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AMICIZIA

 

AMICIZIA

Relazione interpersonale affettiva, nata da una scelta generalmente basata sulla gratuità leale, sulla reciprocità costante, sulla comunicazione umana, sulla simpatia istintiva, sulla comunanza di interessi, di ansie e di ideali.

1.​​ Il profilo genetico dell’a.​​ Con alcuni studiosi di antropologia filosofica e di psicologia sociale (​​ Buber, Lévinas, Gevaert,​​ ​​ Nuttin) si può giustamente affermare che «in principio è la relazione», perché la verità dell’uomo non è nel suo essere soggetto, in sé considerato, ma nel suo essere in correlazione strutturale con altri soggetti. L’identità non è nel soggetto – afferma Heidegger – ma nella relazione. Un individuo è ciò che viene fuori dal suo sistema di relazioni umane. Entrare in armonia con «l’altro», allora, sembra soprattutto il compito dell’a., che si presenta come completamento di esperienze relazionali. L’a. è una forma di​​ ​​ amore con caratteristiche del tutto particolari, perché è svincolata da obblighi normativi e dipende solo dalla lealtà reciproca, dalla gratuità dell’incontro, dal rispetto della individualità di ciascuno, dalla consuetudine del rapporto, dalla generosità nelle difficoltà, dalla condivisione delle gioie, dagli interessi comuni, dal lavoro armonizzato per uno scopo comune. L’a. è caratterizzata dal sentimento della​​ parità:​​ gli amici, infatti, non si inquadrano in una gerarchia, si sentono tutti uguali e se talvolta nascono conflitti o competizioni, questi sono superati dalla profonda lealtà e dalla disinteressata gratuità che dà vita al rapporto. Nella relazione amicale entra in gioco un’altra importante caratteristica: la​​ similarità,​​ il processo cioè che trasferisce il bisogno di identità verso l’identificazione, grazie alla quale ogni amico tende ad assumere valori e comportamenti simili o identici a quelli dell’altro. In questo contesto l’a. ci libera dalla solitudine, consolida vincoli affettivi di gruppo, è un conforto, un sentimento di sicurezza, un calore umano che non ha bisogno di parole per esprimersi, perché comunica anche solo con la semplice presenza.

2.​​ Aspetti evolutivi dell’a.​​ Ogni periodo della vita si esprime nell’a. secondo modalità diverse. Sotto l’aspetto evolutivo si possono individuare tre tappe di questo processo: a)​​ l’a. sensibile-affettiva,​​ che si sviluppa nel periodo prepuberale e puberale ed è prevalentemente motivata da aspetti di carattere emozionale e sensibile. È un tipo di a. che nasce per lo più tra soggetti dello stesso sesso e presenta a volte alcuni tratti dell’amore eterosessuale. Questo tipo di a. deve considerarsi come una tappa biologicamente obbligatoria e rappresenta la prima incerta trasformazione dell’affettività della fanciullezza, di natura egocentrica, nell’affettività matura, di natura allocentrica; b)​​ l’a. captativo-egocentrica,​​ che è tipica dell’​​ ​​ adolescenza ed è contraddistinta da aspetti narcisistici, simbiotici e consumativi. Essa è dominata dal bisogno e dal sentimento di essere «l’uno​​ con​​ l’altro», per cui gli amici si vogliono bene perché ognuno vede nell’altro un mezzo per la propria affermazione. Nell’adolescenza l’a. rappresenta una forma elevata di comunicazione emotiva e di condivisione di esperienze. Si tratta di una naturale inclinazione a convivere con l’amico e a vedere in questo fatto uno strumento di personale compiacenza, più che un mezzo di reciproco perfezionamento, essendo l’adolescente prevalentemente centrato più su di sé che nell’altro; c)​​ l’a. operativo-oblativa,​​ che rappresenta la pienezza matura di questa relazione interpersonale. Essa è contraddistinta dal bisogno di essere «l’uno​​ per​​ l’altro», ossia dalla coscienza del fatto che la vita degli altri impone alla propria una certa responsabilità; presuppone un amore fondato sulla gratuità, che è un atteggiamento non motivato da altra ragione che non sia la «libertà del donare e del ricevere», per cui si vuole bene all’altro per quello che​​ è​​ e non tanto per quello che​​ serve.​​ Un’a. siffatta stimola gli amici ad un fattivo interscambio di esperienze personali, ad una concreta manifestazione di stima e simpatia, ad un’effettiva condivisione delle difficoltà e delle gioie, ad una comunicazione personale che si fa progressiva donazione nella sincerità e nella lealtà, proiettandoli nel domani in una comunione di intenti, di impegni, di aspirazioni e di speranze.

3.​​ Educare all’a.​​ Da queste rapide annotazioni sull’a. emerge una logica conseguenza: chi ha responsabilità educative deve avviare all’a., favorendola, orientandola, proteggendola. Sembrano perciò opportune due annotazioni a questo proposito: siccome i legami affettivi di natura amicale non possono ovviamente essere imposti, l’educatore deve innanzitutto vivere e testimoniare in prima persona l’esperienza dell’a. con quel calore umano e quella lealtà che sono già di per sé un fatto educativo; in secondo luogo deve saper creare luoghi di incontro e di aggregazione, in cui soprattutto i ragazzi e le ragazze possono «conoscersi», «capirsi», «stimarsi», «impegnarsi», «esprimersi», «giocarsi» in definitiva in un tipo di a. che sia feconda e costruttiva per la crescita della loro persona.

Bibliografia

Bucciarelli C.,​​ I​​ ragazzi,​​ le ragazze,​​ la coeducazione,​​ Roma, AVE, 1973; Padiglione V.,​​ L’a.: storia antologica di un bisogno estraniato,​​ Roma, Savelli, 1978; Riva A.,​​ A.,​​ Milano, Ancora, 1985; Bucciarelli C.,​​ Adulti-adolescenti: comunicazione cercasi,​​ Roma, AVE, 1993; Pizzolato L.,​​ L’idea di a.,​​ Torino, Einaudi Paperbacks, 1993; Galli N.,​​ L’a. dono per tutte le età, Milano, Vita e Pensiero, 2004.

C. Bucciarelli




AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

 

AMMINISTRAZIONE SCOLASTICA

La definizione non è facile anzitutto perché negli Stati Uniti e nel Canada a.s. indica la gestione del​​ ​​ sistema formativo sia a livello di Stato o di distretto sia a quello di singola scuola, mentre in Europa ci si limita al primo senso: qui si seguirà l’uso del nostro continente. Inoltre, vi è incertezza sul piano teorico se l’a.s. sia una disciplina separata o abbia natura pluridisciplinare: in questa voce si adotta la prima ipotesi, perché non sembra che si possa negare che l’a.s. abbia metodo e oggetto propri. Pertanto, l’a.s. si può definire come quella disciplina delle​​ ​​ scienze dell’educazione che studia la gestione dei sistemi formativi a livello​​ macro​​ (Federazione, Stato, Regione, Provincia, Distretto) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace. Per il livello micro (singola scuola)​​ ​​ organizzazione scolastica: data la difficoltà di tracciare un confine netto tra le due voci, si consiglia di leggerle insieme. L’a.s. è anche quel settore dell’a. pubblica, comprensivo di organi, persone e strutture, che si occupa del funzionamento delle scuole come servizio pubblico.

1.​​ Approcci allo studio dell’a.s.​​ Per quello​​ giuridico​​ ​​ legislazione scolastica. L’approccio delle​​ ​​ scienze sociali ha esercitato un forte influsso sull’evoluzione dell’a.s. per tutto il sec. XX, soprattutto tra la metà degli anni ’50 e ’70. Lo scopo era di potenziare l’insegnamento universitario e la ricerca, facendoli uscire da uno stile prevalentemente esortatorio e impressionistico; d’altra parte, gli amministratori operavano in organizzazioni, comunità, gruppi, in situazioni cioè studiate proprio dalle scienze sociali. In particolare sono le teorie organizzative a influire sull’a.s. Così le posizioni tayloristiche risultano visibili nell’enfasi sull’efficienza, i risultati, la competenza, la responsabilità soprattutto nei Paesi anglosassoni; la concezione weberiana della burocrazia nella costruzione dei sistemi formativi centralizzati delle nazioni in via di sviluppo; la teoria delle relazioni umane nella domanda diffusa di democrazia e di una​​ leadership​​ partecipativa; le impostazioni sistemiche nell’affermarsi dell’autonomia e della pedagogia del progetto. Agli inizi degli anni ’70 il panorama delle scienze sociali è percorso da forti dinamiche orientate al cambiamento. Anzitutto è la società ad essere scossa da un intenso attivismo politico che trova la sua espressione paradigmatica nella​​ ​​ contestazione giovanile. Inoltre, viene denunciato da più parti il positivismo delle scienze sociali, cioè la pretesa che gli unici criteri di verità siano la verifica empirica e la logica analitica, che la metodologia delle scienze naturali debba essere trasferita senza adattamenti alle scienze sociali, che l’obiettivo di queste ultime consista nella elaborazione di leggi, che la ricerca debba essere neutrale sul piano dei valori. Emergono nuove prospettive tra cui va ricordato il​​ soggettivismo​​ che rifiuta ogni scientismo per affermare la necessità di tener conto nell’a.s. anche dei valori e dei sentimenti. Pertanto, il campo degli studi va esteso dagli aspetti descrittivi a quelli normativi e la ricerca empirica non può limitarsi al quantitativo, ma deve affrontare temi come la volontà, le intenzioni, il linguaggio, ciò che è giusto o sbagliato nell’a.s.: di conseguenza la metodologia si orienta verso gli studi etnografici e qualitativi. Le carenze maggiori di tale prospettiva riguardano la concezione superata di scienze sociali che prende in considerazione, ed il relativismo in cui rischia di cadere per la mancanza di criteri oggettivi di valutazione. Le​​ teorie critiche,​​ che si ispirano alla​​ ​​ scuola di Francoforte, focalizzano l’analisi sulla falsa coscienza che viene creata nella massa della gente da sottili meccanismi sociali, istituzionalizzati nel mondo del lavoro, nell’educazione, nei mass media, nel tempo libero, in funzione degli interessi della classe dominante. Sul piano dell’a.s. si parte dalla constatazione della funzione riproduttiva della scuola e del diverso trattamento prestato agli studenti secondo la classe sociale, per affermare che gli amministratori scolastici sarebbero al servizio dei ceti dirigenti e, pertanto, non si impegnerebbero per realizzare una maggiore eguaglianza delle opportunità nell’istruzione. Le teorie critiche riflettono tutti i limiti delle posizioni marxiste (​​ marxismo pedagogico): nell’ambito dell’a.s. hanno espresso più critiche che proposte, appaiono estranee alla realtà scolastica e le loro ipotesi sulla funzione riproduttiva della scuola sono messe in discussione dai risultati della ricerca empirica. Altri approcci da ricordare sono: il «postmodernismo» o «poststrutturalismo» che, a motivo del suo orientamento antintellettuale e antistituzionale, si rivela particolarmente critico nei confronti della scienza e della maggior parte delle forme di organizzazione e di a.; l’area degli studiosi impegnati nella promozione dei gruppi svantaggiati a causa del sesso, della razza o della nazionalità, che evidenziano la situazione di sottorappresentazione e di diseguaglianza di tali gruppi nell’a.s.; le interpretazioni che rifiutano lo scientismo e il positivismo, ma accettano la scienza e una molteplicità di metodi e che si ispirano al pragmatismo, alla fenomenologia ed al realismo. Gli anni ’90 e 2000 offrono un quadro di riferimento sociale molto diverso: il crollo del socialismo reale, l’avvento di regimi moderati o conservatori, la sostituzione delle antiche controversie ideologiche con nuove problematiche, come l’inquinamento ambientale, il rapporto nord / sud, il nazionalismo, l’intolleranza, il terrorismo, la globalizzazione. Anche nelle scienze sociali, mentre perdono quota le impostazioni radicali, prevalgono tendenze sia alla conciliazione tra analisi strutturale e culturale e fra prospettive macro e micro, sia a un empirismo pratico che fa comunque uso del metodo scientifico qualunque sia l’approccio teorico seguito. Anche nell’a.s. si affermano prospettive meno polemiche, più flessibili e anche più sofisticate; una coscienza più acuta della complessità dell’oggetto porta sia all’accettazione di una​​ pluralità di approcci e di metodologie,​​ sia ad un aumento della diversificazione, della frammentazione e della specializzazione. Si placa lo scontro tra sostenitori della ricerca quantitativa e qualitativa, benché sia quest’ultima a ricevere un forte impulso. I valori assurgono al centro della scena soprattutto nel contesto dei processi decisionali e della definizione di soluzioni alternative. L’a.s. è riconosciuta come uno strumento indispensabile per il raggiungimento di obiettivi organizzativi e sociali.

2.​​ Problemi e prospettive sul piano dei contenuti.​​ L’azione degli amministratori si scontra spesso con​​ ostacoli e limiti​​ esterni particolarmente forti che ne condizionano l’efficacia. Tra essi vanno ricordati i fattori geografici, che possono pesare negativamente sulla costruzione delle scuole o sul calendario, quelli demografici, che incidono sulla lingua di insegnamento o sulla moltiplicazione dei turni, quelli storici quali il freno rappresentato dall’eredità coloniale o quelli economici come la povertà, che può bloccare lo sviluppo del sistema formativo. Alcuni di questi ostacoli si sono trasformati in problemi gravi in molti Paesi: in vari casi si tratta delle ristrettezze delle risorse, dell’inflazione, del pagamento dei debiti, della esplosione della popolazione, della modesta preparazione dei docenti; altri riguardano la domanda di maggiore efficienza o la ricerca di fonti alternative di finanziamento. Di fronte a queste difficoltà le capacità di risposta dell’a.s. risultano inadeguate. Di qui l’impegno di molti Paesi a migliorare la preparazione degli amministratori, a potenziare l’efficienza dell’a.s., ad accrescere la responsabilità del personale, a rafforzare la democrazia locale, ad ampliare il ruolo della​​ ​​ scuola libera, ad introdurre elementi di mercato. Un argomento tradizionale di dibattito è quello dei meriti reciproci della​​ centralizzazione​​ e del​​ decentramento​​ dell’a.s. La prima significa che obiettivi, contenuti e strategie sono fissati da una struttura centrale, normalmente un ministero, che dirige le strutture periferiche attraverso norme ed orientamenti circa le modalità più efficaci per l’implementazione. Il decentramento implica lo spostamento del potere a livello locale, che può assumere forme diverse: dal semplice riconoscimento di un certo spazio per la pianificazione, le decisioni e il controllo, alla delega di determinate responsabilità, fino all’attribuzione di poteri legali anche di imporre tasse. A sostegno del centralismo si citano ragioni quali la realizzazione di una maggiore eguaglianza a favore delle zone e dei gruppi svantaggiati, il contributo all’unità nazionale e alla coesione sociale, la riduzione di duplicazioni o sovrapposizioni, la rapidità nell’introduzione di una​​ ​​ innovazione; al tempo stesso, però, esso può trascurare i bisogni della periferia, manca di flessibilità e, pertanto, non tenendo conto delle diversità locali, non assicura di per sé una maggiore efficienza. L’altra ipotesi viene affermata perché favorisce la partecipazione dal basso, la rispondenza alla domanda sociale, la costruzione di una scuola della comunità, l’​​ ​​ autonomia scolastica, l’innovazione, l’efficacia. Va, però, detto che questi effetti non sono automatici, ma richiedono a monte una cultura organizzativa corrispondente ed un corretto rapporto con il centro; inoltre, non vanno dimenticati i rischi connessi con il particolarismo dei gruppi di interesse e con la corruzione locale. Pertanto, la maggior parte dei Paesi cerca di trovare un equilibrio tra un forte potere locale d’iniziativa e la propulsione, il coordinamento ed il controllo centrale. Da una parte bisogna procedere a un ampio decentramento dei sistemi formativi che si fondi sul trasferimento di responsabilità alle istanze regionali e locali, sull’autonomia degli istituti e sulla partecipazione effettiva degli attori locali; il principio fondamentale è che la decisione è locale, mentre l’impulso, il coordinamento, il controllo e la determinazione degli standard nazionali sono centralizzati. D’altra parte, è anche necessario che l’autorità politica si assuma tutta la responsabilità che le compete.

3.​​ L’a.s. italiana.​​ Risale alla L. Casati n. 3725 / 1859 ed è caratterizzata dal​​ centralismo​​ delle origini. Fino alla prima guerra mondiale l’organizzazione dell’a. centrale tende a oscillare tra burocrazia e collegialità. Un altro passaggio importante dell’evoluzione è rappresentato dalla riforma​​ ​​ Gentile del 1923 che globalmente porta ad una espansione del ministero. L’entrata in vigore della​​ Costituzione repubblicana​​ (1948) ha segnato un vero rovesciamento di fronte: da una parte si è affermata la validità del principio delle autonomie e dall’altra il sistema scolastico viene impostato sulle grandi opzioni della libertà, del pluralismo e della convergenza delle iniziative. Nonostante ciò, nei primi anni ’60 il Ministero si è ulteriormente dilatato in una macrostruttura anche se nelle decadi ’70 e ’80 si sono avute alcune riduzioni per effetto della istituzione del Ministero dei Beni Culturali (1975) e dell’Università (1989); inoltre, la L. n. 477 / 73 sugli organi collegiali ha compiuto un primo passo verso l’autonomia di gestione che, però, è rimasta molto limitata. Negli anni successivi è emerso con sempre maggiore chiarezza che il sistema di governo della scuola esigeva un​​ rinnovamento profondo.​​ Questo è avvenuto soprattutto con la riforma del Titolo V della nostra Costituzione (L. n. 3 / 01): in base alla nuova normativa, lo Stato ha competenza esclusiva per quanto riguarda le norme generali sull’istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni; lo Stato e le Regioni hanno competenza concorrente sull’istruzione, fatta salva l’autonomia delle scuole; a loro volta le Regioni hanno competenza esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale. In altre parole la volontà del Costituente è che Stato e Regioni, da una parte, e Regioni ed Enti territoriali con le istituzioni scolastiche, dall’altra, cooperino insieme e, che, pur nel rispetto dei poteri propri di ciascuno, predispongano una politica formativa al servizio dei giovani e delle famiglie, rispondente alle esigenze del territorio, senza perdere in unitarietà e coordinamento. Il passaggio da un modello centralistico e gerarchico a uno​​ poliarchico, che valorizza le autonomie territoriali e scolastiche, comporta un diverso ruolo dello Stato che viene investito di tre compiti: governare in modo unitario il sistema educativo di istruzione e di formazione; verificarne la qualità globale in modo che si raggiungano in tutto il Paese i livelli essenziali di prestazione; ovviare alle disparità esistenti tra le scuole prendendo le opportune misure perequative. Contribuiscono nella medesima direzione anche i compiti programmatori e di coordinamento che sono affidati agli enti territoriali. Rientra in questo quadro anche la ristrutturazione del Ministero della Pubblica I. che in grande sintesi si ispira ai seguenti principi: la pubblica istruzione è chiamata a trasformarsi da a. di gestione autoritativa in a. di governo e di servizio e, pertanto, dovrà rafforzare le proprie competenze tecniche rispetto a quelle gestionali che sono destinate a perdere la rilevanza centrale ad esse assegnata nel passato; inoltre, la tradizionale struttura verticale per ordini e gradi di scuola viene sostituita da una orizzontale per grandi tematiche e che comporta l’abolizione delle articolazioni duplicate e la normalizzazione delle funzioni.

Bibliografia

Perna V., «A.s.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 530-538; Evers C. W. - G. Lakomski,​​ Knowing educational administration: contemporary methodological controversies in educational administration research,​​ Oxford, Pergamon Press, 1991; Willower D. J., «Administration of education as a field of study», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ Oxford, Pergamon Press, 1994, 53-60;​​ Rapporto di base sulla politica scolastica italiana, in «Educazione Comparata» 9 (1998) 30-31, 65-119; Versari S. (Ed.),​​ La scuola della società civile tra stato e mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; Bertagna G.,​​ Istruzione e formazione dopo la modifica del Titolo V della Costituzione, in «Nuova Secondaria» 20 (2003) 9, 102-112; Zajda J. (Ed.),​​ Special issue: The role of the state, in «International Review of Education» 50 (2004) 3-4, 199-418; English F. W. (Ed.),​​ Encyclopedia of educational leadership and administration, Thousand Oaks, Sage, 2006.

G. Malizia




AMORE EDUCATIVO

 

AMORE EDUCATIVO

Non esiste educazione senza a. Non c’è approdo alla compiutezza dell’umano se non promana da ricchezza di a. offerto, rassicurante e orientante a matura libertà, al servizio della vita e dell’a. Nel quadro delle​​ Lebensformen​​ e dei​​ Lebenstypen, immaginati da​​ ​​ Spranger, l’educatore appare come il tipo sociale, altruistico, mosso dalla passione, dall’eros elevato ad a. spirituale per l’uomo e per il suo perfezionamento. Se ne delineano alcune «figure» più rilevanti.

1.​​ L’a. naturale​​ dei genitori per i figli, in particolare delle madri, è spesso esaltato nella poesia e nell’arte ed è fenomeno diffuso in tutte le culture. Ne prende atto anche​​ ​​ Aristotele, attento osservatore dei fatti: «Si ammetterà anche che l’amicizia consiste più nell’amare che nell’essere amati. Se ne trova un esempio nelle madri che ripongono tutta la loro gioia nell’amare» (Et. Nic.​​ VIII 8, 1159 a 13); «i genitori amano i loro figli perché questi sono come qualcosa di loro» (Et. Nic.​​ VIII 12, 1161 b 18); per la maggior prossimità iniziale «le madri amano i loro figli più di quanto facciano i padri» (Et. Nic.​​ VIII 12, 1161 b 26). Nel mondo ebraico ci si domanda a proposito dell’a. fedele di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno?» (Is 49,15). Esprime analoga persuasione s. Angela Merici alle «Matrone» della sua Compagnia di vergini: «Perché si vede nelle madri carnali, le quali, se havesseno mille figli et figlie, tutti li haveriano nell’animo suo totalmente fissi de uno in uno [...]. Anzi, pare che, quanto più se n’ha, tanto più l’a. et cura cresca a un per uno» (Legati​​ 2°). Tuttavia l’istinto non protegge da fenomeni opposti, attestati dalla storia di tutti i tempi: crudeltà, sevizie, abbandono, esposizione, ius vitae et necis del​​ paterfamilias,​​ infanticidio, abuso sessuale (​​ violenza).

2.​​ L’a. dei genitori,​​ in particolare quello materno, viene considerato primario nell’evento educativo dai classici della pedagogia romantica: «Tutta l’antichità esalta l’a. materno più di quello paterno; e dev’essere ben grande, quest’a. materno, poiché un padre amorevole non può immaginare affetto superiore al suo» (​​ Richter,​​ Levana​​ fr. IV);​​ «il nostro scopo principale è lo sviluppo dell’anima infantile [...] e quale forza più attiva e stimolante dell’a. materno?» (​​ Pestalozzi, II lett. a Greaves); «la madre è la naturale maestra che la Provvidenza ha posto al fianco del bambino. Il sangue non dice molto: è solo la bontà che parla al cuore della tenera creatura» (​​ Girard,​​ Dell’insegnamento regolare della lingua materna,​​ lib. IV, cap. VI, 1);​​ ​​ Fröbel,​​ L’educazione dell’uomo​​ I 6-22; II 24-33: «quanto è stato finora esposto possa destare nei genitori un sincero e sereno, profondo e intelligente a.».

3. L’a. viene esaltato, per una ristrettissima​​ élite​​ sociale e culturale, nella raffinata riflessione platonica sull’eros-pedagogico.​​ Esso vi è teorizzato come sublimazione dell’a. maschile: «volo di due anime intimamente unite al regno della bellezza eterna», «la fusione di passione vera col puro librarsi della speculazione e con la forza di una liberazione morale». È a. che porta gli amanti alla contemplazione del Bello e del Bene, due aspetti dell’identica realtà, «l’esser bello e buono»; e rende capaci di autentica «politica», recuperando alla ragione anche i «custodi», resi permeabili ad essa mediante un sistema educativo congruo (Jaeger, 1959, 299-337).

4. In una vasta prospettiva che attraversa i secoli, l’a.-carità​​ (agápe)​​ costituisce il​​ proprium​​ della pedagogia cristiana (familiare e istituzionale), quando si ispira all’infanzia vissuta in Gesù o da lui amorevolmente accolta ed esaltata (Mt 18,1-6; Mc 9,33-37; 10,13-16; Lc 9,46-48) e non viene, invece, soverchiato, nella realtà effettiva, dall’austera tradizione romana o dei popoli barbarici. Dell’a.e. evangelico sono testimonianza classici testi di​​ ​​ Agostino (De catechizandis rudibus,​​ cap. IV e XII), di s. Anselmo d’Aosta (Vita Eadmeri,​​ I 4, nn. 30-31), di educatori e pedagogisti dall’umanesimo all’età moderna, di fondatori e fondatrici di istituti religiosi consacrati all’educazione della gioventù,​​ ​​ Petites écoles de Port-Royal,​​ ​​ Rollin,​​ ​​ Aporti. S. Agostino mutua dalla letteratura classica come norma del governo della comunità monastica la formula «plus amari quam timeri» (Regula,​​ cap. XI), ripresa da s. Benedetto (Regula,​​ cap. LXIII) e trasferita nello spazio pedagogico da Ratherius, vescovo di Verona (Praeloquiorum,​​ lib. I, tit. XV, n. 30), da Silvio​​ ​​ Antoniano e infine da don Bosco (​​ sistema preventivo).

5. Accanto all’a. paterno e materno, proprio della famiglia nei confronti soprattutto dell’infanzia e delle istituzioni di stile «familiare», esiste​​ una contenuta forma di a.e.​​ deputato piuttosto a stabilire un ordine di​​ razionalità​​ e di​​ disciplina.​​ Ne tratta anche​​ ​​ Kant: «È necessario che l’uomo sia abituato per tempo a sottomettersi ai precetti della ragione [...]. Né la esagerata tenerezza materna che lo circonda durante la fanciullezza gli giova» (La pedagogia,​​ introduzione). È il sistema tipico usato nei monasteri, nelle famiglie patriarcali e, soprattutto, nei collegi, in particolare quelli militari dei secoli XVIII e XIX. Esso si pratica nei confronti di un’adolescenza ritenuta età irrequieta e ribelle, da preparare attraverso rude disciplina all’inserimento adulto nella società. In quest’ottica si determina in Francia, soprattutto nei primi decenni dell’’800, il dibattito polemico tra l’educazione pubblica, esigente e virile, e l’educazione privata, amorevole e condiscendente.

6. L’attuale complessità del compito educativo, nella famiglia e fuori, e lo sviluppo delle scienze dell’educazione sottolineano l’esigenza che l’educatore sappia coniugare l’a. con l’intuizione, la competenza, la familiarità con le scienze dell’educazione «Non basta amare per essere buoni educatori» (Pio XII); o meglio, se si ama, si mette tutta l’intelligenza al servizio dell’a., rendendo l’azione educativa più persuasiva ed efficace. Si insiste, in particolare, sulla necessità che l’a. non freni o blocchi, ma promuova la crescita dell’educando alla libertà matura: l’autenticità dell’a.e. sta in definitiva nel saper operare in modo che i giovani protagonisti siano indotti ad amare ciò che l’educatore ama non semplicemente​​ perché l’educatore è amabile,​​ ma è​​ valido e amabile in sé​​ ciò che l’educatore propone; anzi siano abilitati ad andar oltre con un cammino autonomo, originale e responsabile. Ciò può verificarsi in più alta misura quando l’educatore è l’apriori della coppia che li ha generati donandosi e donando a. permanente, aprendoli nell’uterus spiritualis​​ della famiglia alla pienezza della libertà.

Bibliografia

Jaeger W.,​​ Paideia. La formazione dell’uomo greco,​​ vol. III​​ Alla ricerca del divino,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1959, cap. VIII​​ Il​​ Simposio. Eros,​​ 299-337;​​ Spranger E.,​​ Der geborene Erzieher,​​ Heidelberg, Quelle und Meyer, 1960, 80-106​​ (Die pädagogische Liebe);​​ März Fr.,​​ Erzieherische Existenz. Zwei Essays über das Sein und die Liebe des Erziehers,​​ München, Kösel, 1963;​​ Histoire des pères et de la paternité,​​ sous la dir. de J. Delumeau et de D. Roche, Paris, Larousse, 1990; Delumeau J. (Ed.),​​ La religion de ma mère. Le rôle des femmes dans la transmission de la foi,​​ Paris, Cerf, 1992;​​ Venturelli F.,​​ Il ‘noi’ dei genitori e la relazione con il figlio nella riflessione di Ferdinando Ulrich, in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 43 (2005) 301-313; Galli N.,​​ Competenza ed a. per lo sviluppo del bambino, in «Pedagogia e Vita» 63 (2005) 162-164; Macario L.,​​ A. fonte di vita, Roma, LAS, 2007.

P. Braido




AMOREVOLEZZA

 

AMOREVOLEZZA

Il termine a. è quasi caduto in disuso nella lingua it.; ma nei secoli XVI-XIX ricorre con frequenza anche come categoria «pedagogica» (nell’educazione, nella catechesi e nella​​ ​​ pastorale).

1. Esso indica una particolare modalità di rapporti tra padri / madri e figli, tra maestri / educatori-maestre / educatrici e allievi / allieve, tra catechisti e catechizzandi, tra sacerdote / confessore e fedele / penitente. «A.​​ – scrive il Tommaseo – è il segno dell’amore, della benevolenza, dell’affetto; segno che può essere più o meno evidente e sincero.​​ Amorevole​​ indica gli atti esterni di un sincero amore [...] L’a. innoltre è, più d’ordinario, da superiore a inferiore. Può però anco l’a. essere tra pari, così come l’affetto [...]. La vera a. cristiana vien sempre dal cuore» (Nuovo diz. de’ sinonimi,​​ Napoli, 1905, 102-103).

2. Già nelle​​ Constitutioni et Regole della Compagnia et Scuole della Dottrina Christiana​​ (1585) è stabilito per il maestro: «con charità, a. et mansuetudine gli [gli scolari] riceva», seguendo l’esempio «di Christo, che con tanta charità et a. accettò quello fanciullo, che gli andò avanti». Anche​​ ​​ Aporti parla della necessità di «guadagnarsi prima di tutto l’affezione e la confidenza dei fanciulli», tenendo conto che «si ama chi ci tratta con a.» e che «il mezzo che più concorre a conciliare la benevolenza è la benevolenza»​​ (Scritti pedagogici​​ II, Torino, Chiantore, 1945, p. 85, 440-441). Fratel Théoger delle Scuole cristiane, conosciuto da don​​ ​​ Bosco a Torino (Virtù e doveri di un buon maestro,​​ Torino, Paravia, 1863), sviluppa il tema del maestro che «procura colle sue amabili qualità di conciliarsi l’a. degli scolari» (p. 5). Il barnabita A. Teppa,​​ Avvertimenti per gli educatori ecclesiastici della gioventù​​ (Roma / Torino, Marietti, 1868), una delle fonti delle pagine di don Bosco sul​​ ​​ sistema preventivo del 1877, parla di «amorevoli parole», di «amorevoli correzioni», «modi amorevoli», di castighi dati «con dignità e insieme con a.» (pp. 40, 49).

3. Don Bosco fa dell’a. uno dei tre pilastri (gli altri sono la​​ ​​ ragione e la​​ ​​ religione) su cui poggia il «sistema preventivo», la cui «pratica è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo». L’a. è precisamente «amore dimostrato» con immediatezza, sincerità e riserbo, e può considerarsi sinonimo di dolcezza, mansuetudine, benevolenza, amore-carità paziente e comprensiva. Don Bosco raccomanda l’a. anche ai confessori: «Accogliete con a. ogni sorta di penitenti, ma specialmente i giovani» (Opere edite​​ XIII 181); ma più universalmente a tutti coloro che si occupano dell’età in crescita: genitori, educatori, insegnanti, assistenti, animatori. Egli, però, non si nasconde alcune possibili ambiguità pedagogiche nel praticarla; perciò la vuole vissuta in sintesi con la ragione / ragionevolezza e la virtù teologale della carità. In relazione alle cautele e alle avvertenze di don Bosco, una innovativa pista di ricerca di grande forza suggestiva, con preciso riferimento alla sensibilità odierna nei confronti della sessualità e dell’amore, è percorsa e indicata dal salesiano francese Xavier Thévenot.

Bibliografia

Perquin N.,​​ Don Bosco als opvoeder en psycholoog,​​ in «Dux» 29 (1962) 433-439;​​ Rougier S.,​​ L’avenir est de la tendresse. Ces jeunes qui nous provoquent à l’espérance, Paris, Salvator, 1979; Thévenot X.,​​ Don Bosco educatore e il sistema preventivo. Un esame condotto a partire dall’antropologia psicoanalitica, in «Orientamenti Pedagogici» 35 (1988) 701-730;​​ Id., «L’affectivité en éducation», in​​ Éducation et pédagogie chez don Bosco,​​ Paris, Fleurus, 1989, 233-254; Braido P.,​​ Breve storia del «sistema preventivo»,​​ Roma, LAS, 1993; Id.,​​ I molti volti dell’a., in «Rivista di Scienze dell’Educazione» 37 (1999) 17-46.

P. Braido




analisi degli OBIETTIVI

 

OBIETTIVI: analisi degli

Dal lat.​​ objacere​​ (essere posto davanti), il termine o. è stato introdotto nel linguaggio pedagogico in polemica con «finalità»​​ ​​ identificata con la retorica e la vaghezza secondo le quali si definivano tradizionalmente le intenzionalità educative​​ –​​ ed ha costituito la parola-chiave di un modello didattico​​ –​​ la «pedagogia per o.», appunto – che si è imposto all’attenzione in Europa nella particolare congiuntura degli anni ’70. Senza entrare nel merito delle contingenze culturali che ne avevano ispirato l’origine (gli USA degli anni ’50 con Tyler) né delle «vie nazionali», che in Italia e negli altri Paesi europei l’hanno denotato in modi differenziati, l’opzione a favore degli o. si giustifica essenzialmente come istanza diffusa: a) per​​ «princìpi di legittimazione»,​​ capaci di promuovere la​​ convergenza unitaria​​ delle attese rivolte alla scuola; b) per​​ «principi di organizzazione»​​ in grado di assicurare l’opportuna​​ razionalità strumentale​​ all’azione d’insegnare. Nell’insieme, si tratta di acquisire i requisiti della scientificità al lavoro educativo.

1. In questo contesto, l’analisi degli o. consiste in una complessa e sofisticata procedura di progettazione dell’insegnamento che si caratterizza per​​ l’enfasi sui risultati attesi​​ sui quali far leva per​​ rendere prevedibili e controllabili le operazioni di aula e di scuola.​​ Prescindendo dalle numerose varianti che si conoscono, la programmazione per o. si compie attraverso due passaggi connessi: a) la​​ legittimazione​​ e b) la​​ operazionalizzazione. Il primo​​ si costruisce come​​ processo di deduzione:​​ nel quadro delle finalità assegnate dalla società all’istituzione scolastica, si tratta di identificare​​ il cambiamento dell’alunno​​ in quanto corrispettivo – in situazione – connotato da​​ necessità​​ (=​​ quel cambiamento,​​ e nessun altro che quello)​​ e​​ sufficienza​​ (=​​ quel cambiamento,​​ e solo quello).​​ Dal punto di vista tecnico, è il riferimento al​​ tempo di realizzazione​​ – medio e breve termine – che consente di tradurre la «finalità» in «o.» pertinenti. La deduzione consente inoltre di coprire altre dimensioni del progetto pedagogico-scolastico:​​ all’interno,​​ orientare sul piano etico e attivare a livello socio-emotivo il consenso degli insegnanti;​​ all’esterno,​​ accreditare le intenzionalità formative della scuola presso il pubblico, in particolare le famiglie, invitati a condividere ed a sostenere l’impegno degli insegnanti.​​ Il secondo passaggio​​ è più articolato perché investe​​ il​​ campo decisionale​​ dell’azione didattica, ovvero il calcolo delle condizioni d’esercizio utile a ridurre l’incertezza delle scelte da compiere in molteplici direzioni e in tempo reale. Il dispositivo contempla: a)​​ La valutazione anticipata,​​ ovvero (I)​​ la formulazione rigorosa del cambiamento atteso,​​ tale da indicare le azioni dell’alunno in un contesto dato, e i criteri in base al quale potranno essere riconosciute dall’insegnante, e (II)​​ la classificazione delle prestazioni dell’alunno,​​ in modo da indicare i criteri in base ai quali potranno essere apprezzate dall’insegnante (a questo proposito si adottano​​ tassonomie,​​ più o meno standardizzate – per rendere comparabili i giudizi – e differenziate a seconda degli ambiti curricolari mirati). b)​​ Il​​ disegno della conduzione,​​ ovvero (III)​​ la selezione dei contenuti,​​ (IV) la determinazione della​​ sequenza metodologica,​​ dei raggruppamenti degli alunni, delle tecniche e dei materiali, (V) il computo dei​​ tempi​​ necessari e degli​​ spazi arredati​​ utilizzabili. c)​​ Il controllo di fattibilità,​​ ovvero (VI) l’accertamento dei​​ prerequisiti​​ presso gli alunni ed, eventualmente (VII) interventi resi opportuni per mettere gli alunni in condizione di seguire proficuamente l’attività didattica predisposta.

2. Il successo della «pedagogia per o.» presso l’amministrazione scolastica e gli insegnanti è apparso vasto e immediato, presumibilmente perché ha consentito di razionalizzare le pratiche didattiche e di promuovere efficacemente l’immagine professionale. Frequenti, tuttavia, e numerose sono le obiezioni mosse a questa strategia di programmazione: – innanzitutto la laboriosità della procedura, che richiede competenze elevate, non facilmente reperibili presso gli insegnanti, e la macchinosità, che richiede tempi e impegni di coordinamento proibitivi; – la difficoltà di anticipare la valutazione, rappresentandosi nella fase di progettazione gli esiti di un’attività formativa non ancora esperita e comunque frutto dell’interazione, non sempre né facilmente prevedibile, con gli studenti; – il riduzionismo imposto dall’uso dei verbi d’azione per rendere «visibili» i cambiamenti voluti presso gli alunni quando riguardano conoscenze e competenze cognitive profonde; – gli ostacoli opposti dalla struttura reticolare delle discipline di studio ad essere ordinate in strumenti lineari come le tassonomie; – l’inopportunità di percorsi precostituiti per un’azione come l’insegnamento, che si costruisce integrando gli studenti e adattandosi flessibilmente ai loro comportamenti.

3. A seguito della discussione critica (avviata, lealmente, all’interno del movimento medesimo), ma anche a fronte di reazioni polemiche quando non preconcette, oggi della Pedagogia per O. restano fuori gli estremi, come la «operazionalizzazione», la limitazione degli o. all’interno del «dominio» motorio, pratico e cognitivo di rango inferiore (ad esclusione, quindi, dell’ambito più pregnante sul piano educativo, come sociale-emotivo-affettivo e, a scuola, del livello cognitivo più avanzato), il ricorso per approssimazione di massima alle tassonomie (soprattutto a riguardo della loro «linearità»), il rifiuto netto di indicatori «metrici» e quantitativi all’atto della valutazione, l’ammissione di frammentarietà (e numerosità) degli o. Buttata via l’acqua sporca (soltanto?), resta una sorta di «canone» della programmazione – lo schema​​ O.-Metodi-Contenuti-Valutazione​​ – il​​ nucleo di un’idea d’insegnamento concepito come attività razionale, una sorta di «sentire comune» consolidato, ormai divenuto patrimonio generale. Oggi è la​​ «Pedagogia delle Competenze»​​ che si presenta come una evoluzione non difensiva della​​ Pedagogia per O.​​ e ripropone lo stesso orientamento di fondo, adattato ad una congiuntura culturale ben diversa dagli anni della sua affermazione istituzionale.

Bibliografia

Meyer H. L.,​​ Introduzione alla metodologia del curriculum, Roma, Armando, 1977; De Landsheere G. e V.,​​ Definire gli o. dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1977; Birzea C.,​​ Gli o. educativi nella programmazione, Torino, Loescher, 1979; Filograsso N.,​​ Gli o. dell’educazione. Fondamenti epistemologici, Venezia, Marsilio, 1979; Gage N. L.,​​ The paradigms wars and their aftermath: A ‘historical’ sketch of research on teaching since 1989, in «Educational Researcher» (1989) 7, 4-10; Boselli G.,​​ Postprogrammazione, Firenze, La Nuova Italia, 1991; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica, Torino, SEI,​​ 21994; Crispiani P. - N. Serio (Edd.),​​ Manifesto sulla progettazione. Testo e commento al Manifesto di Chiaravalle, Roma, Armando, l996; Damiano E.,​​ Didattica ed epistemologia. Indagine sui fondamenti di alcuni modelli d’insegnamento, in «Pedagogia e Vita» (2004) 4, 75-106.

E. Damiano




ANALISI TRANSAZIONALE

 

ANALISI TRANSAZIONALE

L’a.t. è una teoria della​​ ​​ personalità e una psicoterapia sistematica ai fini della crescita e del cambiamento della persona (Stewart e Joines, 1990), elaborata dallo psichiatra americano E. Berne verso la fine degli anni ’50.

1.​​ Complessità del modello.​​ L’a.t. oltre che una teoria di personalità, un modello psicoterapeutico per interventi individuali, di gruppo, di coppia e familiare e una specifica teoria della psicopatologia, è anche una teoria della​​ ​​ comunicazione e dello​​ ​​ sviluppo infantile. Come teoria della comunicazione può fornire un metodo di a. dei sistemi e delle organizzazioni. Come teoria dello sviluppo infantile permette di spiegare come schemi di vita attuali abbiano origine, in parte, dall’infanzia e continuino a modificarsi lungo tutto il corso della vita. L’a.t. è ampiamente usata nei contesti educativi per il counseling e nei processi interpersonali per aiutare gli insegnanti e gli studenti a rimanere in chiara comunicazione.

2.​​ Concetti chiave dell’a.t.​​ Sono fondamentali nell’a.t. i concetti di​​ stati dell’Io.​​ Uno stato dell’Io è un insieme di comportamenti, pensieri ed emozioni tra loro collegati così da formare un’unità osservabile. Ci sono tre stati dell’Io secondo l’a.t.: lo stato dell’Io Adulto, lo stato dell’Io Genitore e lo stato dell’Io Bambino. L’Adulto​​ è un insieme di modi di agire, pensare e sentire in relazione alla realtà che si svolge nel qui ed ora; il​​ Genitore​​ è un insieme di comportamenti, di pensieri e di emozioni che spesso sono una copia dei modi di porsi dei genitori, o altre persone che sono state figure genitoriali; il​​ Bambino​​ riflette modi di comportamento, di pensiero e di emozioni caratteristici di quando si era bambini. Quando le persone comunicano possono presentarsi a partire da qualsiasi dei tre stati dell’Io; l’a. delle sequenze di transazioni tra gli stati dell’Io delle persone costituisce l’a.t. in senso stretto. Nell’a. delle transazioni sono importanti le​​ carezze,​​ cioè qualsiasi atto di riconoscimento dell’altro o da parte dell’altro, e la​​ strutturazione del tempo,​​ cioè i diversi modi di impiegare il tempo nelle transazioni in gruppi o in coppie. Nell’infanzia ogni persona scrive una storia di vita per se stessa che l’a.t. chiama​​ copione.​​ Nella vita adulta molti aspetti del copione vengono seguiti fedelmente senza che la persona ne abbia consapevolezza. L’a. del copione​​ serve per capire come le persone possano talora, senza saperlo, crearsi dei problemi e come possano procedere per risolverli. Il bambino crea il copione come strategia efficace di sopravvivenza. Nel creare il copione talora distorce la realtà con​​ ridefinizioni,​​ altre volte non tiene conto di fatti importanti con la​​ svalutazione​​ di essi. Per mantenere il copione nella sua forma infantile, talora gli adulti entrano in relazione in modo da comportarsi come bambini e invitano gli altri ad assumere il ruolo di Genitore e Adulto anziché attivare il proprio Genitore e il proprio Adulto; quando questo avviene si dice che la persona si mette in un rapporto​​ simbiotico.​​ Da bambini le persone talora imparano a non esprimere alcune emozioni non approvate e a sostituirle con altre. Quando nella vita adulta invece di esprimere le emozioni autentiche si fa lo scambio delle emozioni come si faceva da bambini, le emozioni sostitutive sono chiamate​​ emozioni parassite.​​ Se le persone che comunicano, invece di esprimere le emozioni autentiche si relazionano attraverso emozioni parassite, esse mettono in atto dei​​ giochi psicologici.​​ Compito importante degli adulti è quello di aggiornare il copione per affrontare la vita secondo le esigenze del presente piuttosto che secondo le strategie create da bambini e inefficaci per il presente. Il cambiamento del copione infantile per adottare quello funzionale per la vita adulta permette di raggiungere l’autonomia.​​ Gli interventi dell’a.t. hanno lo scopo di facilitare l’arricchimento dell’autonomia.

3.​​ La filosofia dell’a.t.​​ I seguenti sono alcuni assunti di base dell’a.t.:​​ ognuno va bene come persona,​​ ognuno è capace di pensare,​​ ognuno decide il proprio destino e le decisioni prese possono essere cambiate.​​ Da questi assunti seguono due metodi di intervento specifici dell’a.t.: il​​ metodo contrattuale​​ e la​​ comunicazione aperta.​​ Il metodo contrattuale implica che in qualsiasi cambiamento previsto​​ viene assunta la responsabilità congiunta​​ tra l’analista e la persona interessata e ciò porta ad accettare la parità tra l’analista e la persona che si presenta per affrontare dei problemi. La comunicazione aperta implica che l’analista​​ fornisce chiare spiegazioni​​ rispetto a quello che accade nella relazione e nel lavoro congiunto.

4.​​ Organizzazione.​​ L’a.t. è organizzata a livello internazionale attraverso l’ITAA, International Transactional Analysis Association, a livello europeo attraverso l’EATA, European Association for Transactional Analysis, in Italia attraverso la SIAT, Società Italiana di a.t. In Italia esistono anche gruppi di analisti transazionali che non aderiscono alla SIAT.

Bibliografia

Berne E.,​​ A che gioco giochiamo?,​​ Milano, Bompiani, 1967; Scilligo P. - M. S. Barreca,​​ Gestalt e a.t., vol. I,​​ Roma, LAS, 1981; Scilligo P.,​​ Gestalt e a.t.,​​ vol. II, Ibid., 1983; Berne E.,​​ Principi di terapia di gruppo,​​ Roma, Astrolabio, 1986; Scilligo P. - S. Bianchini (Edd.),​​ I premi Eric Berne,​​ Roma, IFREP, 1990; Stewart I. - V. Joines,​​ L’a.t.: guida alla psicologia dei rapporti umani,​​ Milano, Garzanti, 1990; Zalcman M.,​​ A. dei giochi e a. del ricatto: visione d’insieme,​​ critica e ulteriori sviluppi,​​ in «Polarità» (1990) 8, 351-379; Mastromarino R. (Ed.),​​ A.t. La terapia della ridecisione: dalla teoria alla pratica e dalla pratica alla teoria, Roma, LAS, 2006.

P. Scilligo




ANARCHISMO ED EDUCAZIONE

 

ANARCHISMO ED EDUCAZIONE

Si intende per a. la teoria e pratica politico-sociale che tende a rifiutare ogni tipo di gerarchia e di organizzazione della​​ ​​ società.

1. Per anarchici e marxisti l’educazione fu una preoccupazione di capitale importanza. Nel Congresso dell’Internazionale dei Lavoratori, tenuto a Bruxelles nel 1868, si discusse della necessità di una «educazione integrale», il cui più strenuo difensore fu Paul Robin. Antico alunno della Scuola Normale Superiore di Parigi, conobbe Bakunin e Marx e partecipò alle loro dispute per capeggiare il movimento operaio internazionale. Robin rese popolare il concetto di «educazione integrale», difeso da tutti i leader operai del sec. XIX, attraverso il suo scritto​​ De l’enseignement intégral​​ (1869). Inizialmente Marx e Bakunin condividevano l’idea che prima era necessario fare la rivoluzione e poi bisognava rieducare il popolo, ma dal 1880 gli anarchici capeggiati da Kropotkin mutarono l’ordine delle priorità e si convinsero che nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile senza un previo cambiamento di mentalità dei suoi protagonisti. Prima di fare la rivoluzione, bisognava cominciare dalla scuola; tuttavia né la scuola di Stato né la scuola di Chiesa avrebbero collaborato al cambiamento delle mentalità, per cui gli anarchici cominciarono a fondare delle scuole proprie dalle quali provenivano i futuri rivoluzionari. In tal modo, nella terza parte del sec. XIX, sorsero numerose scuole private a carattere laico, la cui differenza fondamentale rispetto alle scuole statali e a quelle degli ordini religiosi, era il fatto che non vi si insegnava religione. Le leggi consentivano questo tipo di scuola a certe condizioni e ve ne furono di varia portata; tra esse vi furono scuole a spiccato carattere anarchico.

2. La prima scuola anarchica che ebbe una certa notorietà fu l’Institution Prevost​​ di Cempuis, vicino a Parigi. Si trattava di un orfanotrofio privato, controllato dal governo francese. Per dodici anni Robin diresse il centro, trasmettendo alcuni principi anarchici e introducendo alcuni metodi pedagogici innovativi, come per es. la lezione all’aperto, l’importanza dell’igiene, dell’educazione fisica e del lavoro nei piccoli laboratori dell’Istituzione (fattoria, orto, panetteria, sartoria, stampa, ecc.). L’obiettivo era che tutti gli alunni di questo centro misto avessero la possibilità di conoscere i diversi lavori che avrebbero probabilmente svolto alla fine della permanenza nell’internato, la qual cosa consentiva loro di avere un’esperienza diretta prima di doversi dedicare ad essi senza conoscerne le caratteristiche. Robin apparve troppo rivoluzionario alle autorità francesi laiche responsabili dell’educazione Accusato di insegnare il malthusianesimo e di essere antipatriota, fu deposto nell’agosto 1894.

3. Un’altra scuola anarchica famosa fu quella creata a Barcellona (1901) da Francisco Ferrer i Guardia (1859-1910). Ferrer ebbe l’appoggio di numerosi nuclei anarchici, massoni e liberali in genere, insoddisfatti dell’educazione pubblica e delle​​ ​​ congregazioni religiose insegnanti. Il suo nome e quello della​​ Escuela moderna​​ da lui fondata costituirono una svolta più per motivi ideologici e politici che per le innovazioni pedagogiche. Questa scuola ebbe appena cinque anni di vita. Fu chiusa nel 1906 ed il suo direttore fu imprigionato con l’accusa di complicità con il bibliotecario della scuola nell’attentato che, in occasione delle nozze di Alfonso XIII, causò vari morti a Madrid. Nel 1909 fu processato, accusato di aver partecipato ai disordini della «Settimana Tragica» ed in seguito fucilato. L’eco di questa tragica fine fu magnificata dalla​​ ​​ massoneria e dall’a. internazionale e fu utilizzata ancora una volta per fomentare il discredito della Chiesa e dei governi conservatori spagnoli responsabili dell’esecuzione.

Bibliografia

Tomasi T.,​​ Ideologia libertaria e formazione umana,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973;​​ Delgado B.,​​ La escuela moderna de Ferrer i Guardia,​​ Barcelona, CEAC, 1979; Rodas I. - A. De la Calle,​​ Anarquismo y comunismo: ayer y hoy, Barcelona, Curso, 2005.

B. Delgado




ANIMAZIONE

 

ANIMAZIONE

In senso generale l’a. può essere intesa come uno stile, un approccio o un modo di rendere un servizio alle persone e alle comunità, cui corrisponde sul piano delle figure professionali un profilo specifico: l’animatore.

1. Il significato del termine a.​​ I termini «animare», «a. » e «animatore» indicano l’energia e l’attività che dà, espande, arricchisce la vita ed ispira un individuo o dei gruppi, sia dall’interno che dall’esterno. L’a., quindi, è essenzialmente un processo riferito alla vita e all’amore per la vita; promuove l’esistenza, l’armonia, la crescita e la coesione; abbraccia una vasta gamma di comportamenti umani e infonde energia, vitalità e spirito. Il termine, pertanto, è fondamentalmente collegato con la creatività, la gioia e l’ispirazione. L’a. diviene un’azione proficua solo in quelle esperienze dove c’è libertà e assenza di costrizione. L’a. sfida la vita stessa, così come sfida le personali capacità degli individui a liberarsi da ogni sorta di miseria che in qualche modo ostacola e svilisce la vita. Quindi la vita stessa diviene il luogo dove spargere i semi della speranza per il futuro.

2. Le diverse forme dell’a.​​ Esistono diversi modelli di a., che indichiamo brevemente, per soffermarci, poi, sul modello olistico dell’a. a)​​ A. creativo-espressiva:​​ è forse il modello generalmente più diffuso. È legato allo scenario della rappresentazione teatrale, che offre mezzi d’auto-espressione all’interno della comunità spesso utilizzati per aiutare i fanciulli e le persone con particolari problemi di apprendimento. b)​​ A. socio-culturale: ha dei legami con i processi educativi degli adulti e della comunità. Mira a promuovere lo sviluppo di talenti ed abilità delle persone e dei gruppi per abilitarli a una migliore partecipazione alle realtà sociali e politiche in cui vivono e ad una loro migliore gestione. c)​​ A. culturale: si riferisce maggiormente ad un approccio educativo e didattico applicabile ad attività scolastiche del doposcuola e specialmente a gruppi giovanili. Si tratta, in fondo, di una teoria educativa basata su un sottointeso paradigma filosofico / antropologico, con un metodo ben fondato e con risorse specifiche. Si qualifica per la dimensione culturale dell’identità individuale e le sue espressioni sociali e storiche. d)​​ A. del tempo libero:​​ si rivolge a forme ricreative o espressive. È un tipo d’a. nel quale il tempo libero delle persone è impiegato per liberare la loro auto-espressione e a per acquistare o riacquistare la loro creatività. e)​​ A. come dinamica di gruppo:​​ è riferita all’applicazione di tecniche e metodi che promuovono la comunicazione interpersonale e la messa in atto di attività di gruppo. f)​​ A. come modello olistico​​ per l’educazione si fonda sulla prospettiva di stili diversi e conseguenti ruoli da assumere per promuovere la pienezza di vita per tutti.

3. Comprensione del modello olistico dell’a.​​ Accentuando il significato delle parole «animare», «a.» e «animatore» come una qualità di vita, un modo dell’agire più che una specifica azione, possiamo comprendere l’a. come un insieme di​​ stili​​ per​​ ridestare (dare),​​ liberare (purificare),​​ rafforzare (sostenere),​​ progettare la vita;​​ ciascun stile è un​​ processo​​ e un​​ metodo​​ per​​ l’arricchimento della vita, che concorre a favorire un processo di​​ trasformazione della vita,​​ inteso come​​ un avanzare verso la pienezza di vita per tutti. E questo allo scopo di provocare dall’interno delle persone, la loro partecipazione alla vita della comunità. Per​​ a. che ridesta​​ o​​ dà la vita,​​ intendiamo uno stile di​​ pensare e di riferirsi alle persone​​ e ai dinamici processi interni connessi con la loro maturazione umana e spirituale. L’a. come liberazione​​ o​​ purificazione della vita​​ abilita individui e gruppi a rimuovere tutte le forme d’annullamento della vita e a decidere di essere sempre a favore di essa. L’a. come rafforzamento​​ o​​ sostegno della vita, indica​​ l’essere in relazione per accompagnare​​ persone e gruppi, con suggerimenti e motivazioni, in un cammino di maturazione affinché essi stessi possano scegliere gli stimoli più adatti. Per​​ a. come progettazione della vita​​ s’intende uno stile educativo che seleziona risorse ed opportunità educative articolandole in relazioni libere, autentiche ed evolutive, per incoraggiare gli individui a discernere e ad identificare la loro​​ visione personale​​ in conformità con l’invito di Dio e ad abilitarli a procedere​​ verso una visione condivisa​​ capace di promuovere nella comunità la pienezza di vita per tutti. L’a. come arricchimento di vita​​ è un​​ processo e un metodo​​ che accetta la visione della realtà sempre mutevole e che considera Dio come la sorgente di questa crescita e apertura creativa allo sviluppo. In definitiva, l’a. è un movimento che trasforma la vita;​​ ciò comporta una​​ strategia unificante​​ che include tempi, luoghi, vari aspetti ed azioni e anche un processo convergente ed unificato, in cui la vita e l’amore per la vita sono gli elementi centrali. La meta di questo processo di trasformazione è la​​ pienezza di vita per tutti.

4.​​ I valori dell’a.​​ L’a. nelle sue diverse modalità, possiede propri valori, che possono essere sia ideali, sia concreti. A. indica l’insieme di azioni-riflessioni mediante le quali l’individuo o il gruppo intraprende liberamente il cammino verso la pienezza di vita per tutti e quindi è «animato». Tali azioni-riflessioni, a loro volta, abilitano gli individui o i gruppi a trasmettere la vita ad altri e così diventano animatori. L’a. è intenzionalmente centrata sulle persone, sulla loro coscienza e sulle loro capacità. Riconoscendo la libertà interiore e l’autonomia dell’individuo, l’a. offre l’opportunità per liberarle da tutto ciò che ostacola il cammino verso la pienezza di vita. L’a. ridesta gradualmente le loro capacità interiori, aprendo nuovi orizzonti, chiamandoli ad una riflessione critica su se stessi, su quelli che li circondano, sulla storia e sul mondo in cui vivono, promuovendo così un itinerario verso la pienezza di vita per tutti. Questo procedimento ha bisogno di essere manifestato attraverso la solidarietà, l’armonia e l’unità all’interno della società stessa e verso la natura, con il dialogo il quale promuove, inoltre, uno stile educativo che non manipola le persone, non fa un lavaggio di cervello, né impone alcuna cosa con la forza. Come metodo educativo, l’a. non minaccia le persone con condanne o rappresaglie, né promuove la partecipazione solo per una ricompensa o un favore. Si limita, invece, ad offrire risorse ed opportunità e ad organizzarle in una relazione libera, autentica, che conduce allo sviluppo, al sostegno e all’accompagnamento delle persone nella loro crescita verso la pienezza di vita per tutti, attraverso il processo di​​ self-empowerment​​ (auto-responsabilità). Nello stesso tempo, l’a. riconosce che questo cammino è intrapreso in un ambiente specifico, dentro una storia particolare con tutti i suoi aspetti positivi e negativi. In questo modo, la memoria del passato e la speranza di un futuro migliore assumono un significato fondamentale nel processo d’a. La consapevolezza dei propri limiti, il bisogno d’impegno e lo sviluppo della speranza e dell’ottimismo costituiscono uno dei segni più evidenti per la memoria e la speranza di un futuro migliore. Queste dimensioni sono promosse non solo in vista di una sopravvivenza ma, soprattutto, per mettersi in cammino verso la realizzazione degli ideali dell’amore autentico. Questi ideali rendono gli individui capaci di percepire gli altri come persone dotate di specifiche qualità e non come una minaccia e un peso; di conseguenza, essi sono una sfida per cercare l’armonia e l’unità. Questa memoria e speranza nel futuro richiedono dagli individui un rinnovamento continuo, implicando l’uso appropriato e giusto delle risorse messe a disposizione dell’umanità.

5. L’a. - uno specifico processo educativo. L’a. mostra i processi della personalizzazione e della coscientizzazione che hanno luogo all’interno delle persone, dei gruppi e delle comunità e sottolinea le motivazioni che sottostanno alle varie scelte, e ne promuove sia la capacità critica, sia la partecipazione attiva ai processi di crescita, abilitandoli a diventare protagonisti responsabili. Inoltre, li rende consapevoli della realtà delle loro potenzialità inespresse, represse o soppresse, rafforzando in tal modo il tessuto sociale. L’educazione, invece, è generalmente intesa come una specifica attività umana associata a ruoli e figure precise entro una particolare relazione interpersonale che coltiva, cura e forma individui della generazione che sta crescendo. L’educazione comprende una serie si discipline miranti a fornire e ad accrescere informazioni ed abilità, allo scopo di sviluppare sia gli individui sia la società. L’a. e l’educazione, quindi, sono due realtà specifiche e complesse, che hanno degli elementi in comune quali la vita, la cultura, la persona, la libertà, la responsabilità, l’accrescimento delle potenzialità degli individui, ecc. Nel suo nucleo centrale, l’a. non differisce radicalmente dal processo educativo, ma considera se stessa come distinta dal modo abituale e predominante dell’educare. Differisce, in pratica, nel suo modo di comprendere le persone e anche nel modo di identificare la collocazione dei processi educativi che, nel caso dell’educazione, sono stati convenzionalmente associati con istituzioni accademiche. Queste hanno aiutato l’a. ad elaborare concetti teorici, metodi e tecniche diverse, capaci di verificare l’efficacia dei risultati che si possono ottenere con le esperienze d’a. L’a. ci aiuta a percepire che è possibile educare in ogni contesto, in ogni fase della vita e in ogni situazione, purché esistano certe condizioni di libertà. L’a., in altre parole, non deve essere solamente considerata come un aspetto del processo educativo, ma anche come una dimensione sottostante, che rafforza ed accresce i confini dei campi tradizionali dell’educazione.

6. A. dalla prospettiva degli stili diversificati. La domanda principale e fondamentale che gli operatori si pongono non riguarda il luogo dove fare l’a., ma la realtà particolare in cui si trovano le persone. L’a. è, di conseguenza, efficace solo se s’impegna seriamente a prendere in considerazione quella realtà attraverso cui le persone tentano di trovare la pienezza di vita. L’a., pertanto, richiede operatori che conoscono le situazioni e i bisogni delle persone e abbiano la capacità di identificare le cause fondamentali che provocano situazioni indesiderabili. Per stile si può intendere la maniera preferita di pensare, il modo originale di esprimersi e la forma particolare di agire, caratteristiche proprie di ogni persona. Lo stile non è un’abilità, ma piuttosto la modalità preferita per usare l’abilità che si possiede. Quando il profilo dell’a. si armonizza con la situazione delle persone, allora essa diventa feconda. Il profilo di uno stile d’a. è caratterizzato essenzialmente da due componenti: quello delle relazioni e quello dei compiti. La componente delle relazioni si specifica per una particolare sollecitudine verso le persone; quello dei compiti, invece, evidenzia l’impegno per la missione, cioè per la finalità e gli obiettivi. La prospettiva dello stile dell’a. è un forte richiamo, per gli operatori, a tenere unite la componente delle relazioni, quella dei compiti e quella delle situazioni. La visione degli stili (ridestare,​​ liberare,​​ rafforzare e progettare la vita) fornisce agli operatori una specie di ampia mappa concettuale, che è utile per comprendere sempre meglio la complessità dell’a. Le componenti principali degli stili che si riferiscono alle​​ relazioni​​ e ai​​ compiti, rimandano a due fattori fondamentali per ciascuno, compresenti nel processo dell’a. La prospettiva degli stili basata sulle​​ relazioni​​ e, quindi, sulla​​ sollecitudine per le persone, confida nelle loro risorse interiori per farle procedere verso una pienezza di vita per tutti attraverso i due processi seguenti. Il primo,​​ sostenere e apprezzare le risorse interiori delle persone​​ comporta che ognuna possieda delle risorse che necessitano di essere scoperte, sviluppate ed impiegate per la crescita e la maturazione e ciò è possibile attraverso l’a. Il secondo,​​ far procedere le persone verso la pienezza di vita​​ costituisce la finalità o l’obiettivo fondamentale d’ogni processo d’a., che permette di realizzare le loro aspettative di vita e il raggiungimento di un appagamento attraverso ragionevoli e giuste relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo e con Dio. La prospettiva degli stili a livello di​​ compito, cioè di​​ missione, richiede di sostenere le persone nella loro crescita, nei loro cambiamenti e nella promozione e partecipazione ampia e piena ai valori centrali della vita. Questa prospettiva si esplica attraverso altri due processi: il​​ rafforzamento delle persone nei mutamenti​​ attraverso il contatto con gli animatori e la​​ partecipazione ai valori centrali e fondamentali​​ della vita.

7. I processi coinvolti nella prospettiva degli stili dell’a. e ruoli corrispondenti. I processi coinvolti negli stili dell’a. divengono evidenti quando la sollecitudine per le persone e la preoccupazione per la missione s’intrecciano. Uno sguardo analitico dei processi dell’a. evidenzia stili distinti, ma collegati tra loro, che si possono esprimere con i verbi:​​ portare dentro​​ l’ambito dell’a.,​​ liberare​​ o purificare,​​ rafforzare​​ o sostenere e​​ progettare​​ la vita. Tali processi manifestano quattro stili fondamentali di a.:​​ ridestare / dare​​ la vita attraverso il​​ ruolo della narrazione;​​ liberare / purificare​​ la vita mediante il ruolo della valutazione;​​ rafforzare / sostenere​​ la vita attraverso il ruolo dell’allenamento;​​ progettare​​ la vita con il ruolo del leader.​​ Questi quattro stili d’a. sussistono in un equilibrio dinamico ed interagiscono tra loro. L’a., mentre abilita le persone ad usare stili diversi, le incoraggia anche ad esaminarne i limiti, per realizzare sempre più un’a. olistica, che presuppone un forte lavoro d’équipe. Mantenere questi quattro stili in un equilibrio dinamico e promuovere l’interazione tra loro, stimola un altro processo, quindi un altro stile, che in qualche modo migliora e valorizza la vita in ogni situazione e che può essere chiamato​​ arricchimento della vita. A quest’ultimo stile corrisponde il​​ ruolo del servizio​​ alle persone, che è il vertice dello stile dell’a., per abilitarle a divenire agenti-soggetti in relazione, per progredire verso la pienezza di vita per tutti.

8.​​ In conclusione, questi stili diversi e i ruoli corrispondenti ci aiutano a definire i compiti specifici dell’animatore, facendo vedere, nello stesso tempo, la natura olistica dell’a. Ognuno degli stili descritti è valido e nessuno di essi prevale su un altro, in quanto ciascuno esplicita particolari funzioni e sarebbe errato dire che uno stile dà migliori possibilità di un altro. Una formula che dovrebbe guidare gli animatori competenti può essere sintetizzata in questo modo: «stili diversi per persone diverse» e / o «stili diversi per situazioni diverse».

Bibliografia

Besnard P.,​​ Animation socioculturel. Fonctions,​​ formation,​​ profession, Paris, ESF, 1981;​​ Maurizio R. - D. Rei (Edd.),​​ Professioni nel sociale, Torino, Gruppo Abele, 1992; Sternberg R.,​​ Thinking styles, Cambridge, Cambridge University Press, 1997; Pollo M.,​​ A. culturale - teoria e metodo, Roma, LAS, 2002; Vallabaraj J.,​​ Animating the young, Bangalore, Kristu Jyoti Publications, 2005; Id.,​​ A. e pastorale giovanile, Leumann (TO), Elle Di Ci, 2008.

J. Vallabaraj




ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE

 

ANIMAZIONE SOCIOCULTURALE

L’a.s. può essere definita come un’azione sociale di promozione umana e di coscientizzazione personale e comunitaria. L’a.s.​​ fa capo, da una parte, alle esperienze di educazione degli​​ ​​ adulti promosse fin dagli anni Cinquanta del sec. scorso e, dall’altra, al modello francese dell’a.s. Questa viene pensata come intervento nel territorio, al fine di favorire i processi di crescita della capacità dei gruppi di partecipare alla realtà sociale e politica in cui vivono, e di gestirla. Questo filone è rappresentato, sia storicamente che attualmente, dalla rivista «A. Sociale» fondata da G. A. Ellena nel 1971 ed ora affidata alla gestione del Gruppo Abele di Torino. In questa direzione si sono mosse altre realtà significative quali l’ARIPS e l’ASSCOM, in stretto rapporto con le esperienze di psicologia di comunità.

1.​​ La dimensione educativa.​​ L’a.s., pur non volendosi confondere con altri stili di a. più marcatamente educativi, può avere una notevole valenza educativa. Infatti​​ le funzioni​​ dell’a.s., finalizzata al cambiamento attraverso la partecipazione, sono essenzialmente due: a) la​​ presa di coscienza, che riguarda realtà quali le potenzialità inespresse, rimosse o represse delle persone singole, dei gruppi e delle comunità; i dinamismi interni del nostro «agire»; le mentalità diffuse, sommerse, latenti; le situazioni problematiche; il divario ricorrente tra «reale» ed «ideale». A questo scopo anche il​​ metodo​​ adottato deve essere preciso. Occorrono interventi organici, ben finalizzati, ispirati ad una prevalente preoccupazione preventiva, specie in alcune aree (partecipazione, espressività e creatività, emarginazione, devianza). Tutto ciò al fine di​​ creare una nuova cultura​​ nel rapporto pubblico-privato, professionale-volontario; nel relazionarsi e collaborare con persone e con gruppi di diversa estrazione, formazione, ispirazione, ma operanti su obiettivi comuni; nella concezione del tempo libero, con finalità non solo ludiche ma anche di impegno sociale; b) il​​ potenziamento del tessuto connettivo sociale,​​ che​​ si attua con iniziative di socializzazione, gruppi e lavoro di gruppo, scambi turistici, itinerari ecologici, convegni e seminari, feste popolari, mostre itineranti, a. dei ragazzi nei condomini, raccolte finalizzate di oggetti; stimolando la «gente» a risolvere in proprio i problemi quotidiani, a superare le diffidenze verso il pubblico, a sostenere dall’esterno le comunità di accoglienza, ad essere presenti nelle situazioni di emergenza; lacerando l’incomunicabilità tra le generazioni, tra gli operatori e la «gente», tra i turisti e i locali; con il reperimento in gruppo delle risorse disponibili ed il loro funzionale raccordo con i​​ ​​ bisogni locali; con la realizzazione di microstrutture pilota agili, che rispondano con successive approssimazioni all’inventario incrociato di bisogni, aspettative, interessi, carenze, rapporti; con alcuni punti istituzionali di riferimento:​​ ​​ famiglia, scuola, lavoro, tempo libero, associazionismo, ecc., facilitando in questo modo il coordinamento e la destinazione razionale delle risorse; con la creazione di microstrutture di servizio (per esempio un ufficio stampa) per le attività di più gruppi (specie di giovani) operanti sullo stesso territorio con obiettivi analoghi; con tecniche collaudate di organizzazione e di programmazione, finalizzate all’individuazione di concreti criteri di efficienza ai fini di una periodica verifica degli interventi promossi e realizzati; con la valorizzazione dei giovani come protagonisti della propria «condizione giovanile», dell’interazione scuola-associazione-territorio in ordine ad un uso alternativo, ossia impegnato, del tempo libero; favorendo, soprattutto nei giovani, la riacquisizione personale ed in gruppo del senso di identità, del gusto del vivere, del senso di​​ ​​ appartenenza, attraverso l’esercizio della collaborazione, della cooperazione e del lavoro.

2.​​ La formazione degli animatori.​​ La dimensione educativa dell’a.s. nei termini indicati appare ancora più evidente se verifichiamo​​ i​​ punti di riferimento di una linea formativa​​ che consenta il passaggio dalla realtà concreta e feriale dell’a. al suo profilo ideale attraverso la «formazione degli animatori». Di essa sono punti di riferimento​​ ​​ valori come la centralità delle persone umane concrete, il rispetto e la promozione della libertà delle coscienze, la solidarietà, la ricerca della buona qualità della vita, il pluralismo sociale quale garanzia di libertà per persone, gruppi, comunità, il lavoro, la pace e lo sviluppo, il rispetto e la difesa dell’equilibrio ecologico, una cultura ed un’educazione critica ed aperta. Il senso e il gusto della libertà delle persone, dei gruppi e delle comunità costituiscono il fine e l’atteggiamento fondamentale dell’animatore. Sapersi determinare, decidere insieme, innovare ne sembrano le espressioni personali più cospicue. Più specificamente fanno parte della competenza umana e professionale dell’animatore la lealtà, la responsabilità, il rispetto e la fedeltà; la coscienza della complessità ed organicità del reale, ma anche l’acuto senso per il locale, il particolare, il personale, per le dinamiche di​​ ​​ gruppo o per i comportamenti collettivi; il senso della storicità e insieme delle urgenze e priorità che si impongono; la capacità del dialogo e del confronto; la semplicità degli stili di vita; il senso della provvisorietà; il distacco, la flessibilità e il coraggio di agire anche rischiando e pagando di persona. Pertanto sembra collegabile con l’animatore un modello di​​ ​​ personalità interiormente unificata, aperta all’universalità dei valori, capace di infondere speranza e di far maturare prospettive aiutando a leggere la realtà e a cogliere possibilità di azione a prima vista «inedite». Rientra nella sua competenza uno stile di intervento modulato sul «vedere-giudicare-agire», sulla capacità di vivere in situazione coniugando prassi-teoria-prassi, insieme, in gruppo, in comunità, sull’intelligente revisione di vita, ma anche sul saper mediare e innovare, non emarginando, ricuperando ritardi, anticipando il futuro. A sua volta sarà necessario saper integrare i ruoli professionali tecnici in un agire funzionale alle persone e alle necessità dei gruppi e delle comunità. In questa prospettiva è evidente la priorità data alle «competenze umane», rispetto alle abilità tecniche e ai mezzi a disposizione (che pure hanno la loro importanza «strumentale»).

3.​​ La prospettiva culturale.​​ Alla base di questo modo di intendere l’a. e l’animatore sta una concezione ampia di​​ ​​ cultura che tiene conto sia della cultura alta che di quella popolare. Come è del resto anche nell’approccio inglese dei​​ Cultural studies,​​ si ha davanti un concetto di cultura intesa come pratica sociale, come processo globale, come memoria collettiva di popolo, nelle sue molteplici differenziazioni interne (tradizionalmente piuttosto emarginate dalla cultura ufficiale). Ma insieme si pensa ad una cultura che è attenta alle pratiche sociali legate al cinema, alla televisione, alla radio, alla stampa, allo sport, alla musica, alle mode, ecc.; ad una cultura sensibile agli interrogativi che si vivono nelle concrete situazioni di vita e nei diversi contesti geo-sociali. Più specificamente si ha presente una cultura-educazione allargata alla strada (animazione di strada), al quartiere, alla città; per ripartire da quello che i ragazzi e le ragazze, le persone adulte e gli anziani hanno da dire sia pure nei loro specifici linguaggi, nelle loro conversazioni quotidiane segnate dalla​​ ​​ comunicazione di massa, ma anche nelle loro svariate espressioni di bisogni, memorie, desideri, aspirazioni effimere e profonde.

Bibliografia

López de Ceballos P. - M. Salas Larrazabal,​​ Formación de los animadores y dinámicas de la animación,​​ Madrid, Editorial Popular,​​ 1988; Ellena G. A. (Ed.),​​ Manuale di a.s.,​​ Torino, Gruppo Abele, 1988; Maurizio R. - D. Rei (Edd.),​​ Professioni nel sociale,​​ Ibid., 1992; Regoliosi L.,​​ La strada come luogo educativo: orientamenti pedagogici sul lavoro di strada, Milano, Unicopli, 2000; Capello G.,​​ I media per l’a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2002; Gambini P.,​​ L’a. di strada: incontrare i giovani là dove sono, Ibid., 2002; De Rossi M.,​​ A. e trasformazione:​​ identità,​​ metodi,​​ contesti e competenze dell’agire sociale, Padova, CLEUP, 2004; Dotti M.,​​ La tela del ragno: educare allo sviluppo attraverso la partecipazione. Manuale pratico per l’a. sociale, Bologna, EMI, 2005.

G. A. Ellena - G. Vettorato




ANORESSIA MENTALE

 

ANORESSIA MENTALE

Il termine a.m. pare sia stato proposto per la prima volta da C. Huchard nel 1883 per indicare un disturbo dell’alimentazione che affligge soprattutto le donne (95% circa dei casi) in un’età molto giovane (fra i 13 e i 25 anni circa) ed è caratterizzato, soprattutto, da avversione all’aumento di peso per motivazioni inconsce o semicoscienti.

1. Diversamente da quanto sembrerebbe indicare il termine a. che etimologicamente vuol dire​​ mancanza di appetito,​​ questo non viene in realtà compromesso; l’anoressica intenzionalmente mangia poco, si alimenta con una dieta sproporzionatamente ipocalorica, usa lassativi o diuretici, o con frequenza vomita l’alimento ingerito. Vengono segnalate dagli studiosi di questo argomento delle forme minori e di più comune riscontro che si verificano solitamente in adolescenti fra i 13 e i 15 anni e che si risolvono nel giro di alcuni mesi; forme intermedie in cui gli episodi anoressici sono inframmezzati da recupero transitorio di peso o in seguito a crisi bulimiche o in seguito ad ospedalizzazione; forme gravi in cui il deperimento organico può portare a conseguenze pericolose, o immediate o postume. Nell’anoressica si ha quasi costantemente alterazione delle funzioni endocrine e sospensioni dei cicli mestruali; un atteggiamento ambiguo verso il proprio corpo il cui schema e il cui significato vengono alterati e strumentalizzati.

2. L’a. è stata interpretata in vari modi: la si è intesa come facente parte di un quadro isterico con cui, peraltro, ha molte somiglianze. È stata confusa col morbo di Simmonds dal quale però differisce sostanzialmente perché non c’è lesione ipofisaria. Ha degli aspetti compulsivi ma non si può identificare con un disturbo ossessivo-compulsivo. Oggi si tende ad attribuirle un’autonomia nosografica. Quanto alla eziologia, alla patogenesi e alla psicodinamica le interpretazioni variano da scuola a scuola; c’è sufficiente accordo sul dato che 1’​​ ​​ ambiente, sia familiare (con le difficoltà di comprensione reciproca fra i componenti e gli sconfinamenti di ruoli, soprattutto materni) sia sociale (con le proposte di interessi a cui mirare), influisce in modo determinante sull’insorgere dell’a. Così pure la percezione che l’anoressica ha del proprio corpo, il significato che gli attribuisce e la strumentalizzazione che ne fa, sono fondamentali per capire questo disturbo.

Bibliografia

Palazzoli-Selvini M.,​​ L’a.m.,​​ Milano, Feltrinelli, 1973; Ganzerli P. - R. Sasso,​​ La «rappresentazione anoressica». Contributo delle tecniche psicodiagnostiche allo studio dell’a.m.,​​ Roma, Bulzoni, 1979; Bracconnier A. - D. Marcelli,​​ Psicopatologia dell’adolescente,​​ Milano, Masson, 1991; Apfeldorfer G.,​​ Mangio dunque sono,​​ Venezia, Marsilio, 1993; Montecchi F.,​​ A.m. dell’adolescenza,​​ Milano, Angeli, 1994; Barbetta P.,​​ A.​​ e isteria: una prospettiva clinico-culturale, Milano, Cortina, 2005.

V. Polizzi