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ESPERTO

 

ESPERTO

Una notevole mole di studi è stata prodotta in questi anni su ciò che contraddistingue un e. e competente da un principiante. Frensch e Sternberg danno una definizione operazionale di «competenza»: «L’abilità, acquisita con l’esercizio, a comportarsi qualitativamente bene in un compito in una particolare area d’informazione» (1989, 157).

Gli studi sull’argomento sono stati avviati in relazione al gioco degli scacchi e sono proseguiti in molte altre aree di competenza dimostrando che: 1)​​ Le persone e. richiamano meglio dalla memoria le informazioni specifiche di loro competenza.​​ L’importanza di questa caratteristica era stata evidenziata da de Groot (1965) e conclusioni simili sono state ottenute anche da altre ricerche: in fisica, nella programmazione del computer, nella diagnostica radiologica, nella comprensione di un testo, nello scrivere e in scienze sociali. Sembra che ciò sia dovuto al fatto che gli e. dispongono di un’organizzazione significativa degli elementi d’informazione. L’abilità di riconoscere strutture significative non indica un’abilità superiore di percezione, ma riflette l’organizzazione della conoscenza (Chi-Glaser-Rees, 1982). 2)​​ Le persone e. rappresentano meglio la conoscenza.​​ Esse vedono e rappresentano il problema, nella loro specifica area di competenza, a livello molto profondo facendo riferimento a principi strutturali, mentre i principianti lo rappresentano a livello superficiale facendo riferimento a elementi concreti e marginali. Un’ipotesi di spiegazione plausibile è stata quella di riconoscere agli e., rispetto ai principianti, la capacità di ricorrere e recuperare più facilmente dalla memoria regole di classificazione. In generale si può affermare che l’organizzazione della conoscenza delle persone e. si focalizza sui principi fondamentali della specifica area di competenza e su ciò che può ostacolare l’uso di questi principi, mentre nei principianti la conoscenza non riflette la comprensione semantica della specifica area di competenza. 3) Le​​ persone e. sono più veloci a risolvere i problemi e fanno meno errori.​​ La competenza in una specifica area di informazione è caratterizzata principalmente dalla​​ skilled performance:​​ un’esecuzione veloce ed esatta nella propria area di competenza. La prestazione migliore degli e. deriverebbe da schemi specializzati che la guidano. Se la prestazione viene invece disturbata da una presentazione strana o irregolare del problema o da strutture non significative oppure da problemi mal strutturati, le persone e. perdono la capacità di percepire quale schema possa essere utile o debba essere ricuperabile e di conseguenza vanno a cercare strategie generali di risoluzione del problema. 4)​​ Le persone e. impegnano molto del loro tempo nell’analisi qualitativa del problema e applicano la strategia di «working forward».​​ Le ricerche sui problemi mal definiti (Voss et al., 1983) hanno evidenziato che, all’inizio del processo di soluzione del problema, le persone e. cercano innanzitutto di «capire bene» il problema e vi aggiungono dei vincoli (Glaser-Chi, 1988). La strategia che di preferenza applicano nella soluzione del problema è il​​ working forward.​​ Esse, lavorando​​ forward,​​ generano ipotesi basandosi sull’informazione presentata dal problema. 5)​​ Le persone e. possiedono notevole conoscenza nella loro specifica area di competenza.​​ Varie ricerche fanno pensare che le persone e. non siano migliori per una capacità cognitiva fondamentale, quanto invece per la disponibilità maggiore di informazioni nella memoria e per la possibilità più efficace di richiamare dalla memoria delle procedure cognitive. Questi risultati indicano che la differenza tra le persone e. e i principianti è da attribuirsi fondamentalmente a ciò che esse sanno e a come usano ciò che sanno; e ciò grazie all’esperienza ed esercizio. 6)​​ Le persone e. sono capaci di controllare le loro attività nella specifica area di competenza.​​ Risulta anche evidente che le persone e. possiedono un forte auto-controllo delle loro attività. Gli e., generalmente, sono più consci quando commettono errori, quando non riescono a capire il problema e quando hanno bisogno di valutarne le soluzioni. Quando sono stati invitati a stimare la difficoltà di un problema, essi hanno fornito una valutazione esatta (Chi-Glaser-Rees, 1982). Dalle ricerche sull’«expertise» sembra anche che sia più significativo valutare i soggetti per la loro competenza che non per le loro capacità generali, ma in proposito c’è ancora molto da ricercare (Voss et al., 1983).

Bibliografia

De Groot A.,​​ Thought and choice in chess,​​ The Hague, Mouton, 1965; Chi M. T. H. - R. Glaser - E. Rees, «Expertise in problem solving», in R. J. Sternberg (Ed.),​​ Advances in the psychology of human intelligence,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1982, 7-75; Voss J. F. et al., «Problem solving skills in the social science», in G. Bower (Ed.),​​ The psychology of learning and motivation: Advances in research and theory,​​ vol. 17, New York, Academic Press, 1983, 165-213; Glaser R. - M. T. H. Chi, «Overview», in M. T. H. Chi - R. Glaser - M. J. Farr (Edd.),​​ The nature of expertise,​​ Hillsdale, Erlbaum, 1988, xv-xxviii; Frensch P. A. - R. J. Sternberg, «Expertise and intelligent thinking: When is it worse to know better?», in R. J. Sternberg (Ed.),​​ Advances in the psychology of human intelligence,​​ vol. 5, Ibid., 1989, 157-188; Moon B. - A. S. Mayes (Edd.),​​ Teaching and learning in the secondary school,​​ London, Routledge, 1994, 107-113.

M. Comoglio




ESSENZIALISMO PEDAGOGICO

 

ESSENZIALISMO PEDAGOGICO

Teoria pedagogica che propugna la comunicazione a tutti gli educandi degli elementi essenziali o costitutivi della cultura. Si oppone, per la sua stessa natura, alla teoria del​​ ​​ pragmatismo, dell’educazione utilitaria e a tutta la concezione esistenzialista.

1. Propone un modello di​​ ​​ uomo «quale dovrebbe essere», più che «come è». In termini educativi più teorici, ammette le dispute metafisiche, ricerca la verità fra le varie opinioni proposte su un medesimo argomento e non strumentalizza né la conoscenza né la​​ ​​ verità; si tratta di un modello atemporale o eterno. Per l’e.p. la verità​​ è,​​ non si fa; una conoscenza può essere veritiera anche se non è verificabile o se la sua verificabilità non presenta alcuna utilità. Si basa sull’unità, identità e omogeneità della natura di tutti gli esseri, che implica un destino generale e per questo propugna una educazione comune di base per tutti gli individui della specie, senza limitazioni né differenze. Questa base deve essere come quella dell’educazione primaria, invariabile, comune a tutti gli uomini, qualunque siano le loro condizioni individuali e sociali, compresa la cosiddetta​​ ​​ educazione speciale.

2. In termini metodologici o didattici, si chiama educazione essenziale, generale o fondamentale (cultura generale) l’educazione necessaria a tutti gli individui, qualunque sia il sesso, la classe sociale o la situazione personale, ed ogni essere umano deve possederla poiché il fine che persegue è quello di formare, prima di tutto e soprattutto, l’essere umano. Si ritiene che la cosiddetta educazione di base, primaria o elementare si attui con i requisiti richiesti da questo tipo di e.p. Si oppone alla educazione definita specializzata che è quella che l’educando riceve al fine della realizzazione della propria e peculiare vocazione e che prepara lo specialista (tecnico, artista, architetto, militare, avvocato, sacerdote, medico...). Presentano questo modello di uomo atemporale i neoscolastici (Mercier,​​ ​​ Maritain, Gilson), i neoidealisti (Lachelier, Hamelin, Croce, Lagneau, Bradley, Royce), gli spiritualisti (Newman, Blondel), i fenomenologisti (Brentano, Husserl, Scheler). Da questi presupposti partono coloro che hanno difeso con gli scritti o potrebbero essere inquadrati per la loro prassi in teorie pedagogiche essenzialistiche (​​ Laberthonnière,​​ ​​ Paulsen,​​ ​​ Willmann,​​ ​​ Gentile,​​ ​​ Lombardo Radice, Alain,​​ ​​ Calasanz, don​​ ​​ Bosco, Ruiz Amado,​​ ​​ Manjón, García Hoz).

Bibliografia

Tusquets J.,​​ Hacia una pedagogía esencial y existencial,​​ in «Perspectivas Pedagógicas» 17 (1966) 9-20; Fullat O.,​​ Filosofías de la Educación,​​ Barcelona, CEAC, 1979;​​ Suchodolski B.,​​ Pedagogia de l’essència y pedagogia de l’existència,​​ Vic, EUMO, 1986.

V. Faubell




ESTROVERSIONE

 

ESTROVERSIONE

L’e. è una delle dimensioni fondamentali nella descrizione della personalità ed ha la sua collocazione già nella tipologia dei temperamenti di Galeno. In quanto contrapposta all’introversione è stata ampiamente elaborata da​​ ​​ Jung (1948) e successivamente adottata in vari questionari di personalità (Cattell e Eysenck).

1. L’e. è formata da vari tratti come socievolezza, assertività e dominanza. Dell’introversione fanno parte la riservatezza, il distacco e la serietà. La dimensione bipolare dà origine a due differenti tipi nell’interazione sociale: l’estroverso e l’introverso. L’estroverso​​ indirizza la sua energia psichica verso la realtà esterna e cerca di interagire efficacemente nel suo ambiente. Si può dire che egli percepisce, sente, pensa e agisce in rapporto a tale realtà. L’introverso​​ invece rivolge la sua energia psichica verso il suo interno, verso i suoi stati psichici e la sua esperienza interiore. La percezione, il sentimento, il pensiero e l’azione sono determinati più da fattori soggettivi che non dalla realtà.

2. L’e. sembra essere universale, presente in tutte le culture, ma è maggiormente valorizzata in quella occidentale, mentre nell’Oriente predomina l’introversione. L’e. viene considerata anche più «sana» in quanto l’introversione sembra predisporre i rispettivi soggetti alla patologia (narcisismo). Eysenck (1981) ha associato l’e. con il nevroticismo e lo psicoticismo, per descrivere in modo esauriente la personalità. Egli ha opposto in tal modo alla struttura dei​​ Big Five​​ (cinque dimensioni fondamentali della personalità), proposta da McCrae e John (1992), i​​ Gloriouse Three,​​ ed in base ai dati ottenuti dai suoi questionari, ha stabilito un rapporto fra le tre dimensioni. Il nevroticismo si situa rispetto all’e., in rapporto ortogonale attraversandola al centro e proseguendo verso il polo opposto che è la stabilità emotiva. Lo psicoticismo con il suo polo opposto (controllo degli impulsi) assume una posizione obliqua, equidistante tra l’e. e il nevroticismo. Lungo queste coordinate Eysenck ha situato vari disturbi della personalità. Jung considera l’e. una variabile bimodale che fonda due tipi di persone (estroversi e introversi) ma la maggior parte dei teorici della personalità intende l’e. come una variabile continua con un gran numero di casi situati intorno alla media; questo dà origine ai tipi «misti». La dimensione e.-introversione è stata sottoposta a numerose verifiche empiriche e i risultati sono stati raccolti in tre volumi (Eysenck, 1970-1971). Le verifiche sull’e. continuano tuttora e i risultati vengono pubblicati nella rivista «Personality and Individual Differences».

3. Dai dati delle ricerche condotte sull’e. risulta che la dimensione è utile nel capire e controllare varie realtà umane, come l’interazione sociale, i rapporti intimi tra le persone, il rendimento scolastico e professionale, i disturbi psichici, i comportamenti antisociali e criminali. Nel campo strettamente educativo la dimensione e.-introversione può essere di aiuto nell’impostazione dell’apprendimento individualizzato. Infatti, è stato constatato che gli estroversi apprendono meglio con il metodo della scoperta, mentre gli introversi traggono maggiore profitto dal metodo espositivo (Poláček, 1994). I due tipi preferiscono anche attività lavorative differenti: gli estroversi commercio, servizi sociali, insegnamento e gli introversi arte, ingegneria e ricerca.

Bibliografia

Jung C. G.,​​ Tipi psicologici,​​ Roma, Astrolabio, 1948; Eysenck H. J. (Ed.),​​ Readings in extraversion-introversion,​​ voll. 1-3, London, Staples Press, 1970-1971; Id.,​​ A model for personality,​​ Berlin, Springer, 1981; McCrae R. R. - O. P. John,​​ An introduction to the Five-Factor Model and its applications,​​ in «Journal of Personality» 60 (1992) 175-215; Poláček K., «L’apprendimento completo e la metodologia per valutarlo», in C. Bissoli (Ed.),​​ Il​​ documento di valutazione nell’insegnamento della religione nella scuola elementare,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1994.

K. Poláček




ETICA

 

ETICA

Il termine e. è usato per indicare sia una delle esperienze più vive e più profonde della vita umana, l’esperienza morale, sia il sapere relativo a questa esperienza.

1. Come forma specifica di sapere etico ha avuto a lungo quasi esclusivamente contenuti di genere normativo e fondativo. Oggi questi contenuti tradizionali sono stati affiancati, e a volte sostituiti dal discorso metaetico (e. analitica) e da quello psicologico-evolutivo. È soprattutto a questo secondo livello, rivolto alla comprensione dei dinamismi psicologici soggiacenti all’esperienza morale e al suo sviluppo, che l’e. ha acquistato una rilevanza nuova per la pedagogia. L’idea che quella morale sia un’esperienza essenzialmente evolutiva, che attraversa fasi di sviluppo qualitativamente (e non solo qualitativamente) diverse sta infatti alla base di tutta la ricerca più recente sui problemi specificamente pedagogici della​​ ​​ educazione morale. Ma essa comporta anche un più generale ripensamento della psicologia dell’esperienza morale e del fatto morale in se stesso.

2. In questa nuova visione il fatto morale assume una dimensione costitutivamente educativa (almeno nel senso di autoeducativa): l’impegno morale non appare più rivolto all’esecuzione di un bene esterno alla persona ma, in linea con l’impostazione aretologica (basata sulle virtù) della filosofia classica, primariamente all’autoplasmazione e. della persona stessa. In questa prospettiva acquista una certa rilevanza pedagogica la tradizionale contrapposizione tra​​ naturalismo​​ (il bene è nella linea delle tendenze naturali dell’uomo) e​​ dualismo​​ morale (il bene, nella forma del dovere, fa violenza alle inclinazioni originarie della persona). Nel primo caso l’educazione dovrà inevitabilmente esercitare una certa violenza, fosse pure solo psicologica sull’e.; nel secondo caso dovrà solo assecondare le buone forze della natura.

3. Un ultimo campo d’intersezione tra morale e pedagogia è rappresentato dalla ricerca di un «minimo comun denominatore» di principi e norme etiche condivisibili da tutte le frastagliate province culturali della nostra società e capace quindi di poter essere elevato a materia ufficiale di insegnamento morale nella scuola pubblica e a obiettivo di educazione da tutte le agenzie educative della​​ ​​ società (Mindestkonsens).​​ Su questa linea vanno segnalati i tentativi di J. Rawls, di J. Habermas e di O. Apel. Pedagogisti di professione o psicologi come​​ ​​ Kohlberg hanno dato un loro interessante contributo alla ricerca filosofica in questo campo. Tali autori trovano questo «minimo comun denominatore» non tanto in determinati contenuti normativi o valoriali quanto in determinati criteri formali di valutazione, come il «principio di universalizzabilità o di reciprocità», oppure nei presupposti trascendentali della comunicazione argomentativa.

4. In una situazione di estrema fluidità e frammentazione culturale come è la nostra attuale, l’e. cristiana è chiamata a farsi carico di questo nuovo ambito di problematica, intessendo un dialogo più approfondito e spassionato con la ricerca filosofica e con le​​ ​​ scienze dell’educazione.

Bibliografia

Valori P.,​​ L’esperienza morale,​​ Brescia, Morcelliana, 1971; De Finance J.,​​ E. generale,​​ Cassano Murge (Bari), Tipografia Meridionale, 1984;​​ Simon R.,​​ Ethique de la responsabilité, Paris, Cerf,​​ 1993;​​ Wanjiru Gichure C.,​​ Ética de la profesión docente. Estudio introductorio a la deontología de la educación,​​ Pamplona, EUNSA,​​ 1995; Caputo F.,​​ E. e pedagogia, Cosenza, Pellegrini, 2005.

G. Gatti




ETOLOGIA E EDUCAZIONE

 

ETOLOGIA E EDUCAZIONE

Disciplina che studia il comportamento degli animali osservandoli nel loro ambiente naturale.

1. L’e., dal gr.​​ éthos​​ (costume) e​​ lógos​​ (discorso), letteralmente significa studio dei costumi. La sua data di nascita è fissata nel 1935 e suo fondatore è considerato​​ ​​ Lorenz. L’e. si distingue dalle altre scienze naturali perché, pur non ignorando i contributi offerti dalle ricerche di laboratorio, considera significative solo le informazioni ottenute attraverso l’osservazione del comportamento degli animali nel loro ambiente naturale, facendo attenzione che l’osservato non avverta la presenza dell’osservatore. Al centro degli studi dell’e. sono gli schemi di comportamento che caratterizzano una particolare specie animale («comportamenti tipici della specie»). Essi sono stati studiati e descritti da K. Lorenz, N. Tinbergen e K. von Frisch come comportamenti caratterizzati da «schemi ad azione fissa» (cioè da una sequenza di comportamenti fissati nel patrimonio genetico della specie), innescati da «stimoli-chiave» provenienti dall’ambiente e che hanno luogo in «periodi critici» (cioè in un determinato arco di tempo di vita dell’animale). Esempi di comportamenti tipici della specie sono l’imprinting​​ (impronta, impressione) e i comportamenti aggressivi; in entrambi i casi, i ricercatori hanno concluso che si tratta di comportamenti costituiti dall’interazione tra una base genetica ed elementi appresi. Ma qual è il peso da attribuire ai due fattori? La ricerca della risposta a questa domanda costituisce il problema fondamentale dell’e.

2. L’e. umana​​ studia il comportamento umano comparandolo a quello degli altri animali; tale studio segue una metodologia che si basa sull’osservazione, ma, oltre a descrivere gli schemi comportamentali osservati, si domanda quali siano gli scopi adattativi di tali condotte. La ricerca moderna va confutando il modello energetico di Lorenz (per cui schemi di comportamento innati consentono di scaricare l’energia psichica) per sostituirlo con un modello informazionale, più aderente alle attuali conoscenze neurologiche. Secondo quest’ultimo modello, sono le informazioni che provengono sia dall’organismo che dall’ambiente a dare il via ai comportamenti; ed è il sistema nervoso che, informato attraverso un meccanismo di​​ feedback​​ circa il mutamento delle condizioni scatenanti, blocca il comportamento. Un approccio etologico alla psicologia dell’età evolutiva ha offerto importanti contributi dal punto di vista educativo: 1) ha fornito strumenti utili per studiare i comportamenti dei bambini in età preverbale e per poter ipotizzare la funzione adattativa di tali comportamenti; 2) ha ridefinito il bambino come essere competente e attivo (e non solo come impulsivo e reattivo); 3) la nozione di​​ imprinting​​ trasferita al comportamento umano ha contribuito all’elaborazione della teoria dell’attaccamento (Bowlby); 4) ha consentito di rilevare delle analogie col comportamento animale mostrando alcuni meccanismi che, sia negli uomini che negli animali inferiori, sono in grado di eliminare o ridurre le reazioni aggressive; 5) sottolineando l’importanza dell’osservazione, l’e. ha concesso un recupero dell’aspetto comportamentale dell’attività umana (surclassato da una tendenza introspezionistica) pur senza ignorare o negare la capacità intellettiva e apprenditiva.

Bibliografia

McGrew W. C,​​ II comportamento infantile: studio etologico,​​ Milano, Angeli, 1977; Blurton J. N. G.,​​ Il​​ comportamento del bambino. Studi etologici,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1980; Poli M.,​​ Psicologia criminale e e.,​​ Bologna, Il Mulino, 1981; Bowlby J.,​​ Attaccamento e perdita,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1972-1983; Hinde R. A.,​​ E.,​​ Milano, Rizzoli, 1984; Boakes R.,​​ Da Darwin al comportamentismo,​​ Milano, Angeli, 1986; Lis A. - P. Venuti,​​ L’osservazione in psicologia genetica,​​ Firenze, Giunti Barbera, 1986; Tinbergen N. - E. A. Tinbergen,​​ Bambini autistici. Nuove speranze di cura,​​ Milano, Adelphi, 1989; Scapini F. - R. Campan,​​ E., Bologna, Zanichelli, 2005.

D. Antonietti - J. M. Maíllo




EURISTICA

 

EURISTICA

Il termine deriva dal gr.​​ eurísko​​ (trovo).​​ In pedagogia, sottolinea la​​ scoperta​​ autonoma, guidata e orientata, con risorse personali da attivare metodologicamente e didatticamente.

1. Non mancano le componenti storiche e qualitative, da quelle platoniche a quelle medievali. La tradizione tomista, ad es., sottolinea l’autonomia di chi apprende, e il maestro coopera efficacemente sul piano dell’attualizzazione:​​ «Docens causat scientiam in addiscente, reducendo ipsum de potentia in actum»​​ (Tommaso d’Aquino, 1983, q. 117, art. 1). L’educazione, in questo contesto, è intesa come «azione diretta ai valori trascendentali dello spirito ma compiuta da un soggetto che li ha solo potenzialmente, o è, verso essi, in potenza» (Casotti, 1953). Più recentemente si fa anche riferimento a​​ metodologie qualitative e fenomenologiche​​ che sottolineano gli effetti della ricerca sull’esperienza stessa del ricercatore (Moustakas, 1990), con dimensioni riflessive​​ e formative, personali e professionali (Etherington, 2004). Riguardo all’apprendimento, viene sottolineata l’importanza di periodi​​ sensibili, particolarmente aperti all’apprendimento (Montessori, 1952; Vygotsky, 1966). Si sottolinea la​​ maturazione​​ intellettuale, riferita a miglioramenti di capacità in assenza di una specifica esperienza pratica e attribuibili a influenze genetiche e / o casuali (Ausubel, 1983), e l’idoneità cognitiva (readiness), riferita al «livello di funzionamento cognitivo, in rapporto a quanto un particolare compito di apprendimento richiede» (ivi).

2. Una metodologia educativa di tipo euristico​​ include un’analisi culturale ed evolutiva in grado di formulare proposte adatte ad una ricerca più autonoma da parte dei soggetti traendo «il massimo vantaggio dalle capacità cognitive esistenti e dalle modalità di assimilazione dei concetti e delle informazioni» (Bruner, 1960), ampliando le opportunità di apprendimento: insegnare un dato argomento ad un bambino in una certa età significa presentare la struttura di quella materia in termini consoni al modo di vedere le cose del bambino; è in questi termini che il compito didattico è stato interpretato sul piano di una​​ traduzione​​ (ivi). Il metodo euristico ha anche ispirato molte iniziative improntate all’attivismo (Mencarelli, 1989), come la tradizione delle​​ scuole attive​​ (​​ Scuole Nuove), in cui si considera il discente come protagonista e con un ruolo non secondario nell’iter di apprendimento interpretato come processo di ricerca.

Bibliografia

Montessori M.,​​ La mente del bambino,​​ Milano, Garzanti, 1952 (orig.​​ The absorbent mind,​​ Adyar-Madras, 1949); Casotti M.,​​ Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, 1953;​​ Bruner J. S.,​​ The process of education,​​ Cambridge, Mass., Harvard Univ. Press, 1960; Vygotsky L. S.,​​ Pensiero e linguaggio,​​ Firenze, Giunti-Barbera, 1966; Ausubel D. P.,​​ Educazione e processi cognitivi,​​ Milano, Angeli, 1983; Tommaso d’Aquino,​​ La somma teologica, Bologna, ESD, 1984; Mencarelli M., «Attivismo», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol.​​ I, Brescia, La Scuola, 1989, 1217-1226;​​ Moustakas C.,​​ Heuristic research: design,​​ methodology and applications, London, Sage, 1990; Etherington K.,​​ Heuristic research as a vehicle for personal and professional development, in «Counselling and Psychotherapic Research» 4 (2004) 2, 48-63.

G. Boncori




EUROPA sistemi educativi

 

EUROPA: sistemi educativi

In questa voce il tema dell’educazione in E. è stato accostato soprattutto dal lato del dibattito sugli scenari dello sviluppo dei sistemi formativi.

1.​​ L’evoluzione.​​ In seguito a un lento processo che ha avuto inizio alla fine dell’800, durante la prima metà del sec. XX si è affermato in E. un modello di sistema educativo che si può definire «scuolacentrico». In altre parole, gradualmente la scuola ha raggiunto una posizione di monopolio sulla formazione; inoltre, l’educazione era intesa come un processo unico, graduale e continuativo che si realizzava senza interruzione una sola volta nella vita più particolarmente nella giovinezza. Alla fine degli anni ’60 tale modello ha incominciato a essere messo​​ in discussione.​​ Esso sembrava ostacolare lo sviluppo integrale della persona umana poiché istituzionalizzava la discontinuità del ciclo vitale, separando nettamente il momento formativo dal momento produttivo e la giovinezza dall’età adulta e dalla vecchiaia. Inoltre, in una società in cui il ritmo del progresso scientifico e tecnologico è accelerato, la frequenza iniziale per quanto prolungata della scuola non è sufficiente una volta per tutte a preparare per l’intero arco della vita.

2.​​ L’educazione nella società della conoscenza.​​ A partire dagli anni ’70 e soprattutto nelle decadi ’90 e 2000 si viene affermando un nuovo modello, quello cioè della​​ ​​ educazione permanente o dell’apprendimento per tutta la vita. Secondo questo scenario lo sviluppo integrale della persona richiede l’educazione di ogni persona, di tutta la persona, per tutta la vita.

2.1.​​ Le strategie macrostrutturali. Anzitutto, va ricordata l’alternanza:​​ questa significa che il sistema di istruzione e di formazione deve prevedere la possibilità di spezzare la sequenza dell’educazione in diversi tempi – in modo da rinviare parte o parti della formazione a un momento successivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di lavoro. Lo sviluppo integrale della persona richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco della vita, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative; inoltre, accanto allo Stato, i gruppi, le associazioni, i sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che compete a ciascuno di loro. Pertanto, nei Paesi europei il sistema formativo non è più costituito solo dalla scuola, ma tende a presentarsi come una struttura sistemica complessa e differenziata di istituzioni e agenzie diverse, un​​ sistema formativo integrato. Tuttavia, l’integrazione non significa omogeneizzazione ma​​ diversificazione​​ e​​ flessibilità​​ entro un quadro di offerte tra loro coordinate: in questo senso la formazione professionale non viene più concepita generalmente come un addestramento finalizzato all’insegnamento di destrezze manuali, o peggio come qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi. Un’altra strategia consiste nell’autonomia​​ che trova consensi unanimi, in quanto consente alla singola scuola di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi; nella medesima linea si colloca il riconoscimento della​​ libertà effettiva di scelta educativa. Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza dell’importanza della istruzione e della formazione come strumento per lo sviluppo locale e per la​​ collaborazione​​ internazionale, soprattutto​​ a livello europeo. In questo quadro si inserisce il «processo di Bologna» che costituisce l’evento principale degli ultimi anni per l’università in E.: la meta finale è di creare uno spazio europeo dell’istruzione superiore allo scopo di rafforzare l’incidenza formativa dei sistemi nazionali e di accrescere le opportunità di lavoro e la mobilità dei cittadini.

2.2.​​ Le strategie a livello microstrutturale. Anzitutto, l’orientamento che tende a diffondersi nei vari Paesi dell’E. va nel senso di riconoscere a ciascun giovane il​​ diritto a una istruzione e formazione prolungate. Questa strategia può assicurare ai giovani quell’ampia preparazione di base idonea a promuovere la crescita personale, l’orientamento, la prosecuzione degli studi, l’inserimento nell’attività lavorativa e la partecipazione responsabile alla vita democratica. In tale quadro, la scuola secondaria deve essere una scuola aperta a tutti, che offre a ciascuno le opportunità più ampie di apprendere, che evita gli sbocchi senza uscita verso i livelli superiori, che in tutti gli indirizzi conserva elementi essenziali comuni, che consente di rettificare le proprie scelte​​ in itinere​​ e che prevede ponti o moduli di collegamento tra i vari indirizzi. È anche essenziale realizzare due tipi di integrazione: uno tra diversi livelli del sistema e in particolare fra la istruzione e la secondaria e l’università e l’altro all’interno della stessa scuola secondaria tra i cicli, le sezioni e le classi, combattendo la frammentazione mediante la definizione di aree di conoscenze e di competenze. Al tempo stesso, la diversificazione​​ dovrà essere la più ampia nel senso che l’istruzione e la formazione potranno essere a tempo pieno o parziale, e generali, tecniche o professionali e dovranno coinvolgere oltre alla scuola, la formazione professionale e le diverse agenzie di socializzazione interessate. Se le nuove tecnologie dell’informazione sono all’origine della cultura del frammento, è anche vero che la società della conoscenza​​ esprime una domanda forte di​​ cultura generale​​ che va senz’altro soddisfatta dal sistema formativo. Per la formazione al lavoro sarà necessario fornire ai giovani una combinazione equilibrata di conoscenze di base, di competenze tecniche e di atteggiamenti sociali. La diffusione dei corsi post-secondari si giustifica con la necessità di fornire la formazione professionale a livello di​​ specializzazione spinta​​ dato che questa non viene più offerta in molti Paesi dalla secondaria superiore dove, invece, si mira a formare la professionalità di base. Da ultimo, di fronte alla svolta epocale risultante dalle sfide della globalizzazione e della nuova economia basata sulla conoscenza, nel 2000 l’Unione Europea si è data a​​ Lisbona​​ un programma al tempo stesso ambizioso e realistico per questo decennio e ha individuato in un grande rafforzamento dell’istruzione e della formazione la chiave di volta per realizzare una crescita durevole del nostro continente.

Bibliografia

Cresson E. - P. Flynn,​​ Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1995;​​ Conclusioni della Presidenza. Consiglio Europeo di Lisbona, 23 e 24 marzo 2000, Bruxelles, 2000; Malizia G. - C. Nanni, «Istruzione e formazione: gli scenari europei», in Ciofs / Fp - Cnos-Fap (Edd.),​​ Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, 2000, 15-42; Malizia G. (Ed.),​​ Pedagogia e didattica universitaria dopo la riforma, in «Orientamenti Pedagogici» 51 (2004) 5, 749-956; Reguzzoni M.,​​ Il sistema formativo in E., in «La Civiltà Cattolica» 156 (2005) 3714, 549-558; Dawson, C.,​​ Los orígenes de Europa, Madrid,​​ Rialp, 2007.

G. Malizia




EVANGELIZZAZIONE

 

EVANGELIZZAZIONE

Termine specificamente cristiano, non presente come tale nel Nuovo Testamento, derivato dal verbo «evangelizzare», ampiamente documentato nel NT, tornato nell’attualità soprattutto dopo il 1950. Nel significato biblico originale si riferisce alla predicazione del Vangelo in vista della​​ ​​ conversione a Dio e della scelta di essere discepolo di Gesù Cristo secondo il suo Vangelo.

1. In prospettiva storica il termine si riferisce all’opera dei missionari cristiani in mezzo a popoli non cristiani per annunciare il Vangelo e fondare delle comunità cristiane. A partire dal XVI sec., il​​ ​​ catechismo come istituzione e come libro, è stato spesso, sia per cattolici che per protestanti, luogo e strumento di​​ ​​ alfabetizzazione, specie attraverso le scuole domenicali (Europa, USA, Canada) e nelle missioni cristiane (per esempio in Africa). La catechesi cristiana ha anche sempre assicurato il compito dell’​​ ​​ educazione morale ed ha promosso (XX sec.) la giustizia sociale, l’​​ ​​ insegnamento sociale della Chiesa, i diritti umani, la promozione economica, sociale e culturale dei poveri del terzo mondo. La preoccupazione dell’e. ha influito notevolmente nella creazione di scuole cattoliche per i poveri, sia nelle missioni che nei Paesi occidentali, diventando «segni» di una presenza benefica del cristianesimo. In senso ampio l’e. cristiana ha svolto nella storia una funzione umanizzante sul piano sociale e culturale. I grandi valori europei, anche se ormai in veste secolare, sono incontestabilmente segnati dalla loro estrazione cristiana.

2. Nell’ultimo decennio, di fronte all’inefficacia del tradizionale dispositivo di trasmissione della fede, basato su diversi elementi della società cristiana, che ormai non esiste più come tale, il compito di proporre il Vangelo in vista di una scelta personale e consapevole della conversione e della fede in Gesù Cristo, è diventato urgenza prioritaria in tutti i paesi europei, segnati da scristianizzazione,​​ ​​ secolarizzazione, e forte pluralismo religioso e culturale.

3. Per caratterizzare i processi formativi del​​ ​​ catecumenato e della rinnovata catechesi cristiana, si usano termini che hanno attinenza con il linguaggio pedagogico, ma che nello stesso tempo sono critici nei confronti dei precedenti modelli pedagogici e didattici che prevalevano nella catechesi del XX sec. Il catecumenato è un periodo di apprendistato cristiano; l’accompagnatore personale ha una funzione importante di assistenza e di guida. C’è grande rispetto dei ritmi personali di crescita. La «pedagogia catecumenale» è ormai proposta come riferimento per la catechesi dei battezzati.

4. In nessuno di questi significati il termine è primariamente pedagogico. Vero è che nella realizzazione storica e concreta dell’e. interferiscono diversi problemi educativi. Lo specifico di questi aspetti è però toccato da altre voci di questo dizionario.

Bibliografia

Paolo VI,​​ Evangelii nuntiandi,​​ Città del Vaticano, LEV, 1975; Gevaert J.,​​ Prima e.,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1990; Id.,​​ La proposta del Vangelo a chi non conosce il Cristo, Ibid., 2001.

J. Gevaert




FACILITATORE

 

FACILITATORE

Il f. può essere definito come un professionista «consulente di processo nelle organizzazioni e agente di benessere relazionale nei gruppi e nel sociale» (De Sario, 2005, 13).

1. Non può, pertanto, essere ridotto soltanto al ruolo di​​ tutor​​ o di mediatore di comunicazione e discussione in gruppi o riunioni. La figura professionale del f. si specifica per la sua capacità di organizzare e gestire risorse sociali e tecniche a un tavolo di lavoro (catalizzatore); di facilitare la comunicazione nel gruppo e nella riunione (mediatore); di gestore di conflitti tra persone e delle tensioni emotive delle singole persone (agente di aiuto), di sostenitore e motivatore di apprendimento nei singoli, nel gruppo, nella organizzazione (motivatore).​​ 

2. Tutto questo lo realizza in tre ambiti fondamentali: le organizzazioni, il sociale e il territorio; all’interno dei quali l’attenzione va agli adulti (uomini e donne), per renderli consapevoli e attori protagonisti e per fare da ponte per incentivare dinamismo e dialogo. Questo è il modo più semplice e completo di precisare ciò di cui si occupa, le sue competenze fondamentali, gli ambiti e le finalità di intervento. Vi è, tuttavia, anche un altro aspetto che non si deve trascurare.

3. In riferimento agli adulti e all’adultità da sviluppare e abilitare a nuove possibilità, il f. è anche formatore, un’azione che mette in atto per migliorare processi e percorsi di apprendimento come​​ self empowerment.​​ Questa azione si concretizza in una metodologia che attiva quattro fasi, ciascuna con attenzioni e obiettivi specifici: formazione «orientamento» (aiutare a pensarsi in modo positivo nel nuovo), formazione «competenza» (acquisizione di nuove metodologie e di uso di nuovi strumenti), formazione «elaborazione» (di resistenze e di preoccupazioni che impedirebbero di aprirsi al nuovo), formazione «azione» (verifica operativa del nuovo a partire da sperimentazioni fatte). Queste sono tutte attenzioni importanti per un intervento formativo efficace con gli adulti. Il f., sia come consulente di processi o agente di benessere sociale, che come f. di processi di apprendimento, trasmette conoscenza, è attento alle persone e ha cura del clima d’aula o di ambiente di formazione. In questo modo egli diventa anche «tessitore di reti» e protagonista di processi di innovazione nelle organizzazioni, nella formazione e nel sociale in generale.

Bibliografia

Bruscaglioni M.,​​ Per una formazione vitalizzante. Strumenti professionali, Milano, Angeli, 2005; De Sario P.,​​ Professione f. La competenze chiave del consulente alle riunioni di lavoro e ai forum partecipati, Ibid., 2005; Id.,​​ F. dei gruppi. Guida per la facilitazione esperta in azienda e nel sociale, Ibid., 2006; Rotondi M.,​​ Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità, Ibid., 2006.

V. Orlando




FACOLTÀ DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

 

FACOLTÀ DI SCIENZE​​ DELL’EDUCAZIONE​​ 

Istituto universitario di insegnamento, di studio e di ricerca nell’ambito delle scienze riguardanti la teoria pedagogica e i fatti educativi.

1.​​ Precedenti storici.​​ Le f.s.d.e. sono di recente creazione. Benché l’espressione si sia generalizzata nella seconda parte del sec. XX, all’interno di uno stesso Paese o contesto culturale vengono usati oggi nomi diversi. Allo scopo di collocare in una adeguata cornice gli inizi e lo sviluppo delle prime f.s.d.e. propriamente dette, si accenna ad alcuni precedenti e, in particolare, al posto che l’insegnamento della​​ ​​ pedagogia ha occupato progressivamente nell’ordinamento scolastico. Dalle notizie sui seminari creati nel sec. XVII da Ch. Demia e da G. B. de​​ ​​ La Salle «per la formazione dei maestri di scuola» si desume che lo scopo prefisso era fondamentalmente pratico. Lo stesso si deve dire del​​ Seminarium praeceptorum​​ fondato da​​ ​​ Francke nel sec. XVIII. Nel corso del sec. XIX, per rispondere all’istanza di preparazione pedagogica degli insegnanti, viene organizzata la​​ ​​ scuola normale, nel cui programma è sempre più presente lo studio della pedagogia. In Italia detta scuola fu preceduta dalle scuole provinciali e dalla scuola superiore di​​ ​​ metodo (1845); quest’ultima (presso l’Università di Torino) fu trasformata in «cattedra di pedagogia». Nel 1887 venne creata la cattedra di pedagogia alla Sorbona (sospesa tra il 1917 e il 1956). Riferendosi alle università francesi, Compayré scriveva alla fine del sec. XIX: si «insegna la pedagogia, sia in una cattedra magistrale come a Parigi, sia in corsi e conferenze come a Lione e a Tolosa»; e precisava che la pedagogia era chiamata ufficialmente «science de l’éducation». Negli Stati Uniti i​​ Departments of the Science and Art of Teaching​​ si erano diffusi notevolmente. In diverse università tedesche (Jena, Heidelberg, Halle, Lipsia), fin dal sec. XVIII i professori di filosofia erano tenuti a dettare un corso di pedagogia (Pädagogik).​​ Sono noti, in particolare, i testi delle lezioni di​​ ​​ Kant e di​​ ​​ Herbart.

2. Scuole e istituti di s.d.e.​​ Iniziative più organiche vengono attuate nei primi decenni del sec. XX. Nel 1912,​​ ​​ Claparède e Bovet fondano a Ginevra l’École des Sciences de l’Éducation​​ (Institut J. J. Rousseau),​​ intesa come centro di ricerca, d’informazione e di propaganda. Il suo motto (discat a puero magister)​​ ne esprime l’orientamento generale: portare gli educatori a una migliore conoscenza del bambino come presupposto per una educazione scientificamente valida. Precisando le origini dell’opera, Bovet scriveva:​​ «Je ne vis que le Tessin et l’Italie, où les​​ Scuole di Pedagogia​​ de Credaro inauguraient alors quelque chose d’analogue à ce que nous voulions créer» (Bovet,​​ 1932, 16). Nel 1929 l’Institut​​ fu affiliato alla f. di Lettere dell’università di Ginevra. Nello stesso anno il senato accademico approvò la risoluzione di​​ «étudier le plan d’une Faculté des Sciences de l’Éducation» (Bovet,​​ 1932, 131). Ma solo nel 1967 è creata in Francia una​​ licence​​ in s.d.e. Nel 1969 l’Istituto di psicologia e pedagogia di Lovanio venne trasformato in f. di psicologia e s.d.e. Nel 1937, a opera dei padri benedettini, era sorta in Brasile la Facultade Livre de Filosofia e Pedagogia, aggregata alla Università cattolica di São Paulo. Ma in nessuno di questi casi si trattava di una f.s.d.e. nel senso pieno del termine.

3.​​ La F.s.d.e. dell’Università Salesiana​​ (= FSE).​​ Nel 1941 erano iniziate invece a Roma, presso la Congregazione degli Studi, le pratiche per l’approvazione, «come f. di pedagogia», dell’Istituto fondato presso il Pontificio Ateneo Salesiano (= PAS) di Torino, da​​ ​​ Leôncio Da Silva (1887-1969), per iniziativa di P. Ricaldone, rettor maggiore dei​​ ​​ Salesiani e gran cancelliere del PAS. In un primo momento, le autorità vaticane ritengono che la pedagogia «non sia una scienza sufficientemente autonoma», constatando che non esistono istituti del genere «né nel campo ecclesiastico né in quello civile». Il parere favorevole di alcuni uomini di cultura (​​ Maritain, Garrigou-Lagrange, Paschini, Pende), la progressiva organizzazione dell’Istituto torinese e la serietà delle ricerche svolte e degli scritti pubblicati sulla rivista «Orientamenti Pedagogici» da P. Braido,​​ ​​ Calonghi, P. G. Grasso, R. Titone, spingono l’organismo vaticano ad accogliere la «novità», approvando nel 1956 l’Istituto Superiore di Pedagogia (= ISP). In momenti diversi collaborarono, nell’ISP / FSE,​​ ​​ Corallo, P. Gianola,​​ ​​ Sinistrero, G. Dho. L’approvazione sanzionava «il principio, secondo cui uno studio solido e rigoroso delle s.d.e. esige un tale complesso di ricerche teoriche, positive, storiche e tecniche, da giustificare l’organizzazione di un complesso​​ curriculum studiorum​​ altamente qualificato, a livello universitario» (Braido, 1956, 647). Nel dare la notizia ai lettori, un collaboratore di «Scuola Italiana Moderna» scriveva: «La prima f. di Pedagogia è sorta in Italia nel nome di don Bosco» (Giammancheri, 1957, 7-8). Di fatto il titolo di f.s.d.e. venne conferito ufficialmente nel 1973, quando il PAS diventò Università Pontificia Salesiana (= UPS), con sede a Roma. Sin dalla sua approvazione, l’ISP funzionò autonomamente come f. universitaria. Anzi, con la sua impostazione​​ teoretico-positiva​​ e la sua struttura scientifica​​ unitaria e complessa,​​ esso si configurò come un’istituzione originale nell’ambiente pedagogico degli anni ’60. Per l’attuazione dei compiti di ricerca e di docenza la FSE comprende oggi diversi istituti (teoria e storia, metodologia pedagogica, metodologia didattica e della comunicazione sociale, catechetica, psicologia, sociologia) e centri (consulenza psico-pedagogica, osservatorio della gioventù). I corsi si articolano nei seguenti curricoli di specializzazione: teoria-storia e metodologia dell’educazione, pedagogia sociale, pedagogia per la scuola e la formazione professionale, psicologia dell’educazione, pastorale giovanile e catechetica (in collaborazione con la f. di Teologia dell’UPS). All’interno della FSE funziona anche una scuola superiore di psicologia clinica. In stretto rapporto con l’ISP sorse a Torino l’Istituto Pedagogico delle​​ ​​ Figlie di Maria Ausiliatrice, trasferito a Roma ed elevato nel 1970 a Pontificia f.s.d.e. «Auxilium». Alle scelte teoriche e metodologiche della FSE si è ispirata l’impostazione di alcuni centri superiori, come la f. di Pedagogia dell’Università Pontificia di Salamanca (Spagna).

4.​​ F.s.d.e. e di scienze della formazione.​​ L’organizzazione degli studi pedagogici a livello universitario si presenta attualmente variegata e sono in corso profondi cambiamenti. A livello europeo sono in atto notevoli processi di innovazione e di coordinamento dell’università e dell’istruzione tecnico-superiore, in linea con quello che è stato detto il​​ ​​ processo di Bologna (1999). Le indicazioni europee e la domanda sociale di formazione, hanno portato in Italia a mutamenti anche nel settore educativo-scolastico. A livello universitario, già nel 1995, le f. di Magistero erano state soppresse e trasformate, per lo più, in f. di s. della formazione, al cui interno si collocava il corso di laurea in s.d.e., di quattro anni di durata, articolato in un biennio propedeutico e un successivo biennio con tre indirizzi (insegnanti di scienze umane, educatori professionali, esperti nei processi di formazione); anche nelle f. di lettere poteva essere attivato un corso di laurea in s.d.e. Ma queste stesse impostazioni, a seguito del processo di Bologna, sono state modificate, a cominciare dall’adozione di due cicli rispettivamente di tre anni (corso di laurea) e di due anni (corso di laurea Magistrale) a cui fa seguito il ciclo del dottorato (tre anni). Si sono avviati in molte sedi universitarie Master di specializzazione. Ma la situazione è ancora fluida e in processo, anche a seguito della riforma scolastica e della conseguente necessaria revisione del reclutamento e della formazione universitaria degli insegnanti, che a tutt’oggi (2007) non ha ancora avuto definitiva attuazione. In Spagna le​​ Escuelas Normales​​ si sono trasformate, nel 1970, in​​ Escuelas Universitarias de Formación del Profesorado;​​ esistono inoltre f. autonome di​​ Ciencias de la Educación.​​ Nelle università inglesi e nordamericane viene usato il nome di​​ School of Education;​​ e vi esistono​​ Teachers college​​ per la formazione degli insegnanti. In Germania hanno avuto una lunga tradizione le​​ Pädagogische Hochschulen;​​ negli anni ’70, dalla loro fusione con le​​ Fachhochschulen​​ o con le​​ Theologische Hochschulen​​ sono sorte le​​ Gesamt-hochschulen.​​ In America Latina la terminologia è varia. Al di là delle differenti modalità organizzative (​​ istruzione superiore,​​ ​​ organizzazione scolastica), è sempre più affermata oggi l’esigenza di un «sistema» di approcci scientifici diversi (storico, psico-sociologico, sperimentale, teorico, metodologico, tecnologico, didattico) alla realtà educativa.

Bibliografia

Bovet P.,​​ Vingt ans de vie.​​ L’Institut J.J. Rousseau de 1912 à 1932,​​ Neuchâtel / Paris, Delachaux & Niestlé, 1932; Braido P.,​​ Una scuola universitaria di pedagogia,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 3 (1956) 647-650; Giammancheri E.,​​ La prima f. di pedagogia è sorta in Italia nel nome di don Bosco,​​ in «Scuola Italiana Moderna» 66 (1957) 17, 7-8; Debesse G. M. - G. Mialaret,​​ Trattato delle scienze pedagogiche,​​ 1.​​ Introduzione,​​ Roma, Armando, 1971; Malizia G. - E. Alberich (Edd.),​​ A servizio dell’educazione. La FSE dell’UPS,​​ Roma, LAS, 1984; Prellezo J. M.,​​ Alle origini della FSE, in «Orientamenti Pedagogici» 48 (2001) 876-906; Galliani L. - E. Felisatti,​​ Maestri all’Università. Modello empirico e qualità della formazione iniziale degli insegnanti, Lecce, Pensa, 2002.

J. M. Prellezo