadolescenti chiedono: ambiente di vita e di educazione, non solo luogo dove si può fare istruzione; accoglienza di tutte le esigenze della crescita; un insegnante autorevole, educatore, modello di riferimento; stimolo alla creatività e non solo acquiescenza ripetitiva di apprendimenti codificati; educazione sessuale vera e propria e non solo parziale e sporadica informazione; valorizzazione positiva della persona e non valutazione del rendimento scolastico; orientamento scolastico e professionale continuato e strutturato, e non solo episodico e frammentato, in vista delle «preiscrizioni». Similmente alla comunità ecclesiale (​​ Chiesa) i preadolescenti chiedono un’iniziazione cristiana «vitale» e non formale o ritualistica; protagonismo effettivo, con assunzione di compiti e responsabilità compatibili con l’età e non solo passività e dipendenza; una catechesi esperienziale che inserisca il vangelo e i sacramenti nella vita; un inserimento comunitario che faccia sentire i ragazzi parte importante e viva dell’intera comunità. Agli animatori dei gruppi i preadolescenti chiedono: guida educativa vera e propria e non solo assistenza passiva o stimolo esteriore; sostegno affettivo, cioè sentirsi amati, stimati, incoraggiati a livello profondo, come persone in una delicata fase della vita; creatività per superare la routine dell’ambiente materialistico e consumistico di vita e per affrontare prospettive di sviluppo secondo le doti e le inclinazioni di ciascuno; coinvolgimento operativo e non pura e semplice esecutività, stimolando l’autonomia, lo spirito di iniziativa e di partecipazione a progetti elaborati insieme. Nei confronti della comunità civile i preadolescenti avanzano richieste di attenzione e ascolto alle proprie aspirazioni e inclinazioni di ragazzi; di prevenzione sociale delle forme di degrado ambientale e del disadattamento sociale; di uso educativo e non solo consumistico dei mass media, con iniziative mirate specificamente alle esigenze della formazione integrale; di spazi per lo sport e l’espressività ludica e sociale; di centri educativi per incrementare le forme associative e rispondere ai bisogni non solo del recupero ma soprattutto dell’educazione sociale.

4.​​ Per una pedagogia della p.​​ Nel contesto culturale e pedagogico attuale è necessario accogliere la p. come età specifica, distinta dalla fanciullezza e dall’adolescenza e connotata di caratteristiche evolutive proprie. Non più dunque «età negata», ma riconosciuta, valorizzata e incrementata secondo i compiti di sviluppo tipici di una importante e fondamentale stagione della vita. Nella comunità e nelle istituzioni occorre considerare e valorizzare i preadolescenti come soggetti sociali importanti e attivi, dando loro la parola, accogliendo le loro richieste, stimolando iniziative che possono essere affrontate e compiute anche da loro a favore della comunità. Alla disarmonia e frammentazione dell’età deve far fronte un progetto educativo unitario e unificante, per facilitare un cammino meno disagiato e rischioso nella costruzione dell’incipiente identità. Educare, a questa età, vuol dire il più delle volte animare, far cioè crescere stimolando l’interesse, la partecipazione e il coinvolgimento dei ragazzi stessi, in modo che non siano concepiti come soggetti passivi, bensì come attori e in molti casi anche protagonisti del loro divenire. Infine occorre tenere vigile e sostenere la dimensione dell’orientamento: è un’età infatti che prefigura il futuro della persona, età di intuizioni e di desideri, in cui non si chiede di decidere il futuro personale, professionale, esistenziale, ma di mettere le basi (i «prerequisiti») per le scelte future attraverso le piccole decisioni di ogni giorno.

Bibliografia

Cospes (Ed.),​​ L’età negata,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1986; De Pieri S. - G. Tonolo,​​ P. Le crescite nascoste,​​ Roma, Armando, 1990; Tonolo G. - S. De Pieri,​​ Educare i preadolescenti,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; De Pieri S.,​​ Preadolescenti tra domanda e risposta,​​ in «Note di Pastorale Giovanile» 26 (1992) 4, 72-80; Secchiaroli G. - T. Mancini,​​ Percorsi di crescita e processi di cambiamento. Spazi di vita,​​ di relazione e di formazione dell’identità dei preadolescenti,​​ Milano, Angeli, 1996; Della​​ giulia A. - P. Gambini,​​ L’influenza delle relazioni familiari sull’avvio della costruzione dell’identità,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 52 (2005) 951-974; Maggiolini A. (Ed.),​​ P. e antisocialità. Prevenzione e intervento nella scuola media inferiore,​​ Milano, Angeli, 2005; D’Alessio M. - R. Baiocco - F. Laghi F.,​​ I modelli in tv: quale influenza sui preadolescenti?​​ Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia dello Sviluppo, AIP, Verona, 15-17 settembre 2006;​​ Televisioni e minori. Benefici e rischi. Valutazioni giuridiche,​​ mediche,​​ psicologiche, Roma, Società Italiana di Pediatria, 2007; D’Alessio M. - F. Laghi,​​ La p. Identità in transizione tra rischi e risorse, Padova, Piccin-Nuova Libreria, 2007; Gambini P.,​​ La sfida educativa dei preadolescenti, in «Pedagogia e Vita» (2007) 2, 89-110.

S. De Pieri




PREGIUDIZIO

 

PREGIUDIZIO

In senso filosofico p., specie dopo la fenomenologia e l’ermeneutica, è venuto a significare il mondo delle conoscenze previe, spesso allo stato di ovvietà, che precedono la presa di coscienza o la categorizzazione concettuale e con cui partiamo a «leggere» e «comprendere» la realtà, i fatti, gli eventi e le persone. In senso comune tuttavia il p. è un’immagine mentale con connotazioni affettive di segno negativo verso un gruppo o una persona esterna fondato sugli​​ stereotipi​​ o immagini che ognuno si fa nella propria mente di persone e gruppi. Dai p. possono derivare dei modi di agire particolari non desiderati dalle persone e gruppi; a questi modi di agire viene dato il nome di​​ discriminazioni.​​ Quando i p. non riflettono né le capacità e i meriti individuali né i comportamenti di persone o gruppi specifici, allora sfociano in attività discriminatorie che negano ai gruppi e alle persone la parità di trattamento e diventano strumenti di incomprensione, di divisione e di conflitto.

1.​​ Origine dei p.​​ Secondo le teorie coercitive i p. deriverebbero da processi di competizione tra i gruppi a causa della scarsezza di risorse (Campbell, 1965; Sherif, 1967); la minaccia esterna nei riguardi delle risorse disponibili avrebbe l’effetto di potenziare la solidarietà del gruppo o della persona minacciata. Altri sostengono che i processi di discriminazione dovuti ai p. potrebbero sorgere anche nella completa assenza di conflitto e conseguente coercizione: lo​​ ​​ status del gruppo di appartenenza sarebbe uno strumento importante per l’attuazione e il mantenimento dell’identità sociale. Quindi si attuerebbero processi di p. per fuggire dai gruppi di basso status e di rafforzamento dello status dei gruppi accettati. I favoritismi verso il proprio gruppo d’identificazione aiuterebbero ad operare appropriate differenziazioni dal gruppo esterno. Il denaro disponibile potrebbe essere una dimensione importante per il confronto tra i gruppi. Secondo le teorie dell’apprendimento sociale i p. sarebbero il risultato di​​ ​​ apprendimento, di effettiva osservazione di ruoli e differenze presenti nei gruppi o derivanti da influenze di mass media, della scuola, dei genitori e dei coetanei. A queste spiegazioni interpersonali si possono contrapporre o aggiungere spiegazioni intrapersonali di natura psicologica. Secondo le teorie psicodinamiche, che danno peso agli aspetti motivazionali, il p. e quindi lo stereotipo, sarebbe il risultato di conflitti e di disadattamento nella psiche della persona; e pertanto rappresenterebbe il sintomo di profondi conflitti di personalità. Ad es. secondo la teoria del capro espiatorio, l’aggressività verso il gruppo esterno, sarebbe uno spostamento dell’aggressività da un frustratore potente, una fantasia dentro la mente, verso un inerme gruppo minoritario. Le teorie cognitiviste danno maggiore importanza alla limitatezza della mente umana a gestire i processi informativi. Tali limiti provocano fallimenti in ambito percettivo e cognitivo e quindi valutazioni errate dei fatti. Di qui nascerebbero correlazioni illusorie, cioè il vedere coincidenze tra particolari caratteristiche visibili perché sono meno comuni. Ad es. sarebbero particolarmente visibili i comportamenti negativi rispetto a quelli positivi o i gruppi minoritari rispetto ai gruppi di maggioranza; per cui più facilmente si attribuirebbero ai gruppi minoritari le caratteristiche negative. Secondo un modello di categorizzazione-individuazione le persone si formerebbero delle impressioni partendo da categorizzazioni sommarie per allargarle poi muovendosi lungo un continuo che va verso il reperimento di informazioni individuanti che permettono maggiori distinzioni. Gli aspetti referenziali usati per creare le impressioni di partenza, che servono per definire e organizzare gli altri attributi, costituiscono l’etichetta categoriale; gli altri aspetti referenziali costituiscono gli attributi. L’etichetta​​ richiamerebbe dalla memoria caratteristiche con essa collegate e influenzerebbe in modo sproporzionato il processo di formazione delle impressioni prima ancora che si abbiano informazioni specifiche sulle persone e sui gruppi. Di tali modalità e processualità si avrebbe cospicua espressione nell’etichettamento​​ di una persona, «bollata» ad es. come deviante, tossicodipendente, contestatrice, «bastian contraria». Secondo la teoria della congruenza dei valori e delle convinzioni, i membri dei gruppi esterni sarebbero discriminati e rifiutati non sulla base della presenza di convinzioni e atteggiamenti e valori diversi o in disaccordo con i propri. Secondo questo modo di vedere, il p., e poi la discriminazione, sarebbero una derivazione abbastanza diretta degli stereotipi. L’assenza di certi valori, o profonde diversità nella gerarchizzazione dei valori, porterebbe alla delegittimazione di persone o gruppi fino al punto di considerarli non più umani e quindi non più meritevoli di essere trattati come tali.

2.​​ P. e intervento educativo.​​ Secondo le teorie cognitive sembrerebbe che un intervento correttivo per attutire le conseguenze negative del p. richiede di​​ informare,​​ perché alla base delle tensioni tra gruppi e persone ci sono gli stereotipi causati soprattutto dall’ignoranza e dalla disinformazione. Una condizione necessaria per generare comprensione e valutazione positiva tra i gruppi è che i membri di essi capiscano le reciproche caratteristiche culturali attraverso un’adeguata informazione, soprattutto con l’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa e del sistema educativo. Altri ritengono che l’approccio informativo sia insufficiente e che sia importante tener conto dei modelli di apprendimento diretto attraverso il​​ contatto​​ e l’incontro​​ per conoscersi e capirsi (Allport, 1954). Dalle concezioni psicodinamiche il correttivo deriverebbe dall’affrontare sistematicamente nelle persone i conflitti intrapsichici e quindi occorrerebbe presentare programmi per raggiungere l’obiettivo di cambiare le persone nel loro mondo psichico attraverso la comprensione di se stessi e della propria mentalità; strumenti importanti sarebbero la​​ ​​ psicoterapia e i gruppi di formazione. Le teorie coercitive infine presuppongono un correttivo attraverso l’attuazione della giustizia sociale.

Bibliografia

Allport G. W.,​​ The nature of prejudice,​​ Reading, Addison Wesley, 1954; Campbell D. T., «Ethnocentric and other altruistic motives», in D. Levine (Ed.),​​ Symposium on motivation,​​ Lincoln, University of Nebraska Press, 1965; Sherif M.,​​ Group conflict and cooperation,​​ London, Routledge and Kegan, 1967; Schwartz S. H. - N. Struch,​​ «Values, stereotypes, and intergroup antagonism», in D. Bar-Tal et al.​​ (Edd.),​​ Stereotyping and​​ prejudice: Changing conceptions,​​ New York, Springer, 1989; Scilligo P., «L’incontro tra persone e gruppi: aperture e barriere», in C. Nanni (Ed.),​​ Intolleranza,​​ p. e educazione alla solidarietà,​​ Roma, LAS, 1991; De Caroli E.,​​ Categorizzazione sociale e costruzione del p., Milano, Angeli, 2005.

P. Scilligo