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GRUPPI DI ASCOLTO

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GRUPPI DI ASCOLTO

1. In senso lato il nome indica strutture pubbliche di attenzione ai bisogni altrui. In un significato più preciso, qui accolto, comprende il radunarsi di un certo numero di persone adulte, intorno alla​​ ​​ Bibbia per una lettura credente, tramite in particolare la​​ lectio divina.​​ È un fenomeno che con nomi diversi si è venuto affermando a seguito del Vaticano II, segnatamente in America Latina (comunità ecclesiali di base) e progressivamente si sta estendendo in Africa ed Asia, mentre in Europa si manifesta in ambito cattolico e protestante. In Italia, i g.d.a., che si radunano sovente nelle case, esprimono il desiderio della Parola di Dio attinta alla sorgente della Scrittura, senza eccessive mediazioni catechistiche. Nascono con una certa spontaneità, dal basso, come si dice, specialmente nelle grandi città: se ne contano diverse migliaia nella diocesi di Milano, oltre seicento a Venezia, un migliaio ed oltre a Firenze, altrettanti a Roma. Una variante ancora più strutturata è data dai​​ ​​ movimenti ecclesiali.​​ 

2. Fattori che qualificano i g.d.a. sono quelli propri del​​ ​​ g. e della dinamica di esso: l’atteggiamento soggettivo dei partecipanti (precomprensione), la struttura del piccolo g., il metodo di lavoro. Alla luce dell’esperienza, questi appaiono i punti-forza: la coscienza di fede e lo stile di fraternità, un competente animatore del g., un approccio non casuale, ma programmato, al testo sacro, una buona esegesi, la presa di parola dei partecipanti. In certe diocesi, per favorire la comunione ecclesiale, si fa riferimento ad un libro biblico comune a tutti indicato dal Vescovo. Nella misura in cui questi fattori sono fragili, anche l’esperienza vacilla e muore. Per questo nella Chiesa italiana è costituito un settore nazionale di apostolato biblico che organizza corsi di formazione degli animatori biblici (La Verna, Rho), incrementa la formazione dei g.d.a. nelle singole comunità, affronta nodi teologici e pastorali quali il rapporto tra Bibbia e Catechismo, tra Bibbia e vita di fede, tra Bibbia ed impegno sociale.

Bibliografia

Sacerdoti di Varese,​​ I g.d.a. Corso base per la formazione degli animatori, Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994; Barbieri G. F.,​​ Alla scuola della Parola. Sussidio per i g.d.a., Ibid., 1995; Bissoli C., «Va’ e annunzia» (Mc 5,19). Manuale di catechesi biblica, Ibid., 2006.

C. Bissoli




GRUPPO

 

GRUPPO

Definizioni troppo generiche di g., inteso per es. come sinonimo di collettività, si dimostrano inutilizzabili proprio per la loro indeterminatezza. Occorre perciò distinguere tipi diversi di g. e differenziarli rispetto ad altre forme aggregative. Riprendendo e integrando una tipologia ormai «classica» (Cooley, 1909), un’importante distinzione passa fra​​ g. primario​​ e​​ g. secondario.

1.​​ Il​​ «g. primario».​​ È un insieme ristretto di persone (​​ famiglia, g. di amici, g. di adolescenti, talvolta «fermenti» collettivi in ambito religioso o politico, ecc.) che interagiscono in misura intensa, secondo moduli solidaristici di origine emotiva più che razionale. Le piccole dimensioni rafforzano l’interdipendenza fra i membri; consentono la possibilità di incontri faccia a faccia (Homans, 1950), la conoscenza e la comunicazione diretta; favoriscono inoltre rapporti relativamente intensi e durevoli, limitando così la dispersione (cioè l’interazione fra membri persiste oltre i momenti di incontro formali). La rilevanza dei rapporti interpersonali, la condivisione di atteggiamenti e di stili di vita, la percezione di se stessi come persone piuttosto che per i ruoli svolti, insomma l’identificazione con la totalità del g. spesso prevalgono su altri scopi e finalità. Uguale rilevanza riveste la percezione di appartenere al g., di condividere con gli altri membri alcune importanti qualità (età, affiliazione religiosa...), di contribuire alla solidarietà interna.

2.​​ Il​​ «g. secondario».​​ Il g. secondario (associazioni, società sportive, partiti, «g. di interesse», istituzioni, ecc.) invece è maggiormente esteso, organizzato in maniera più formale e più differenziata, basato su un’interazione meno «calda» e meno profonda. Inoltre esso si prefigge compiti specifici e «istituzionalizzati», proiettati soprattutto verso l’esterno, da conseguire secondo criteri di efficacia / efficienza, anche a costo di abbassare il livello di gratificazione interna. Poiché il significato di «g. secondario» comprende anche quello di «associazione» (​​ associazionismo), ad essa rinviamo, limitando qui la definizione di g. alle aggregazioni di natura «primaria». Naturalmente la distinzione primario / secondario non è netta, poiché vi è sempre una valenza primaria nel g. secondario e viceversa. Ad es., il g. primario condivide con altre aggregazioni (folla, pubblico...) i caratteri di fluidità, flessibilità, transitorietà, ma ha anche un certo grado di sistematicità, regolazione, coordinamento funzionale che lo avvicina invece alle aggregazioni secondarie. In seno a una aggregazione secondaria possono costituirsi articolazioni più vicine al tipo primario, come nel caso di piccoli g. che siano emanazione, più o meno diretta, di istituzioni religiose, culturali, sportive, ecc. (Amerio et al., 1990,42). Altre aggregazioni sono di difficile classificazione, come per esempio le «cerchie sociali» che intrecciano rapporti primari (relazioni amicali / parentali) e obiettivi proiettati all’esterno (v. per es.​​ network​​ politici, forme di​​ selfhelp,​​ ecc.). Per queste forme particolarmente ibride si potrebbe forse parlare di​​ g. quasi-primari.

3.​​ I​​ piccoli g.​​ Sono stati molto studiati, spesso nella convinzione che ciò fosse il modo migliore per comprendere le «forme elementari del comportamento sociale» e per estendere da lì la comprensione della società in generale. Sembra però illusorio pretendere di individuare un punto di vista privilegiato nell’analisi della società. Volta a volta il g. è stato analizzato per studiare le aggregazioni di diseredati (Scuola di Chicago), l’organizzazione del lavoro (Roethlisberger-Dikson, 1939), la conversazione quotidiana e i processi comunicativi (Bales, 1950), le reti di rapporti (Moreno, 1943), le dinamiche interne (Lewin, 1951), ecc. Anche i g. giovanili sono stati studiati molto: inizialmente, negli Stati Uniti degli anni ’30-’40, l’attenzione si è rivolta quasi esclusivamente alle bande o ai g. di amici, considerati espressione, rispettivamente, delle fasce marginali e delle classi medie. In un momento successivo l’interesse di sociologi, antropologi, psicologi, pedagogisti ha travalicato i confini americani e, nel contempo, si è esteso anche a molte altre forme di g. o di associazioni.

4.​​ La diffusione dei g.​​ Probabilmente questa estensione dell’analisi ha accompagnato la diffusione di g., propagatisi per il concorso di varie condizioni. Una di queste può essere la contiguità spaziale, le distanze territoriali oggi ridotte anche grazie all’incremento della comunicazione e della mobilità. Spesso i g. si basano su questa contiguità o definiscono un loro territorio di appartenenza che delimiti anche spazialmente i confini con l’outgroup.​​ Fra le cause della diffusione dei g. vanno ricordati anche il diffondersi di un senso di solitudine, il disagio rispetto all’inadeguatezza di altre agenzie (per es. la famiglia), la «freddezza» di altre aggregazioni, il senso di impotenza rispetto alla complessità sociale o riguardo alle decisioni dei grandi apparati, delle istituzioni collocate nei livelli più alti dell’organizzazione sociale. Tutto ciò può spingere il singolo a entrare in un g. per immergersi nelle correnti «calde» dei rapporti interpersonali; per trovare risposte adeguate ai propri bisogni giudicati importanti; per realizzare azioni concrete e immediate, controllabili direttamente. Le motivazioni che presiedono all’ingresso in un g. sono quindi abbastanza distanti da ragioni esplicitamente utilitariste. «Quando gli individui che scoprono di avere degli interessi in comune si riuniscono, non lo fanno solo per difendere i loro interessi, ma per essere uniti, cioè per non sentirsi spersi fra avversari, per sentire il parere della comunità, per sentirsi divenuti, di molti, uno solo» (Durkheim, 1971, 21).

5.​​ Le funzioni del g.​​ Secondo Simmel (1908), nella società si intrecciano due distinte esigenze di natura psicosociale: da una parte l’uniformità, la coesione, l’uguaglianza, lo «essere per gli altri», la fusione nel g. di appartenenza; dall’altra, la volontà di distinguersi, di segnare una differenza dagli altri appartenenti, di «essere per sé». Il rapporto fra queste due opposte esigenze è di natura dialettica, priva di conciliazione definitiva; ma proprio il conflitto fra i due opposti consente, sempre secondo questo A., la formazione dell’individuo. In particolare, aprirsi oltre la cerchia familiare, partecipare a più g. esterni ed intersecantisi, vivere quella dialettica svolgono un’importante funzione nella formazione dell’individualità. Sulle orme di Simmel troviamo altri autori, più recenti (per es. Crespi, 1985, 381 ss.) Per le sue caratteristiche, il g. può diventare spazio di spontaneità, creatività, affettività; l’intensità dei rapporti interpersonali può sollecitare una disposizione più matura e responsabile verso gli altri, con positive conseguenze su un assetto più armonico della sfera emotiva. Una dialettica interna al g. e meno vincolata da preoccupazioni formali può facilitare nel soggetto una maggiore criticità​​ ​​ Freud (1921) sottolinea inoltre l’importanza della funzione di​​ ​​ identificazione con la quale si stabilisce la solidarietà tra i membri del g., che si assimilano l’uno all’altro sia per effetto delle costrizioni normative del Super-Io, sia in conseguenza degli «istinti» e delle pulsioni dell’Es. Per agevolare ulteriormente le funzioni formative del g., può svolgere un ruolo importante il​​ leader.​​ Egli è sempre una figura strategica per l’influenza che esercita e per la distribuzione dell’autorità e delle informazioni. Lippit-White (1943) e​​ ​​ Lewin (1951), a proposito dei g. di ragazzi, sottolineano proprio la necessità di una leadership «democratica»: animato da intenti partecipativi e pedagogici, il leader sollecita la massima collaborazione, accetta critiche e suggerimenti, favorisce il dialogo. Egli può contemperare positivamente due necessità: tutelare le norme del g. (codificate o latenti che siano) per garantire la conformità e la prevedibilità dei comportamenti; ma deve anche introdurre quel tanto di innovazione che consenta al g. di adattarsi costantemente alla realtà esterna in mutamento.

6.​​ La funzione pedagogica del g.​​ Le potenzialità possibili in questo tipo di aggregazioni e nei loro leader spiegano perché spesso si auspica che l’educazione venga svolta proprio attraverso g. Essi facilitano nei loro aderenti il cambiamento di opinioni o di atteggiamenti (Asch, 1952): quando il singolo membro avverte un desiderio di riconoscimento reciproco, di sicurezza, egli è disposto a seguire i riferimenti, i modelli che prevalgono nel g. Al punto 2 è stata inoltre richiamata la capacità di coinvolgimento che il g. può sviluppare. Solo in casi estremi questo coinvolgimento finisce per annullare la personalità individuale, mentre è sicuramente più facile cadere in un​​ ​​ conformismo comunque non patologico. Una forte identificazione, il timore nel singolo di lacerare la coesione interna o di perdere con il g. anche la propria identità individuale, spostano le ragioni dell’adesione al g. dalla simpatia fra aderenti alla difesa dell’unità fine a se stessa. In alcuni casi, per le stesse ragioni difensive, le norme del g. diventano oggetto di attaccamento affettivo, tanto da suscitare reazioni sproporzionate contro coloro che le violano o tentano di modificarle. Se queste dinamiche si diffondono fra i vari aderenti, il g. si irrigidisce e ciò va a scapito della sua proiezione verso l’esterno, della sua funzionalità e della sua capacità di incidenza sulla realtà (Amerio et al., 1990, 38). Soprattutto in situazioni di crisi, di forte disorientamento, di mutamenti inquietanti, alcuni g. (primari e quasi-primari) offrono al singolo l’occasione di​​ ri-socializzarsi,​​ cioè di abbandonare completamente i vecchi riferimenti e di riscrivere daccapo le proprie mappe cognitive fino ad una trasformazione apparentemente totale della propria soggettività: in questi casi il g. viene organizzato in maniera molto simile alle agenzie di « socializzazione primaria», quali la famiglia, per cercare di ripeterne l’efficacia. Agli occhi del singolo il g. diviene così fonte di costanti conferme, mondo-base, realtà per eccellenza, confine marcato rispetto all’esterno, luogo di interazioni concentrate soprattutto sugli agenti più significativi di questa ri-socializzazione, spazio simbolico nei cui confronti il singolo stabilisce rapporti di identificazione forte e di stretta dipendenza emotiva (Berger-Luckmann, 1969). Se alcune condizioni della nostra società favoriscono questi esiti, altre producono tendenze opposte. Infatti oggi si diffonde anche il fenomeno delle «multiappartenenze» del singolo, il quale aderisce a più aggregazioni evitando, spesso intenzionalmente, di investire gran parte di se stesso in un’unica appartenenza. Inoltre egli può sempre mantenere una distanza dal suo ruolo nel g. e avere la capacità di negoziare le interpretazioni, i ruoli, le aspettative; solo così sarà in grado di dominare se stesso, di offrire un apporto efficace agli altri aderenti, di padroneggiare situazioni impreviste. Infine, tranne che in momenti «forti» durante i quali il g. si ricompatta in maniera decisa, l’identificazione è un fenomeno discontinuo e distribuito irregolarmente fra i membri.

7. I g. giovanili.​​ Molti g. sono formati da giovani che vi trovano un motivo di grande interesse. Le considerazioni generali fin qui proposte valgono a maggior ragione per i g. giovanili, con qualche accentuazione ulteriore. Per effetto dei modelli di socializzazione liberale prevalsi dal secondo dopoguerra in Occidente, la personalità giovanile richiede un sostegno del g., una difesa necessaria ad un ego non abbastanza strutturato per far fronte ai rapporti sociali che coinvolgono singoli segmenti di ruolo piuttosto che l’intera persona. Specialmente nelle nuove generazioni il g. è un insieme di riferimenti significativi (eventuale presenza di adulti che «guidano» il g., disponibilità di uno spazio fisico a propria esclusiva disposizione, punto di riferimento territoriale non casuale, norme, stili, gerghi comuni). Il g. è vissuto come la prima grande occasione di autonomia dal mondo adulto; un’evoluzione rispetto ai g. precedenti formati da bambini o pre-adolescenti; un banco di prova di quelle cooperazioni e conflitti in cui il giovane entrerà con la vita di adulto; un’importante occasione per maturare competenze comunicative, valutative, gestionali, relazionali. I g. dunque assumono un valore cognitivo-costruttivo come luogo di apprendimento nei processi di sviluppo e di formazione identitaria. La funzione di socializzazione svolge un ruolo preminente (anche se non sempre esplicito) fra le finalità interne, spesso in maniera autonoma rispetto ad altre agenzie di socializzazione: tale funzione, d’altra parte, non si contrappone radicalmente alla socializzazione familiare, scolastica, ecc. ma se ne differenzia, in un gioco di costante negoziazione fra generazioni (Amerio et al., 1990). Pur con tutti i rischi richiamati, il g. può ridurre la tensione rispetto ad una pressione esagerata dei genitori e costituire un valido fattore di maturazione rispetto all’egocentrismo e all’egoismo infantile.

Bibliografia

Durkheim É.,​​ Division du travail social,​​ Parigi, Alcan, 1893;​​ Simmel G., «Die Erweiterung der Gruppe und die Ausbildung der Individualität», in O. Rammstedt,​​ Georg Simmel-Gesamtausgabe, XI, Frankfurt a. M., Suhrkamp​​ (trad. it.​​ Individuo e g., Roma, Armando, 2006); Moreno J. L.,​​ Who shall survive? Foundations of sociometry,​​ group psychotherapy and sociodramma,​​ New York, Beacon House, 1943; Bales R. F.,​​ Interaction process analysis: a method for the study of small groups,​​ Cambridge, Addison-Wesley, 1950; Homans G. C,​​ The human group,​​ New York, Harcourt Brace, 1950; Lewin K.,​​ Field theory in social science,​​ New York, Harper, 1951; Asch S. E.,​​ Social psychology,​​ New York, Prentice-Hall, 1952; Amerio P. et al.,​​ G. di adolescenti e processi di socializzazione,​​ Bologna, Il Mulino, 1990, 31-51; Crespi F.,​​ Le vie della sociologia, Ibid., 1994; Paroni P.,​​ Un porto in strada: g. giovanile e intervento sociale, Milano, Angeli, 2004.

P. Montesperelli




GUANELLA Luigi

 

GUANELLA Luigi​​ 

n. a Fraciscio di Campodolcino (Sondrio) nel 1842 - m. a Como nel 1915, sacerdote della diocesi di Como, fondatore delle congregazioni religiose delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza e dei Servi della Carità.

1. Dal 1875 al 1878 fu religioso salesiano e completò la sua formazione pedagogica. Don​​ ​​ Bosco resterà per G. «sempre un “maestro”, di cui intende rimanere discepolo docile ma insieme intraprendente e libero» (P. Braido, in M. Carrozzino, 1989, 8). La sua attività, vivacemente polemica contro la​​ ​​ massoneria e il liberalismo, trova però ispirazione in convincimenti e motivazioni umanitarie e religiose essenzialmente costruttive: la fede in Dio è sicura garanzia della dignità della persona umana che «per quanto sia avvolta nelle tenebre​​ merita rispetto e venerazione»; la carità cristiana è sorgente di sollecitudini per i più deboli: fanciulli, disabili, anziani,​​ «a prescindere dall’età, dal ceto sociale o dal genere».​​ 

2. Il contributo più specifico della sua pedagogia è riferito alle persone disabili attraverso un’opera educativa che coinvolge «il corpo, la mente e l’anima della persona» favorendone la crescita in un clima di famiglia e con dolcezza di modi; si confronta con le denominazioni dell’epoca (frenastenici, idioti, imbecilli) e sceglie di chiamarle​​ buoni figli​​ per togliere «dalla fronte degli sventurati anche le ultime rughe della umiliazione e del dolore»; crea anche per loro laboratori di arti e mestieri e li inserisce nelle colonie agricole per «farli contenti e riabilitarli»; vuole portarle tra la gente non solo «per utile sollievo ma per edificazione del prossimo, perché questi impari a rispettarle e a soccorrerle» poiché «chi fa il più per queste persone meglio veglia sugli altri». Suo principio è quello dell’educabilità per tutti: «Se non si può infondere il fosforo nei cervelli mancanti, si può migliorare naturalmente la loro condizione con un trattamento umanitario e coll’utilizzare le loro forze nei lavori manuali». Per l’educatore «tutti recano istessamente l’impronta di nobiltà» e quindi valorizzandone le «capacità limitatissime» si deve «ingegnare a cavare da loro il meglio possibile», con l’obiettivo di «restituirli alla società». Attento alle esperienze contemporanee (De Sanctis,​​ ​​ Montessori, Gonelli Cioni), G. si avvalse del somasco Pietro Parise (1861-1946), esponente del movimento di Bourneville e Seguin.

Bibliografia

a)​​ Fonti: G. L.,​​ Opere edite e inedite, I-IV, Roma, Nuove Frontiere, 1988-1999;​​ «La Divina Provvidenza» 1 (1892) - 22 (1915). b)​​ Scritti: Carrozzino M.,​​ Don G. educatore, Roma, Nuove Frontiere, 1982; Id.,​​ Don G. e Don Bosco, Ibid., 1989; Braido P.,​​ Caratteri del «sistema preventivo» del Beato L.G., Ibid., 1992; Prellezo J. M., «L’interesse di Don G. per il mondo della scuola», in​​ L’apostolato caritativo di Don G., Ibid., 1993, 161-226; Carrozzino M., «Cenni biografici e scritti di Pietro Parise, esperto di pedagogia «emendativi» e collaboratore di Don G.», in Ibid., 227-257; Diéguez A. M., «G.L.», in​​ Dizionario biografico degli italiani, vol. LX, Roma, Ist. della Enciclopedia Italiana, 2003, 240-242.

M. Carrozzino




GUARDINI Romano

 

GUARDINI Romano

n. a Verona nel 1885 - m. a Monaco nel 1968, teologo ed educatore italo-tedesco.

1. Educato a Magonza, dove il padre era console, dopo una crisi adolescenziale, studiò teologia e fu ordinato sacerdote nel 1910. Libero docente di teologia dogmatica a Bonn, nel 1923 fu incaricato di teologia cattolica a Berlino anche se associato alla facoltà teologica di Breslavia. Sospeso dall’insegnamento dal nazismo nel 1938, lo riebbe nel 1945 prima a Tubinga e dal 1948 a Monaco. G. è tra le figure più rappresentative del pensiero cattolico tedesco e tra gli ispiratori del Concilio Vaticano II. I suoi scritti (tra cui indimenticabile il volume di meditazioni​​ Il​​ Signore)​​ costituiscono un’eredità di pensiero di notevole incidenza anche fuori dell’ambiente te desco.

2. La sua teoria gnoseologica dell’opposizione polare e la sua​​ Weltanschauung​​ cattolica, offrono contenuti e presupposti per un’esistenza di verità e di libertà a partire dalla fede. Dal 1920 G. divenne il capo incontrastato del movimento giovanile tedesco. Profonda e vasta fu la sua opera di educatore come professore universitario, come guida spirituale, come predicatore e conferenziere. L’autoformazione, l’educazione liturgica e alla preghiera, la formazione di una solida coscienza morale, traducono a livello educativo quella preoccupazione per l’uomo e per la civiltà moderna che gli meritarono il premio della pace degli editori tedeschi (1952) e il premio Erasmo per il suo contributo alla coscienza europea (1962). La sua teoria pedagogica si incentra sull’incontro interpersonale e l’impegno per un’esistenza libera e responsabile.

Bibliografia

R.G.,​​ Persona e libertà, Brescia, La Scuola, 1987 (contiene i saggi​​ Fondazione della teoria pedagogica​​ e​​ L’incontro); Id.,​​ Le età della vita,​​ Milano, Vita e Pensiero, 2003; Ascenzi A.,​​ Lo spirito dell’educazione. Saggio sulla pedagogia di R.G., Ibid., 2003; Fedeli C.,​​ Pienezza e compimento, Ibid., 2003.

C. Nanni




GUARINO GUARINI

 

GUARINO GUARINI

n. a Verona nel 1374 - m. a Ferrara nel 1460, umanista ed educatore italiano.

1. È noto anche come G. Veronese dal luogo di nascita. Studia «arte grammaticale» e retorica a Verona e Padova; si reca a Costantinopoli (1403-1408), dove approfondisce il gr., accolto come domestico e allievo nella casa dell’erudito Crisolora. Rientrato in patria, G. diventa lettore di gr. nello Studio di Firenze; si trasferisce a Venezia (1414), dà lezioni private e apre nella sua casa un convitto (contubernium),​​ ospitandovi un gruppo di ragazzi; stabilitosi a Verona (1419) è nominato professore comunale. Nel 1429 accetta l’invito di Nicolò II d’Este che lo vuole precettore dei figli. Dal 1442 fino alla morte è professore di retorica nello Studio di Ferrara.

2. Il pensiero pedagogico di G. è raccolto nelle lettere ad allievi e amici e nell’opera postuma​​ Grammaticales regulae​​ (1488), curata dal figlio Battista. Questi si ispira alla «lunga esperienza d’insegnamento» del suo «ottimo genitore» nel saggio​​ De ordine docendi et discendi,​​ in cui insiste sull’ordine graduale​​ da seguire nell’apprendere e nell’insegnare le lingue gr. e lat., considerando lo studio della​​ ​​ grammatica come fondamento necessario. Prendendo le mosse dalle proposte di​​ ​​ Quintiliano, G. articola la scuola in tre gradi: elementare; corso medio o grammaticale; corso superiore o di retorica, che non solo si prefigge di formare l’oratore (vir bonus dicendi peritus),​​ ma cura anche il genere epistolare, importante nel momento storico. Assieme ai classici latini e greci, vengono letti anche autori cristiani (​​ Agostino,​​ ​​ Girolamo). G. accentua il «fine professionale», cercando di formare insegnanti ed ecclesiastici colti. La fama di G. è legata alla serietà d’impostazione della sua scuola. Fu stimato dai contemporanei come «maestro di cultura e di vita».

Bibliografia

Bertoni G.,​​ G. da Verona fra letterati e cortigiani a Ferrara (1429-1460),​​ Ginevra, Olschki, 1921; Prellezo J.M. - R. Lanfranchi, «La scuola di G.G.», in Idd.,​​ Educazione e pedagogia nei solchi della storia, vol. 2, Torino, SEI, 2004, 19-28.

J. M. Prellezo




GUILFORD Joy Paul

 

GUILFORD Joy Paul

n. a Marquette (Nebrasca) nel 1897 - m. a Los Angeles nel 1987, psicologo statunitense.​​ 

1. Entrato in contatto, negli anni della sua formazione, con autori quali Titchener, C. Dallenbac, K. Koffka, che gli fa conoscere la teoria del pensiero dei gestaltisti, H. Helson, con W. McDougall, allievo di Ch. Spearman e L. Thurstone che stimoleranno il suo interesse per lo studio della​​ ​​ personalità e dell’​​ ​​ intelligenza, G. (che svolge la maggior parte del suo lavoro come direttore dell’unità di ricerca dell’aeronautica americana nel corso della seconda guerra mondiale e successivamente come direttore dell’Aptitudes Research Project alla University of Southern California) è noto soprattutto per i suoi studi sulla misurazione psicologica e per le numerose indagini di tipo statistico sui fattori di personalità, tra cui fa rientrare le abilità intellettuali.

2. Nel suo modello l’intelligenza è intesa come un insieme di contenuti (distinti in contenuti figurativi, simbolici, semantici, comportamentali); di operazioni (distinte in operazioni di valutazione, di produzione convergente, di produzione divergente, di memoria, e di cognizione) e di prodotti, distinti in 6 tipi, e cioè unità, classi, relazioni, sistemi, trasformazioni, implicazioni. Dalla combinazione di contenuti, prodotti e operazioni derivano ben 120 capacità differenti. G. introduce inoltre la distinzione tra produzione (o pensiero) convergente e produzione (o pensiero) divergente, attraverso la quale viene inserita nella struttura dell’intelligenza la creatività, intesa come processo di produzione divergente di nuove e originali soluzioni rispetto a quelle collaudate del processo di produzione convergente. Sono inoltre da ricordare i suoi contributi di tipo metodologico, dedicati in particolare alla discussione dell’analisi fattoriale e alla sua utilizzazione negli studi dedicati all’analisi della personalità.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ principali opere di G.:​​ Psychometrics methods​​ (1936),​​ The nature of human intelligence​​ (1967),​​ Personality​​ (1969). b)​​ Studi:​​ Hall C. S. - G. Lindsay,​​ Teorie della personalità,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1966; Mecacci L.,​​ Storia della psicologia del Novecento,​​ Roma / Bari, Laterza, 1992.

F. Ortu - N. Dazzi




HARDWARE DIDATTICO

 

HARDWARE DIDATTICO

Il termine h. indica tutta la parte visibile e tangibile di un sistema, di una macchina, in particolare di un computer (​​ mezzi didattici). Viene usato in contrapposizione o in modo associato con il termine​​ ​​ software​​ per indicare una delle due parti in cui normalmente si distingue la macchina computer: quella fisica costituita da elementi meccanici ed elettronici che viene chiamata​​ hard​​ (duro). Quando si parla di​​ hard​​ di un computer, normalmente si intende quella parte della macchina che comprende l’unità centrale di elaborazione (CPU - Central Processing Unit)​​ con la sua memoria interna, le periferiche (monitor, tastiera, stampanti), la o le memorie esterne di massa (dischi rigidi o flessibili, dischi ottici, CD-Rom), tutte parti fisiche, toccabili, diverse da quella meno visibile costituita da adeguati programmi e indicazioni chiamata​​ software​​ ugualmente indispensabile al funzionamento. Per rendere un computer operativo è necessario avere un h. con caratteristiche conosciute e un adeguato​​ software.​​ Solo l’insieme delle due parti permette alla macchina di «vivere». A volte in senso esteso si utilizza il termine h. con il significato dato sopra anche per strumenti diversi dal computer, come una lavagna luminosa o un sistema televisivo: in questo senso il termine indica tutto ciò che rende una macchina allo stato potenziale di funzionamento.

Bibliografia

Corsi G.,​​ A scuola con il personal computer,​​ Firenze, Giunti e Lisciani, 1991;​​ Scalisi R.,​​ Users: storia dell’interazione uomo-macchina dai mainframe ai computer indossabili,​​ Milano, Guerini, 2001;​​ Rathbone A.,​​ PC H. e software. Il manuale che mancava,​​ Milano, Unwired Media, 2006; Congiu S.,​​ Architettura degli elaboratori. Organizzazione dell’h. e programmazione in linguaggio assembly,​​ Bologna, Patron, 2007.

N. Zanni




HERBART Johann Friedrich

 

HERBART Johann Friedrich

n. a Oldenburg nel 1776 - m. a Gottinga nel 1841, filosofo e pedagogista tedesco.

1.​​ Biografia e opere.​​ Figlio unico di una madre brillante e di un padre burocrate, ebbe la prima educazione in famiglia da precettori e dimostrò notevoli doti musicali. Studiò poi nel locale ginnasio e nel 1794 intraprese gli studi di filosofia a Jena, in contrasto con il padre. Fu discepolo prediletto di Fichte e si iscrisse a una società studentesca sotto la sua guida. Nel 1796 ebbe una crisi intellettuale e maturò il distacco da Fichte, alla ricerca di una via personale, appoggiandosi ai presocratici e a​​ ​​ Platone. Accettò, in questa situazione, l’invito a fare il precettore nella casa di K. F. Steiger, in Svizzera, occupandosi dei tre figli maggiori (di 14, 9 e 7 anni) fino al 1800. Qui mise a punto le sue idee pedagogiche, grazie agli incontri con​​ ​​ Pestalozzi e alla sua stessa esperienza, giungendo, al tempo stesso, a una prima organica formulazione del suo pensiero filosofico. Tornato in patria, continuò la sua riflessione in questa doppia direzione, mentre terminava gli studi. Dal 1802 al 1808 fu professore universitario a Gottinga; dal 1808 al 1831 lo fu a Königsberg, ricoprendo la cattedra che fu di​​ ​​ Kant; ampliò i suoi interessi ed esperienze pedagogiche, soprattutto con l’apporto di studi psicologici, con la creazione di un «seminario», cui volle affiancare una scuola modello, e con il consolidarsi, attorno a lui, di una «Società pedagogica». Fallito il tentativo di sostituire Hegel a Berlino, tornò a Gottinga, anche per ragioni climatiche, dove insegnò fino alla morte, accelerata, forse, dalle incomprensioni, a livello politico, dopo la bufera scatenatasi con le purghe all’università del 1837, quando era decano della facoltà. Il suo comportamento, di fatto remissivo di fronte all’imposizione governativa, gli valse allora un quasi totale isolamento e giudizi assai negativi, da parte di critici posteriori. Si sposò con una sua studentessa (1811), ma non ebbe figli propri; adottò praticamente, con il consenso e l’aiuto della moglie, l’orfano di un suo allievo, Otto Stiemer, debole di mente, dal quale, nonostante i relativi successi, non ebbe particolari gratificazioni. La vita di H., apparentemente piana, è stata irta di difficoltà: dalla salute cagionevole, alle incomprensioni del padre, al distacco da Fichte, ai problemi economici (che gli imposero, tra l’altro, di tenere lezioni private), all’assenza di attesi apprezzamenti, fino agli scontri aperti del 1837. Ciononostante la sua produzione «scientifica», che portò all’affermarsi di una sua «scuola», più pedagogica che filosofica, è stata abbondante e innovativa. A prescindere dai​​ Berichte​​ allo Steiger, e da scritti pedagogici minori del 1801-3, tra cui anche gli incompiuti​​ Diktate zur Pädagogik, il primo saggio più organico e ampio fu:​​ Pestalozzis Idee eines ABC der Anschauung, seguito da un’interessante appendice sulla​​ «Rappresentazione estetica del mondo»​​ (1804). Nel 1806 vi fecero seguito la sua opera pedagogica più nota:​​ Allgemeine Pädagogik aus dem Zweck der Erziehung abgeleitet,​​ le incompiute​​ Pädagogische Briefe​​ (1830-1832) e, nel 1835 e 1841, le due edizioni dell’Umriss pädagogischer Vorlesungen. Per gli altri scritti filosofici e psicologici, che pure hanno spesso attinenza con la pedagogia, si vedano le​​ Sämtliche Werke.

2.​​ Il pensiero pedagogico.​​ È inscindibilmente collegato a quello filosofico (al cui interno H. colloca la pedagogia, come anche altri faranno), che è il risultato di influssi kantiani, da lui riconosciuti, di resti razionalistici e dell’idealismo, che invece decisamente rigetta. La sua filosofia, denominata​​ realismo,​​ rilancia il ruolo e il senso dell’esperienza,​​ della quale va resa condivisibile la conoscenza (la cui validità egli giustifica criticamente) e che sarà collocata a fondamento di tutta la sua concezione, anche pedagogica. Affrontato per tempo e con serietà il problema epistemologico, giunge alla conclusione che la​​ filosofia​​ è​​ «elaborazione di concetti»​​ e si articola in logica, metafisica e estetica, che, a sua volta, comprende l’estetica in senso stretto e l’etica. Ognuna di loro può essere «pura» o «applicata», cosicché la​​ pedagogia​​ nel sistema herbartiano trova precisamente il suo posto nell’etica applicata (unitamente alla politica, che riguarda il sociale anziché il singolo) e dunque è​​ scienza filosofica,​​ sostanzialmente subordinata alla sola​​ ​​ etica, da cui deriva il suo​​ fine ultimo:​​ la​​ virtù.​​ L’apporto della psicologia invece, da cui pure dipende, è solo di carattere strumentale. Tuttavia H. riconosce un’autonomia alla pedagogia, in quanto «punto centrale di una sfera di ricerche», che può quindi elaborare «un proprio pensiero indipendente», servendosi di un​​ metodo​​ preferibilmente​​ deduttivo.​​ È pertanto una​​ scienza pratica e applicata,​​ che si articola, come le altre, in un​​ momento sintetico​​ (esposto nella​​ Pedagogia generale)​​ e uno​​ analitico​​ (di cui dovevano trattare le​​ Lettere pedagogiche).​​ A tale scienza, di cui H. è comunemente ritenuto il fondatore, fa riscontro un’«arte dell’educazione»,​​ ispirata dalla teoria e all’origine del​​ «tatto pedagogico»,​​ che caratterizza un buon educatore. a) Dalla​​ psicologia,​​ che H. ha esposto a livello più popolare in un’apposita enciclopedia e a livello scientifico in due volumi (Psychologie als Wissenschaft),​​ derivano tuttavia alcuni concetti rilevanti per la sua pedagogia. In particolare: la​​ cerchia delle idee​​ (elaborazione soggettiva delle masse di «rappresentazioni» o di atti psichici, che contribuirà alla formazione del​​ carattere),​​ i​​ gradi formali​​ (molto strumentalizzati in funzione didattica dai seguaci di H., i quali intervengono nella formazione e nel consolidamento della cerchia di idee) e, soprattutto, la​​ plasmabilità​​ (Bildsamkeit),​​ «il concetto fondamentale della pedagogia», in quanto permette e giustifica, al tempo stesso, l’intervento educativo sia del soggetto, che dall’esterno. La plasmabilità tuttavia non ammette manipolazione, poiché il soggetto è sempre attivo e libero; è invece collegata e dipendente dall’individualità, come dalla cerchia delle idee, dalle circostanze di luogo e di tempo, nonché dall’ambiente umano (Umgang),​​ in cui il soggetto stesso vive e da cui trae le sue prime esperienze. Troppo spesso si sono dimenticati questi fondamenti teorici delle tesi herbartiane. b) Anche l’articolazione dell’intervento educativo, esposta soprattutto nella​​ Pedagogia generale,​​ nei tre momenti del​​ governo,​​ dell’insegnamento​​ e della​​ coltura​​ morale si ricollega alla psicologia, pur consentendo da parte della riflessione pedagogica un’elaborazione autonoma. D’altronde, dice H., «la separazione di questi concetti serve per la riflessione dell’educatore», poiché in realtà non sono sempre disgiungibili. Il​​ governo​​ è il meno importante, con una funzione preparatoria, e il meno duraturo: riguarda specialmente i primi anni di vita e vi hanno parte soprattutto l’amore e l’autorità dei genitori, come anche le occupazioni, ma non va impostato sulla sorveglianza. Il suo fine sta nel creare l’ordine, che permette la fruibilità degli interventi educativi. L’insegnamento​​ (Unterricht)​​ invece ha un ruolo preminente, benché in chiave educativa più che intellettualistico-istruttiva. Suoi obiettivi sono, da una parte, l’interesse.​​ dall’altra, la​​ multilateralità​​ del medesimo. Ora l’interesse,​​ concetto su cui H. ha riflettuto a partire dal 1800, lo identifica tardivamente con l’«autoattività»​​ e si suddivide in diversi tipi, di cui quelli suaccennati sono i principali, in quanto riguardano i due aspetti fondamentali della vita: il conoscere e il rapportarsi agli altri, pur con diverse modalità. La​​ multilateralità dell’interesse,​​ fine peculiare dell’insegnamento educativo e sua condizione, punta a un equilibrio e, al tempo stesso, a un progressivo ampliamento dei due filoni principali (conoscenza e partecipazione), che accrescono e moltiplicano le possibilità umane, superando, al tempo stesso, i difetti dell’unilateralità e della superficialità. In questa funzione compaiono i «gradi formali», che s’inseriscono nel gioco delle masse di rappresentazioni e dunque della cerchia delle idee. La​​ coltura​​ (Zucht)​​ infine, che sotto il profilo educativo si qualifica come «morale», perché tesa appunto alla moralità, cui garantisce stabilità ed efficienza, ha come fine la «fortezza del carattere nella moralità». Il concetto di​​ carattere,​​ variamente chiarito da H., ha, in ogni caso, una connotazione di neutralità etica, che è superata invece con la «coltura», che aiuta a vincere la «lotta interiore», presente in ognuno. La formazione del carattere è dunque importante, dal momento che consente il miglior utilizzo delle proprie possibilità, ma è indispensabile, dal punto di vista educativo, la «fortezza del carattere nella moralità», che assicura l’orientamento etico nell’agire. c) In questo quadro H. inserisce riflessioni didattiche di rilievo, sul significato e sulla sequenzialità delle discipline scolastiche, per es., in rapporto alle finalità dell’insegnamento. Così, superando precedenti posizioni, dà un posto qualificante e di guida alle​​ scienze,​​ in rapporto all’interesse di conoscenza, e alla​​ storia,​​ in rapporto a quello di partecipazione. Nell’attività didattica è comunque imprescindibile un’attenzione al passato dell’allievo, all’esperienza acquisita a livello tanto conoscitivo quanto di partecipazione. In essa inoltre riconosce un ruolo particolare, da un lato, all’intuizione,​​ di eredità pestalozziana, pur intendendola diversamente; e dall’altro alla​​ concentrazione, che comporterebbe non solo la non dispersione frammentata dei singoli insegnamenti, all’interno dell’orario scolastico settimanale, ma soprattutto la possibilità di organizzarlo per qualsiasi materia in​​ «episodi».​​ In tal modo, mentre gli allievi più dotati possono intrattenervisi con approfondimenti, ci sarà una possibilità di recupero per i meno dotati. Nella sua difesa del singolo soggetto e delle sue peculiarità, H. richiede classi poco numerose e si oppone alla determinazione dei programmi a livello statale, perché o non adatti ai singoli o molto generici. Si può vedere in ciò un tentativo di conciliazione tra le esigenze a lui contemporanee dei filantropisti, centrati sulla didattica, e dei neoumanisti, cui premeva più la qualità del soggetto. Quanto all’organizzazione della​​ scuola​​ H. ne ha difeso un​​ duplice orientamento,​​ che si potrebbe dire​​ tecnico e classico,​​ entrando però anche nel merito della struttura delle classi e degli esami, con osservazioni d’avanguardia. Infine ha offerto un chiaro contributo, per l’epoca, alla​​ pedagogia emendativa​​ (prendendo in considerazione le anormalità), a quella​​ evolutiva,​​ specie in chiave psicopedagogica, e si è anche occupato di​​ orientamento,​​ rigettando l’interferenza allora decisiva dei genitori nella scelta della scuola. Tuttavia ha chiaramente sostenuto che l’educazione «è un affare della famiglia», proprio in contrapposizione a intrusioni ancora più esterne e impositive. La​​ scuola​​ è stata riconosciuta da lui come un​​ male necessario,​​ inevitabile, date le situazioni sociali, più che come un’istituzione positiva; e in tutto ciò sembra indiscutibile anche l’apporto della sua esperienza personale.

3.​​ Valutazione.​​ L’influsso delle tesi herbartiane è stato molto esteso (dall’Europa, agli USA, al Giappone) e significativo, tanto da costituire in alcuni Paesi vere e proprie «scuole». Alla luce degli studi più recenti s’impone tuttavia un ridimensionamento dei giudizi più comunemente espressi su H., in senso sia elogiativo-apologetico, da parte di suoi discepoli, sia critico-negativo, da parte di chi non ne ha compreso adeguatamente il pensiero. Da un lato, non si può negare un certo​​ razionalismo,​​ da cui una relativa artificiosità, e un​​ disimpegno politico,​​ collegato alla sua attenzione prevalente per il singolo, sebbene abbia affermato che «l’uomo non è nulla fuori della società» (K., VI,16). Dall’altro, vanno invece respinte le accuse di intellettualismo, di moralismo o di «magistrocentrismo» (​​ Dewey), che contrastano con la sua visione antropologica di uno​​ sviluppo solidale,​​ sia intellettuale che operativo, confermato anche dal rigetto delle classiche «facoltà» umane, tra loro realmente distinte, se non indipendenti. Tra i meriti sta anche l’attenzione al singolo​​ con le sue peculiarità, ma soprattutto l’educatività dell’insegnamento,​​ che non può prescindere, proprio per questo, dal collegamento con l’esperienza e con le conoscenze già acquisite e che perciò richiede grande flessibilità, persino a livello istituzionale.

Bibliografia

una bibliografia pressoché completa in Pettoello R.,​​ Idealismo e realismo. La formazione filosofica di J.F.H.,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1986, 256-288;​​ Sämtliche Werke. In chronologischer Reihenfolge,​​ a cura di K. Kehrbach - O. Flügel, 15 voll. + 4 voll. di​​ Briefe von und an H., a cura di Th. Fritzsch, Aachen, Scientia, 1989 (in it.:​​ Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione, a cura di I. Volpicelli, Firenze, La Nuova Italia, 1997); Asmus W.,​​ J.F.H. - Eine pädagogische Biographie, 2​​ voll., Heidelberg, Quelle & Meyer, 1967-1970; Bellerate B.,​​ La pedagogia in J.F.H. Studio storico-introduttivo,​​ Roma, LAS, 1970;​​ Geissler E.,​​ H.s Lehre vom erziehenden Unterricht,​​ Heidelberg, Quelle & Meyer, 1970; Blass J. L.,​​ Pädagogische Theoriebildung bei J.F.H.,​​ Meisenheim a. Glan, Hain, 1972; Bellerate B.,​​ J.F.H. und die Begründung der wissenschaftlicher Pädagogik in Deutschland,​​ Hannover, Schrödel, 1980; Klafkowski M.,​​ Die philosophische Grundlegung des erziehenden Unterricht bei H.,​​ Aalen, Scientia Verlag,​​ 1982; Pettoello R. (Ed.),​​ J.F.H. - 1841-1991,​​ Settimo Milanese, Marzorati, 1992; Volpicelli I.,​​ H. e i suoi epigoni. Genesi e sviluppo di una filosofia dell’educazione, Torino, UTET, 2003.

B. A. Bellerate




HESSEN Sergei Ossipovic

 

HESSEN Sergei Ossipovic

n. a Ist-Sijssolsk in Siberia nel 1887 - m. a Lodz in Polonia nel 1950, pedagogista russo di cultura mitteleuropea.

1. Vissuto in Russia, in Germania, in Cecoslovacchia, in Polonia, conoscitore di sette lingue tra le quali l’it., H. è stato un tipico rappresentante della cultura mitteleuropea germanico-slava della prima metà del Novecento. Studente ad Heidelberg ed a Freiburg dove si laureò, fu allievo di H. Rickert e di​​ ​​ Weber. Insegnò alle università di Pietroburgo, di Praga, di Varsavia e di Lodz.

2. La sua concezione filosofica deriva dalla teoria rickertiana dei valori intesi come un «dover essere» che supera la stessa vita sociale, e quindi rientra in senso lato nel trascendentalismo neokantiano. L’educazione (Erziehung)​​ come ausilio al processo di sviluppo psicofisico non esaurisce pertanto la promozione della persona umana, che si attua appieno solo nella cultura (Bildung)​​ come assimilazione dei valori nella formazione interiore della libertà creativa. Secondo la teoria dei valori, le scienze naturali tendono a leggi di tipo generalizzante, mentre le scienze storiche tendono alla comprensione dell’individuale. L’educazione mira alla personalità del singolo, anche se in rapporto storico con la cultura del suo tempo.

3. La sua concezione pedagogica si ricava soprattutto dal libro​​ Fondamenti della pedagogia come filosofia applicata​​ scritto prima del 1936, che illustra come l’uomo possa svolgere la sua cultura​​ morale​​ attraverso un’iniziale​​ anomia​​ ed​​ eteronomia​​ (assenza di legge e assunzione di legge esterna) verso il traguardo dell’autonomia (attuazione di legge interna); e la sua cultura​​ intellettuale​​ attraverso la conquista di una sempre più intima unità del sapere, dapprima solo​​ episodico,​​ poi​​ sistematico​​ e infine​​ scientifico;​​ questa successione, come H. illustra nel libro​​ Struttura e contenuto della scuola moderna,​​ corrisponde anche ai gradi della scuola e alla prevalenza di un metodo corrispondente (globale, complessivo, correlato, concentrato).

4. Attento alla pedagogia del suo tempo, H. ha svolto penetranti studi su Tolstoj, Dewey, Montessori, Gentile, Lombardo Radice, Kerschensteiner; è stato un pioniere dei primi studi di​​ pedagogia comparata.​​ Si è anche occupato di educazione fisica, musicale, artistica, ambientale. H. ha esercitato una notevole influenza sulla pedagogia italiana attraverso le traduzioni dei suoi scritti e l’insegnamento di Lombardo Radice e di L. Volpicelli.

Bibliografia

Baroni A.,​​ H.,​​ Brescia, La Scuola, 1959; H.S.I.,​​ Difesa della pedagogia, Roma, Avio, 1950; Mazzetti R.,​​ S.H. ricercatore tra due civiltà,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1965; Neri R.,​​ Esame critico della pedagogia di S.H., Roma, E. De Sanctis, 1968; Angle I. C. - C. Lasorsa (Edd.),​​ Il bene e il male in Fëdor M. Dostoevskij / S.H., Roma, Armando, 1980.​​ 

M. Laeng




HORNEY Karen

 

HORNEY Karen

n. ad Amburgo nel 1885 - m. a New York nel 1952, psicologa tedesca.

1. Dopo la laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria porta a termine, presso l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, il training psicoanalitico con K. Abraham e H. Sachs. Nel 1919 inizia l’attività privata e diventa membro ordinario dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino. Pubblica, fino al 1932 (anno in cui si trasferisce negli Stati Uniti come condirettore dell’Istituto Psicoanalitico di Chicago), diversi lavori in cui è già evidente il suo profondo interesse per problemi di tecnica analitica e per le determinanti culturali della personalità nonché l’insoddisfazione per la teoria psicoanalitica classica. In particolare la H. discute la teoria pulsionale e l’universalità del complesso edipico. Considera inoltre​​ l’angoscia di base,​​ concettualizzata come «il sentimento del bambino di essere isolato e impotente in un mondo ostile» e derivante da fattori sociali e culturali, la condizione primaria per i successivi disturbi di personalità. Nel 1927 sottolinea, nel dibattito sviluppatosi nell’Istituto di Berlino sull’«analisi laica», la necessità di una preparazione medica e psichiatrica.

2. Nel 1935 è lettrice presso la School for Social Research e porta avanti la critica alla teoria pulsionale freudiana attribuendo un’importanza sempre più rilevante all’ambiente e ai fattori socio-culturali nella formazione della personalità. Nel 1941, per le sue tesi sempre più esplicitamente in contrasto con il pensiero psicoanalitico classico, viene sospesa dall’incarico di didatta presso il New York Psychoanalytic Institute: la H. presenta quindi le proprie dimissioni dall’istituto newyorchese e insieme a W. Silverberg e C. Thompson aderisce al gruppo dei cosiddetti «neofreudiani» o culturalisti. Nelle sue ultime pubblicazioni sottolinea l’importanza dell’interazione tra i bisogni fondamentali (il bisogno di avvicinarsi agli altri, di autoaffermarsi e di mantenere la distanza) e le richieste sociali nella formazione della personalità e propone, utilizzando il concetto di immagine idealizzata (definita come una immagine di sé fittizia e illusoria e che indica la distanza o discrepanza tra l’immagine che una persona ha di se stessa e il sé reale della persona) una serie di importanti considerazioni sullo sviluppo del Sé.

Bibliografia

tra le opere di H.:​​ Die Technik der psychoanalytischen Therapie​​ (1917),​​ Maternal conflicts​​ (1933),​​ Psychogenetic factors in functional female disorders​​ (1933),​​ Self-analysis​​ (1942) (Autoanalisi,​​ Roma, Astrolabio, 1971),​​ Feminine psychology​​ (1967) (Psicologia femminile,​​ Roma, Armando, 1973); Bres Y.,​​ Freud et la psychanalyste américaine K.H.,​​ Paris, Vrin, 1970.

F. Ortu - N. Dazzi