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DIREZIONE SPIRITUALE

 

DIREZIONE SPIRITUALE

Lo scopo principale della d.s. consiste nel favorire la relazione tra l’uomo e Dio e nel vivere profondamente la dimensione interiore e religiosa della vita. Essa, quindi, rappresenta un aiuto specifico che alcuni cristiani si danno per crescere, individualmente e come comunità di fede, nella relazione con Dio, con gli altri, con il mondo, con la storia. Qui, per d.s. intendiamo la modalità che avviene sia al di fuori che all’interno del sacramento della riconciliazione, senza richiamare le questioni specifiche della d.s. istituzionalizzata e che ha luogo nelle situazioni di formazione alla vita consacrata o al sacerdozio. Il tema della d.s. si potrebbe facilmente allargare, per es., all’antichità classica, richiamando i nomi di Plotino, Epitteto, Plutarco, Cicerone, Seneca. Sappiamo pure che forme di aiuto ascetico-morale molto efficaci sono conosciute anche nell’ambito di altre religioni.

1.​​ L’uso del termine.​​ Nonostante alcuni tentativi fatti in questi ultimi decenni per sostituire nel linguaggio cristiano il termine d.s., e di conseguenza eliminare dall’uso anche il termine stesso di​​ ​​ direttore o padre spirituale, è maturata la convinzione che proprio questi vocaboli risultano i migliori. L’idea della sostituzione dei termini tradizionali è stata motivata da una documentabile esperienza di d.s. che, in qualche misura, si è trovata in contrasto con gli orientamenti offerti una volta dalla teologia ascetica e mistica e che oggi con maggiore competenza ancora offrono la pedagogia, la psicologia e la teologia spirituale. Non si può negare che molte volte un direttore spirituale sicuro più di sé che fiducioso di Dio, ricade in forme di dirigismo, di direttività, di paternalismo.

2.​​ Crisi e attualità della d.s.​​ Fino agli anni settanta, del sec. scorso, non si può parlare di crisi d’identità della d.s. Poi, è sembrato che il contributo che le scienze dell’uomo offrivano per la comprensione e la soluzione dei problemi della persona umana fosse talmente sufficiente da far considerare ormai superata la d.s. Si era così sicuri dell’esistenza di tante terapie di vario genere da considerare la d.s. non all’altezza, perché troppo settoriale, delle finalità per le quali aveva lavorato fino a quel momento. Inoltre, si era nel pieno di una cultura «senza padre», per cui sembrava che la parola «padre» o «direttore» potesse favorire la riproduzione simbolica e bloccante della figura paterna e compromettere la relazione padre-figlio. Questa sfiducia nei confronti della d.s. sembrava sostenuta dal fatto che anche la stessa teologia, essendosi liberata dal linguaggio di un un’antropologia dualista, aveva cominciato ad esprimersi con quello di un’antropologia integrale. In questo clima di critiche della d.s. è nata anche la proposta dell’animazione comunitaria, intesa come alternativa al tradizionale modo di attuare la d.s. Non si può ignorare l’attualità della d.s., né per il passato, né per il presente. Oggi, poi, vediamo che la ricerca di nuovi maestri si presenta, talvolta, perfino febbrile. Purtroppo, quasi sempre li si considera una specie di maghi, competenti sul piano spirituale, su quello delle tecniche e su quello dei metodi ascetici, così da dare una soluzione a qualsiasi problema.

3.​​ Il senso della d.s.​​ È necessario chiarire il peso che si dà sia al termine d.s. sia a quello di direttore spirituale. A favore di questi vocaboli non è solo una lunga tradizione, ma anzitutto il significato teologico e spirituale che essi esprimono. I termini d. e s. rappresentano due istanze di quell’aiuto che è indispensabile per un credente bisognoso nel suo cammino di fede. Tali istanze non si possono interpretare in modo arbitrario, attribuendo ad esse un significato immaginario, come per es., assegnando allo «spirituale» l’interesse per un’anima disincarnata secondo l’antropologia dualista di una volta e alla d. una volontà di padronanza sulle persone, e quindi un’autorizzazione ad assoggettarsi il diretto o addirittura a plagiarlo. È vero che nel passato, essendosi badato solo al senso del progresso spirituale visto nella luce del dato oggettivo, offerto dalla fede della rivelazione di Gesù Cristo, di solito veniva trascesa la corporeità del diretto. L’equilibrio di cui parla Th. Merton rimaneva sconosciuto: «Il direttore spirituale si interessa a​​ tutta la persona,​​ perché la vita spirituale non è semplicemente la vita della mente, o degli affetti, o della “sommità dell’anima”: è la vita di tutta la​​ persona.​​ Perché l’uomo spirituale (pneumatikós)​​ è colui la cui vita intera, in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue attività, è stata spiritualizzata dall’azione dello Spirito santo, sia per mezzo dei sacramenti, sia dalle ispirazioni personali e interiori». La d.s. è molto più di un consiglio, di un dialogo, di un incoraggiamento. Essa si radica nell’opera dello Spirito santo che è il protagonista principale della nostra crescita spirituale. Il livello su cui si muove la d.s. è quello spirituale, mentre le competenze che offrono le scienze dell’uomo rimangono sul piano psicologico. Alla nostra attenzione non deve sfuggire che nella relazione della d.s. i protagonisti sono tre: lo Spirito santo, che è il vero direttore spirituale, il diretto, che è il vero soggetto nella d.s., e il direttore spirituale umano, che svolge l’opera di mediazione tra i due.

4.​​ D.s. e azione dello Spirito.​​ Per liberare la d.s. da un’immagine di vincolo che lega strettamente e in modo permanente, e per sottolineare il suo carattere transitorio, si dice che essa «è nata per finire». Questa sintesi mette in rilievo la finalità pedagogica della d.s.: aiutare la persona diretta a mettersi in piedi e a camminare da sola. Ecco il motivo per cui il diretto deve avere un pieno spazio di libertà nel suo cammino di ricerca e la coscienza che spetta a lui stesso il dovere di decidere. Perciò il direttore non è colui che si sostituisce alla persona diretta e tanto meno prende il posto dello Spirito santo. È «direttore spirituale» perché collabora con lo Spirito santo per il progresso spirituale della persona diretta. A questo proposito, l’Oriente cristiano, sottolineando l’importanza e il significato spirituale del ruolo che svolge il mediatore tra l’uomo e Dio, fin dai primi tempi parla di «padre spirituale» o, nel caso delle donne, di «madre spirituale» perché particolarmente in quel contesto di vita cristiana il padre spirituale esercita la sua funzione non in virtù di un’autorità ufficiale, ma dell’autorevolezza spirituale.

5.​​ L’itinerario spirituale e i compiti della d.s.​​ Per capire i motivi della perenne attualità della d.s. occorre sapere quali sono i suoi compiti. Adulti nella fede, santi e uomini spirituali, non si nasce, ma si diventa. La storia della spiritualità cristiana conosce il tema dell’itinerario spirituale: tappe o gradi che aprono su tappe successive di crescita spirituale. Il che esprime la convinzione che adulti nella fede, santi e uomini spirituali, si diventa in modo progressivo. L’idea dell’itinerario spirituale è quella che la vita spirituale, sviluppandosi nel tempo, ha le sue leggi proprie che un direttore spirituale deve conoscere per agire di conseguenza. Oggi, inoltre, si è convinti che il progresso spirituale avviene in modo non indipendente dalle leggi della crescita e dello sviluppo umano. Tra le numerose proposte di itinerario, la più corrispondente al realismo del progresso spirituale è quella che lo articola in principianti, proficienti e perfetti. In ogni proposta di itinerario spirituale importanti sono i contenuti delle rispettive tappe perché aiutano il soggetto a riorientare la propria vita verso i valori superiori di cui la carità è il centro. Risulta, anzitutto, urgente che nella d.s. si giunga all’essenziale senza perdere tempo soffermandosi più del necessario su un terreno antistante i veri problemi della persona diretta. Sono proprio i vantaggi che se ne ricavano a mantenere sempre attuale e utile la d.s. Essa, infatti, permette a chi la esercita di influire in maniera forte, significativa e talvolta determinante sul destino delle persone che gli sono state affidate da Dio. Ne sono l’esempio santi come Ambrogio, Agostino, Francesco di Sales, Giovanni​​ ​​ Bosco e tanti altri.

6.​​ La realtà del direttore spirituale.​​ Tra i diversi problemi pratici che la d.s. pone, il primo e il più difficile riguarda la scelta indovinata di un direttore spirituale. È emblematico il pensiero di s. Teresa d’Avila a proposito dell’utilità di avere un direttore spirituale capace: «Se io ho sofferto molto e ho perduto molto tempo, fu appunto per non sapere quello che dovevo fare» (Il​​ libro della Vita,​​ 14,7). S. Giovanni della Croce, a sua volta, in diversi momenti del suo insegnamento avverte che per incompetenza dei direttori spirituali si verificano numerosi danni spirituali.

Bibliografia

Merton Th.,​​ D.s.​​ e meditazione,​​ Milano, Garzanti, 1965; Besnard A. M. et al.,​​ Le maître spirituel,​​ Paris, Cerf, 1980; Serenthà L. - G. Moioli - R. Corti,​​ La d.s. oggi.​​ Atti della Quattro giorni Assistenti dell’A.C. di Milano, Milano, Ancora, 1982; Sudbrack J.,​​ D.s. La questione del maestro,​​ dell’accompagnatore spirituale e dello Spirito di Dio,​​ Roma, Paoline, 1985; Fossati G. et al.,​​ Per essere una guida spirituale,​​ Roma, Libreria Editrice Murialdo, 1987; Barry W. A. - W. J. Connolly,​​ Pratica della d.s.,​​ Milano, O. R., 1990; Mendizábal L. M.,​​ La d.s. Teoria e pratica,​​ Bologna, Dehoniane, 1990;​​ Vernette​​ J.,​​ Nuove spiritualità e nuove saggezze.​​ Le vie odierne dell’avventura spirituale, Padova, Edizioni Messaggero, 2001; Capello A. et al.,​​ Mistagogia e accompagnamento spirituale.​​ Atti e relazioni della 44a​​ Settimana di Spiritualità, Roma, Teresianum, 2003;​​ Goya​​ B.,​​ Luce e guida nel cammino.​​ Manuale di d.s., Bologna, Dehoniane, 2004;​​ Frattallone​​ R.,​​ D.s.​​ Un cammino verso la pienezza della vita di Cristo, Roma, LAS, 2006.

J. Struś




DIRIGENTE SCOLASTICO

 

DIRIGENTE SCOLASTICO

Per chi è a capo di una scuola è ormai invalsa la dizione formale «capo d’istituto» laddove si usava dire «preside» per le scuole secondarie e «direttore didattico» per la scuola elementare. Rientrano nella nozione anche tutte le funzioni di sostituzione (vicepreside, vicario, facente funzione) e di coordinamento di settori disciplinari o comunque indicanti responsabilità particolari (middle management).​​ Un termine molto comprensivo, riferito anche alle funzioni di ordine gestionale-amministrativo, è quello di​​ school manager.​​ La dizione​​ school management​​ indica il campo degli studi sulla dirigenza scolastica.

1.​​ Posizione e accesso.​​ In linea di massima possiamo avere:

A - capo di istituto

Tipo di sistema

 

modalità

di accesso

Requisiti

 

A- centralizzato burocratico

 

concorso

pubblico

titoli culturali,

curricolo

professionale,

superamento di un esame

B- collettivistico

 

elezione

 

prestigio, consenso

 

C- decentralizzato autonomo

 

selezione

 

curricolo professionale: qualificazioni, esperienze

 

D- totalitario

 

designazione

 

appartenenza politica

 

 

B - responsabile intermedio

l’accesso avviene per designazione da parte del capo di istituto o per richiesta da parte dei colleghi o per incarico da parte dei gestori o dell’amministrazione della scuola.

La caratteristica centrale del «capo di istituto» è di essere responsabile in senso globale della propria scuola e di rappresentarla a tutti gli effetti; le altre posizioni rispondono invece a compiti più delimitati e settoriali. In alcuni sistemi l’adempimento di tali compiti costituisce presupposto e titolo per l’accesso alla posizione di capo di istituto.

2. Contenuti.​​ Il d.s. viene considerato secondo tre fondamentali accezioni: a) funzionario; b) leader educativo; c) operatore dell’«educazionale». La prima configurazione – particolarmente presente nei sistemi scolastici europei continentali di derivazione napoleonica e prussiana – considera il d.s. come una figura completamente e compiutamente inclusa nella logica dell’amministrazione di natura burocratica, ultimo anello della catena gerarchica di disposizioni e poteri formali (uffici, programmi, circolari, ordinanze) che governano il funzionamento dell’apparato. Egli deve assicurare, quindi, il rispetto delle norme, vigilare sull’operato del personale, esaudire tutti gli adempimenti che gli vengono attribuiti allo scopo di promuovere l’istruzione e di perseguire gli obiettivi assegnati alla scuola. Il secondo profilo trova le sue radici nelle tradizioni basate sui principi della decentralizzazione e dell’appartenenza della scuola alla comunità, che vedono nel d.s. soprattutto il perno animatore di realtà educativamente significative. La sua attività, pertanto, è considerata rilevante non tanto dal punto di vista della correttezza formale quanto da quello della efficacia nei confronti delle finalità sostanziali della scuola e dei suoi agenti principali, vale a dire gli alunni e gli insegnanti. La funzione primaria del d.s., allora, è di contribuire alla «qualità» della propria scuola come luogo formativo. La terza indicazione rimanda alla identificazione dell’«educazionale» come campo intermedio fra il terreno dell’«educativo» e quello dell’«amministrativo» come tali, rispettivamente specifici dell’azione dell’​​ ​​ insegnante e di quella dell’amministratore vero e proprio. L’«educazionale» costituisce una sorta di nodo centrale di una linea che ha per oggetto le strutture funzionali della scuola e che, provenendo dall’amministrativo, finisce con l’attraversare il campo dell’educativo. La dirigenza scolastica, in quanto settore di attività professionale, si concretizza prevalentemente nell’ordine delle strutture funzionali, ma non è lontana in assoluto da quello dei rapporti; in questo senso, vengono ad emergere due principali componenti della professionalità dirigenziale, che hanno rispettivamente a che fare con l’​​ ​​ organizzazione scolastica e con la​​ ​​ relazione educativa. Spetta quindi al d.s. espletare compiti di garanzia, animazione, chiarificazione, facilitazione, controllo, innovazione, guida, sostegno, contatto, rassicurazione, protezione.

3.​​ Prospettive.​​ Gli sviluppi più rimarchevoli toccano due precisi settori di attenzione, costituiti dalla ristrutturazione del sistema secondo il principio dell’​​ ​​ autonomia delle scuole e dall’introduzione di forme specifiche di preparazione. Per quanto riguarda il primo punto, la figura del d.s. risulta fortemente modificata in senso manageriale nell’ipotesi che ad ogni istituzione scolastica vengano riconosciute delle possibilità di autonomia – vale a dire di autodecisione ed autodeterminazione progettuale – sul piano amministrativo, curricolare e didattico. Come conseguenza, il profilo del d.s. si andrebbe sempre più decisamente staccando dalle connotazioni burocratiche per accedere a valori e competenze di impresa, con un considerevole aumento dei poteri e delle responsabilità reali (es.: selezione del personale, gestione budgetaria, ecc.). La seconda questione si riferisce alla costituzione di forme apposite di preparazione alla professione di d.s., che è presente da tempo in alcuni Paesi (es.: Stati Uniti), si sta diffondendo con grande rapidità in molti altri (es.: Gran Bretagna, Olanda, Svezia) ed è ancora assente in Italia, dove si è invece assistito al fenomeno della diffusione su vasta scala della formazione in servizio. L’ipotesi di maggiore interesse è rappresentata dall’introduzione di gradi di studio universitario postlaurea (master) appositamente finalizzati.

Bibliografia

Bush T.,​​ Theories of educational management,​​ London, Routledge and Kegan, 1986; Sheive L. T. - M. B. Schonheit (Edd.),​​ Leadership. Examining the elusive,​​ Alexandria (Virg.), Association for Supervision and Curriculum Development, 1987; Smyth J. (Ed.),​​ Critical perspectives on educational leadership,​​ London, The Falmer Press, 1989; Dalle Fratte G. (Ed.),​​ Autonomia risorsa della scuola,​​ Milano, Angeli, 1991; Scurati C. - A. Ceriani,​​ La dirigenza scolastica.​​ Vicende sviluppi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1994; Romei P.,​​ Autonomia e progettualità, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1995; Susi F. (Ed.),​​ Il leader educativo, Roma, Armando, 2000; Sergiovanni T. J.,​​ Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; Artini A.,​​ I leader educativi, Milano, Angeli, 2004.

C. Scurati

DIRITTI DEI MINORI​​ ​​ Minori




DIRITTI UMANI

 

DIRITTI UMANI

Indicano le​​ esigenze fondamentali della persona​​ che vanno soddisfatte per assicurare una realizzazione adeguata di ciascuno nella globalità delle sue dimensioni materiali e spirituali.

1.​​ Il fondamento e i contenuti.​​ I d.u. rappresentano un​​ dato ontico​​ che trova nella dignità della persona la fonte ultima: di conseguenza, essi precedono la legge scritta, che può soltanto riconoscerli e non invece crearli. Nella dottrina giuridica attuale, questa posizione giusnaturalista sembra sopravanzare sia l’interpretazione contrattualistica, che fonda i d.u. su un patto intervenuto tra i gruppi sociali e quindi destinato a cambiare in base ai rapporti di forza reciproci, sia la spiegazione positiva dell’autolimitazione dello Stato sovrano che, pertanto, concederebbe i d.u. e non li riconoscerebbe in quanto preesistenti. Il medesimo orientamento è adottato più o meno esplicitamente anche dalle​​ ​​ organizzazioni internazionali, tra cui vanno segnalate a livello mondiale le Nazioni Unite e sul piano regionale il Consiglio d’Europa. In seguito all’esperienza delle dittature e delle barbarie perpetrate soprattutto nell’ultimo conflitto mondiale, il processo di​​ internazionalizzazione​​ dei d.u. ha trovato un sbocco solenne con l’adozione, il 10 dicembre del 1948, della Dichiarazione universale ad opera dell’Assemblea generale dell’ONU. Il passaggio dalla condizione di pura raccomandazione a norma giuridica vincolante si è successivamente compiuto con l’entrata in vigore nel 1976 di due Convenzioni, o Patti internazionali, rispettivamente sui d. civili e politici e sui d. economici, sociali e culturali. Tra i d.​​ finora riconosciuti​​ a livello internazionale, una prima categoria è costituita da quelli civili e politici, i cosiddetti d.u. della «prima generazione». Sono stati infatti i primi ad essere sanciti sul piano interno a partire dalla seconda metà del sec. XVIII e sono denominati d. «negativi», in quanto fanno divieto all’autorità pubblica di ingerirsi nell’ambito di libertà della persona: si tratta dei d. alla vita, all’identità personale, alla riservatezza, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, al voto libero e segreto, alla libertà associativa, alle garanzie processuali. La seconda categoria consiste nei d. economici, sociali e culturali o d.u. della «seconda generazione»: vengono anche chiamati d. positivi, in quanto l’autorità pubblica è tenuta a porre in essere interventi specifici per la loro realizzazione, e il loro riconoscimento sul piano statuale è iniziato nella seconda metà del sec. XIX. Di questo gruppo vanno ricordati in particolare i d. all’alimentazione, alla casa, all’educazione, al lavoro, alla salute, all’assistenza. A livello internazionale la prima categoria gode di una tutela più forte rispetto alla seconda. Recentemente si parla anche di d.u. della «terza generazione» o di solidarietà come il d. alla pace, a un ambiente sano, allo sviluppo: su questi il dibattito è ancora aperto, anche se si sta progredendo verso il loro riconoscimento internazionale.

2.​​ L’educazione ai d.u.​​ Sotto la spinta del processo di internazionalizzazione appena descritto ha preso​​ l’avvio​​ anche l’ educazione ai d.u. Infatti, «La comprensione e l’esperienza vissuta dei d. dell’uomo sono, per i giovani, un elemento importante della preparazione alla vita in una società democratica e pluralista» (Council of Europe, 1985, 2). L’elaborazione della disciplina sul piano curricolare ha portato a identificarne gli​​ obiettivi.​​ Tra l’altro, vengono indicati i seguenti: conoscenza degli sviluppi storici relativi ai d.u.; conoscenza delle dichiarazioni, convenzioni e patti contemporanei; conoscenza di alcune delle maggiori violazioni dei d.u.; comprensione della distinzione tra d. politici / legali e sociali / economici, dei concetti di base e delle relazioni tra individui, gruppi e d. nazionali; valutazione critica dei propri pregiudizi e sviluppo degli atteggiamenti di tolleranza; apprezzamento dei d. degli altri; simpatia per coloro a cui sono negati i d.; abilità intellettuali; abilità operative. Passando poi ai​​ contenuti,​​ va anzitutto richiamato un criterio organizzatore fondamentale: l’educazione ai d.u. andrà strutturata in modo da tener conto dell’età dell’allievo, delle sue condizioni e delle situazioni particolari delle scuole e del sistema educativo. Gli argomenti possono essere articolati in quattro gruppi: le principali categorie di d., doveri, obbligazioni e responsabilità dell’uomo; le diverse forme di ingiustizia, diseguaglianza e discriminazione; le personalità, i movimenti e i grandi eventi che nella storia hanno contrassegnato la lotta costante a favore dei d. dell’uomo; le principali dichiarazioni e convenzioni internazionali. La​​ didattica​​ di questa disciplina mantiene la lezione tradizionale, purché si ispiri alle migliori pratiche: essa deve riuscire a trasmettere le informazioni essenziali, a spiegare i concetti in modo comprensibile e a stimolare gli studenti a porre domande. Al tempo stesso bisognerà utilizzare altri metodi quali: la discussione di gruppo, i progetti di ricerca, la drammatizzazione e il «role-play», i giochi e le simulazioni e la partecipazione ad attività pratiche. Il coronamento di queste metodologie è costituito dalla realizzazione della «scuola dei d.u.», cioè di una scuola il cui clima sia propizio per l’apprendimento dei d.u. Nonostante gli sviluppi accennati, rimane il problema di trovare​​ una collocazione​​ per l’educazione ai d.u. all’interno del​​ ​​ curricolo. Infatti, i programmi d’insegnamento sono già sovraccarichi di contenuti e molte aree di nuove conoscenze, finora escluse dalla scuola, sono in lista di attesa. In generale si cerca di risolvere il problema con un compromesso: non una nuova materia separata, ma una dimensione dell’​​ ​​ educazione socio-politica, in particolare dell’educazione alla cittadinanza democratica. Altre difficoltà riguardano la delimitazione di un minimo di saperi ammessi da tutti, che è continuamente rimessa in discussione. Quanto ai metodi, si constata un’oscillazione continua tra la lezione di morale, la descrizione di organigrammi astratti dei processi politici e sociali e il ricorso alla ricerca. Riguardo poi alla valutazione, è certamente possibile introdurre esami e votazioni, ma la loro importanza è molto relativa per una disciplina che intende fornire conoscenze rilevanti per la vita. Da ultimo, lo scopo ricercato è quello di un influsso sull’agire delle persone, cioè sul modo di vivere con gli altri e con la società, ma una tale proposizione costituisce un problema per una parte notevole degli insegnanti che è legata a una concezione sbagliata della laicità della scuola, intesa come neutralità.

Bibliografia

Council of Europe,​​ Recommendation No. R (85) 7 of the Committee of Ministers to member States on teaching and learning about human rights in schools,​​ 14 May 1985; Papisca A., «D.u.», in E. Berti - G. Campanini (Edd.),​​ Dizionario delle idee politiche,​​ Roma, AVE, 1993, 189-199; Marino M.,​​ Per una pedagogia dei d.u., Roma, Anicia, 2003; Brander P. - R. Gomes - E. Keen,​​ Compass.​​ Manuale per l’educazione ai d.u. con i giovani, Roma, Sapere 2000, 2004; Di Pol Redi S.,​​ Educazione e d.u., Torino, Marco Valerio, 2004; Gramigna A. - M. Righetti,​​ D.u. Interventi formativi nel sociale, Pisa, ETS, 2005; Cassese A.,​​ I d.u. oggi, Bari, Laterza, 2006.

G. Malizia




DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

 

DIRITTO ALL’EDUCAZIONE

In senso giuridico l’espressione d.a.e. definisce l’insieme delle prestazioni che assicurano il raggiungimento di un risultato, l’istruzione, mentre da un punto di vista​​ pedagogico​​ si riferisce al complesso delle misure rivolte a garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita.

1.​​ La riflessione pedagogica. Gli anni ’80 hanno segnato l’allargamento del d.a.e., caratterizzato fino ad allora prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità; tale estensione ha portato a comprendere anche gli aspetti della qualità, della differenziazione e della personalizzazione. Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti alla scuola e l’eguaglianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il​​ d. a un’educazione di qualità.​​ Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare​​ eguaglianza e diversità,​​ tutela ed eccellenza. Un altro orientamento è consistito nel potenziare la​​ partecipazione alla gestione delle strutture​​ formative perché la riduzione e l’eliminazione delle diseguaglianze di opportunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che soffrono direttamente dell’impatto delle disparità. Il concetto di d.a.e. mentre si è esteso e diversificato sul piano dei contenuti, ha dato vita in riferimento ai​​ soggetti​​ tutelati a principi autonomi. In proposito si possono ricordare quello dell’eguaglianza fra i due sessi;​​ l’​​ ​​ educazione interculturale che consiste nella messa in rapporto delle culture, nella comunicazione reciproca, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimilazione;​​ l’integrazione dei disabili​​ nella scuola ordinaria, che significa rispondere ai bisogni di tutti gli alunni e di ciascuno, dare risposte differenziate perché gli alunni sono diversi e fornirle all’interno della scuola ordinaria. Comunque, il cambiamento più profondo sul piano pedagogico consiste nell’accettazione mondiale della strategia dell’​​ ​​ educazione permanente​​ come idea madre delle politiche educative del futuro: essa significa garantire l’educazione di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita.

2.​​ I risvolti giuridici e politici.​​ L’assistenza scolastica è stata introdotta formalmente in Italia con la legge Daneo-Credaro del 1911, che stabilì l’obbligo di istituire in ogni comune un Patronato scolastico con il compito di assicurare l’iscrizione e la frequenza degli alunni nella scuola. Nel 1924 sono state create presso ogni istituto secondario le casse scolastiche per garantire l’assistenza a tale livello del sistema formativo. A sua volta, l’​​ ​​ obbligo d’istruzione era stato stabilito precedentemente con la legge Casati (1859), ma la normativa è rimasta ampiamente disattesa. Con la Costituzione repubblicana viene compiuto un​​ salto di qualità.​​ Infatti, l’art. 34 stabilisce l’apertura della scuola a tutti, l’obbligo di istruzione, la gratuità dell’istruzione, il d. dei capaci e dei meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti di studi; soprattutto, la nostra Carta fondamentale concepisce la scuola come uno strumento di rinnovamento culturale e di eguaglianza sociale. In altre parole, la Costituzione ha sancito il d. all’istruzione come un vero e proprio​​ d. soggettivo pubblico​​ di prestazione che comporta per la pubblica amministrazione un obbligo positivo a fare. La Costituzione ha anche attribuito alle​​ Regioni​​ la competenza sull’assistenza scolastica. Il relativo trasferimento delle funzioni come anche il decentramento ai Comuni sono stati realizzati durante gli anni ’70. Lo sbocco finale è rappresentato dalla L. 53 / 03 che all’art. 2., co. 1, lettera c) assicura a tutti «il d. all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età» nel quadro della promozione dell’«apprendimento in tutto l’arco della vita» – art. 2., co. 1, lettera a). Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del​​ D. Lgs. 76 / 05​​ che definisce la norme generali sul d.-dovere all’istruzione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come d. all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un d. soggettivo sia un dovere sociale. I giovani incominciano a beneficiare concretamente del d.-dovere con l’iscrizione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce almeno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del d.-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. Il nuovo governo di centro-sinistra ha deciso di innalzare di due anni l’obbligo di istruzione (cfr. comma 626 della L. 296 / 06) perché sarebbero necessari per rafforzare ed elevare le competenze di base e per effettuare le scelte di indirizzo e di percorso con una maggiore consapevolezza. Nonostante l’intenzione certamente positiva, nel confronto tra obbligo di istruzione e d.-dovere di istruzione e di formazione mi sembra che vada preferita senz’altro la seconda impostazione perché l’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi che uno Stato benevolo e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi, mentre il d.-dovere rinvia alla consapevolezza dei cittadini circa la loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione.

Bibliografia

Pototschnig U., «Istruzione (d. alla)», in​​ Enciclopedia del d.,​​ vol. XXIII, Milano, Giuffré, 1973, 96-116;​​ Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D. M. n. 672 del 18 luglio 2001, in «Annali dell’Istruzione» 47 (2001) 1 / 2, 3-176; Montemarano A.,​​ Dall’obbligo scolastico e formativo al d.-dovere all’istruzione e formazione, in «Rassegna CNOS» 21 (2005) 3, 110-116; Malizia G., «La legge 53 / 2003 nel quadro della storia della riforma scolastica in Italia», in R. Franchini - R. Cerri (Edd.),​​ Per​​ una istruzione e formazione professionale di eccellenza, Milano, Angeli, 2005, pp. 42-63;​​ Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura,​​ Scienza e Istruzione​​ (29 giugno 2006), Roma, 2006; Romei P.,​​ D.-dovere all’istruzione e alla formazione: qualche considerazione, in «Dirigenti Scuola» 24 (2005) 4, 20-26.

G. Malizia




DISAGIO

 

DISAGIO

Il termine d. riferito al contesto sociale è di recente utilizzo, in quanto in sociologia si preferisce adottare i termini più specifici di​​ disadattamento,​​ ​​ devianza,​​ ​​ emarginazione​​ con i quali si intende, in modo diverso, uno stato soggettivo e / o oggettivo di mancata integrazione nel tessuto sociale.

1. Il d. è in genere una difficoltà ad adattarsi ad un ambiente o a delle situazioni. Più specificamente il​​ d. evolutivo​​ si presenta come una normale e superabile difficoltà che accompagna la crescita soprattutto nel momento adolescenziale e può essere definito come «la manifestazione presso le nuove generazioni della difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità personale e per l’acquisto delle abilità necessarie alla soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane» (Neresini-Ranci, 1992, 31). Esso si trasforma in disadattamento quando il malessere diventa diffuso e si esprime come una difficoltà momentanea a rispondere positivamente ai compiti evolutivi propri dell’età soprattutto in termini di relazione con gli altri e di integrazione nel tessuto sociale. Se questo stato perdura può diventare devianza e marginalità sociale oppure, su un altro versante, può entrare in meccanismi di d. psichico profondo. A livello evolutivo il d. è visto come una categoria trasversale, quasi fenomeno fisiologico, che accompagna il ragazzo nella sua crescita e che è legato con la categoria del​​ rischio.

2.​​ Oggi, nella nostra società complessa ed altamente differenziata con maggior facilità il d. evolutivo può degenerare in​​ d. sociale.​​ Questo capita quando i fattori di malessere individuale sono molteplici e vengono assommati a fattori esterni conseguenti per es. a marginalità sociale. Spesso questa inadeguatezza del giovane a inserirsi in un determinato contesto sociale viene attribuita non solo a fattori interni al soggetto, ma soprattutto ad una generalizzata incapacità del mondo adulto a riconoscere le sue esigenze ed il suo bisogno di realizzazione. «Le espressioni di questa inadeguatezza si distribuiscono lungo l’asse privato-pubblico, con specifiche accentuazioni tematiche: l’abbandono familiare, l’incomunicabilità, l’inutilizzazione, il mantenimento di una dipendenza forzata, la mediocrità della risposta, il giovanilismo ad oltranza, la deresponsabilizzazione, il calcolo e il non riconoscimento, la dispersione delle risorse» (Milanesi, 1989, 130). L’​​ ​​ educazione può entrare a sostegno del giovane come abilitazione a leggere criticamente la propria esperienza ed a progettarla nella prospettiva del valore e del significato della propria esistenza, tenendo conto criticamente delle esigenze della società.

Bibliografia

Butturini E.,​​ D. giovanile e impegno educativo,​​ Brescia, La Scuola, 1985; Milanesi G. C.,​​ I​​ giovani nella società complessa: una lettura educativa della condizione giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1989; Neresini F. - C. Ranci,​​ D. giovanile e politiche sociali,​​ Roma, NIS, 1992; Speltini G. (Ed.),​​ Minori,​​ d. e aiuto psicosociale, Bologna, Il Mulino, 2005; Calvanese E.,​​ La reazione sociale alla devianza: adolescenza tra droga e sessualità,​​ immigrazione e giustizialismo, Milano, Angeli, 2005; Mancini G.,​​ L’intervento sul d. scolastico in adolescenza, Ibid., 2006.

L. Ferraroli




DISCALCULIA

 

DISCALCULIA

Disturbo o difficoltà nell’apprendimento delle abilità di calcolo aritmetico e, più in generale, disturbo o difficoltà nell’acquisizione delle conoscenze matematiche, che si riscontra in soggetti per altri versi in grado di imparare validamente a scuola. Le forme più diffuse di d. riguardano il calcolo scritto.

1. L’origine di questi disturbi può essere riscontrata a vari livelli: a) nella difficoltà di astrazione, il bambino non riesce a trattare i numeri indipendentemente dal loro significato concreto; b) nei procedimenti errati, in quanto sono state automatizzate procedure inadeguate di calcolo; c) in una resistenza psicologica al trattare i numeri e le operazioni per iscritto; d) in altri disturbi più generali come 1’​​ ​​ iperattività.

2. Quanto al trattamento, è necessario in primo luogo diagnosticare per quanto possibile l’origine delle difficoltà riscontrate. In base a tale diagnosi si può progettare una terapia opportuna. Nel caso, assai frequente, di procedure errate di calcolo già automatizzate, non basta spiegare le ragioni dell’errore e indicare la procedura giusta. Occorre fornire strumenti di controllo dell’errore o degli errori. Generalmente si fa imparare in forma dichiarativa verbale la procedura corretta e si sollecita un uso sistematico di questa come strumento di controllo dell’esecuzione dell’operazione. Eventualmente si può fornire tale procedura verbale per iscritto e sollecitare il suo uso ogni volta che si deve eseguire un’operazione di quel tipo. Per quanto riguarda difficoltà di astrazione, occorrerà agire a questo livello, impostando opportuni programmi di educazione alla rappresentazione astratta di una pluralità di situazioni concrete. Se si tratta di difficoltà di ordine psicologico più complesso, occorrerà ricorrere alla consulenza di uno psicologo specializzato nel settore.

Bibliografia

Gaddes W. H.,​​ Learning disabilities and brain function.​​ A neuropsychological approach,​​ New York, Springer,​​ 21985; Cornoldi C. (Ed.),​​ I disturbi dell’apprendimento,​​ Bologna, Il Mulino, 1991; Reid D. K. - W. P. Hresko - H. L. Swanson,​​ A cognitive approach to learning disabilities,​​ Austin, Pro-Ed.,​​ 21991; McCarthy R. A. - E. K. Warrington,​​ Neuropsicologia cognitiva,​​ Milano, Cortina, 1992; Brodini M.,​​ Le difficoltà di apprendimento, Tirrenia, Edizioni del Cerro, 1998; Zan R.,​​ Difficoltà in matematica, Milano, Springer, 2007.

M. Pellerey




DISCERNIMENTO

 

DISCERNIMENTO

Termine proprio della teologia biblica e spirituale (dal lat.​​ dis-cerno:​​ ponderare, separare, decidere), ma che indica un’esperienza tipicamente umana.

1. Il d. è una riflessione critica sull’essere e agire umani culminante in una decisione.​​ Punto di riferimento​​ del d. sono le convinzioni e gli ideali personali; suo​​ oggetto​​ sono azioni e motivazioni, atteggiamenti mentali e affettivi (consci e inconsci) dell’individuo di fronte a situazioni problematiche e provocanti, dinanzi a se stessi, agli altri e a Dio, circa la propria vita. Si tratta di un’operazione complessa, non spontanea; articolata, non immediata; individuale o comunitaria, ma sempre aperta al confronto. Per questo è necessaria un’educazione al d., specie in prospettiva vocazionale.

2. Tale educazione comporta l’attenzione ad alcune operazioni tipiche del modello operativo dell’intelligenza e del processo decisionale (Lonergan, 1975): a)​​ Percezione esperienziale:​​ è il momento della raccolta dei dati, e dunque anche della formazione​​ all’attenzione,​​ per poter percepire quanto, in sé e fuori di sé, è connesso con l’oggetto del d. (attrazioni, repulsioni, memoria affettiva, segni dei tempi ecc). b)​​ Comprensione intuitiva:​​ in questa fase avviene un’interpretazione immediata e istintiva dei dati d’esperienza, gestita in buona parte dall’emozione; se ad essa facesse seguito l’azione, sarebbe un’azione impulsiva, che non tiene granché conto del reale né dell’ideale. Sarà necessario, allora, educare a tener sotto controllo quest’emozione e, in genere, quelle emozioni legate alle proprie inconsistenze che tendono a ridurre il campo percettivo-interpretativo condizionando il d. c)​​ Giudizio:​​ l’intuizione emotiva è valutata alla luce dei valori; s’estende così lo spazio ideale e s’arricchiscono i criteri in base a cui giudicare ciò che è bene per il soggetto. Tale fase è gestita soprattutto dalla mente pensante, ma progressivamente anche il cuore dovrebbe lasciarsi attrarre dalla bellezza e verità del bene. Si tratterà proprio di educare l’emozione a questo tipo d’attrazione libera e liberante. d)​​ Decisione:​​ il momento di decidersi giunge, idealmente, quando giudizio riflessivo ed emozione del cuore convergono. Ne deriverà un’azione tipicamente umana perché espressione d’una partecipazione «totale» di cuore, mente, volontà. Si tratta di un d. che, nel caso del credente, diviene coraggio di scegliere «ciò che è buono, a Dio gradito e perfetto» (Rm 12,2).

Bibliografia

Lonergan B.,​​ Il​​ metodo in teologia,​​ Brescia, Queriniana, 1975; Rulla L. M.,​​ The discernment of spirits and Christian anthropology,​​ in «Gregorianum» 59 (1978) 537-569; Rupnik M. I.,​​ Il d.,​​ 1: verso il gusto di Dio,​​ Roma, Lipa, 2001; Id.,​​ Il d.,​​ 2: come rimanere in Cristo,​​ Ibid, 2002; Martini C. M.,​​ Il conflitto di interpretazioni nel d.,​​ in «Tre Dimensioni» 2 (2006) 124-129; O’ Leary B.,​​ Pietro Favre e il d. spirituale,​​ Roma, AdP, 2006.

A. Cencini




DISCIPLINA

 

DISCIPLINA

Si può dire che la polisemicità del termine, come rilevò già​​ ​​ Comenio, è presente nelle sue origini e uso latini (disciplina:​​ istruzione-ammaestramento, metodo-arte, materia scolastica). Oltre a quello di specifico ambito scientifico, in pedagogia i significati più comuni sono quello di materia scolastica (​​ discipline), di insieme di mezzi, norme e metodi cui adeguarsi per raggiungere determinati obiettivi, e, come effetto del precedente, quello di modo di comportarsi, secondo regole imposte o accettate.

1. Qui interessano gli ultimi due, prevalenti nelle lingue straniere; storicamente (prescindendo dal significato ascetico di penitenza corporale) il concetto di d. è stato collegato, in particolare, alla vita scolastica, che richiedeva, con frequenza, il ricorso a​​ ​​ premi e​​ ​​ castighi, regolati, più recentemente, da disposizioni di legge, per ottenere o mantenere coattivamente un ordine esterno, con cui, spesso, la si è identificata. Si può dunque parlare di un suo versante​​ oggettivo,​​ nel primo dei due sensi in questione (meno interessante educativamente), e di uno​​ soggettivo,​​ nell’altro. Sotto il profilo pedagogico, un’attenzione alla d. è presente fin dall’antichità presso gli autori più significativi, in un senso che privilegia le modalità da seguire, da parte degli educatori, per raggiungere determinati obiettivi, non limitati all’apprendere, ma da estendere prioritariamente al campo morale, in cui si colloca il significato soggettivo della d., che così fuoriesce dagli angusti confini della scuola. Fine della d. non è dunque un ordine esterno, per lo più imposto, bensì un perfezionamento del soggetto. In questa linea, più e meno esplicitamente, si sono mossi i classici della pedagogia, da Comenio, che alla d. dà molta attenzione, a​​ ​​ Locke, a​​ ​​ Herbart, alle​​ ​​ Scuole Nuove e ai pedagogisti contemporanei. Nessuno di loro tralascia l’istanza di un ordine esterno, ma non lo enfatizzano e, comunque, lo iscrivono, almeno a partire dal sec. XIX, all’interno del rapporto tra​​ ​​ autorità e​​ ​​ libertà, inteso in senso ampio, anche sociale e familiare, proprio per preservarne l’educatività.

2. Nel discorso sulla d. vanno richiamate le differenze di ruolo dei protagonisti (educatore, educando, ambiente) in rapporto ai due sensi suindicati e le principali letture che, dell’uno o dell’altro, sono state fatte. Anzitutto i mezzi, i metodi e norme, la dimensione oggettiva della d., sono scelti e decisi solitamente, dall’autorità, che, a volte, si identifica con l’educatore, a volte con governanti (donde le conseguenze giuridiche) o, infine, con tradizioni e costumi locali. In questi casi per l’educando, il tutto sa di imposizione e, facilmente, dà luogo a un rigetto. Quanto all’aspetto soggettivo, cioè al modo di comportarsi, esso dipende, solidalmente, sia dall’autorità che dalla libertà. Dalla prima, perché vi influisce più e meno pesantemente (con le paure che può ingenerare, con l’imposizione, con l’esempio, con ragionamenti...); dalla seconda, in quanto l’interiorizzazione o meno delle norme è una scelta del soggetto, in base a motivazioni. Questi richiami, sul piano dell’educazione, fanno spazio ad altre due letture del fenomeno d., oltre a quella pedagogica: la psicologica e la sociologica. a) La lettura​​ psicologica,​​ che intende interpretarne il senso soprattutto in rapporto al soggetto-educando, è molteplice e variegata, secondo le differenti scuole psicologiche. Quelle di taglio psicoanalitico, specie freudiano, danno una lettura della d. piuttosto negativa, in quanto considerata come ordine esterno, sia pure interiorizzato. Quelle, invece, di tipo umanistico o analoghe, sono più ben disposte verso la d., almeno nel caso di un’assimilazione soggettivamente voluta, tenuto conto di una previa valutazione dei contenuti. b) La lettura​​ sociologica,​​ a sua volta, è pure differenziata secondo le scuole e gli orientamenti di fondo delle singole posizioni: da coloro che esaltano il ruolo delle società, tanto da vedere il singolo strettamente dipendente e come costretto da quelle (N. Elias, per es.); a coloro che, enfatizzando la funzione sociale della stessa educazione, vedono nella d. il «primo elemento della moralità», pur senza trascurarne la valenza e funzione sociale (​​ Durkheim, per es.).

3. Per concludere ancora in​​ chiave pedagogica,​​ è utile un richiamo alla​​ gradualità​​ della d., nelle sue manifestazioni, come nella sua acquisizione, e all’esercizio.​​ Sotto il profilo operativo sono da privilegiare l’osservazione, l’esempio e l’imitazione, il tentativo e la sua ripetizione, la responsabilizzazione, la motivazione, il controllo (esterno e personale) e la correzione. Alla d. va fatto ricorso con sensibilità e criterio, secondo i momenti, i soggetti e le circostanze, cercando di superare l’insensata contrapposizione tra il permissivismo e l’autoritarismo, che pure, nel corso della storia, hanno avuto rappresentanti e sostenitori risoluti, ancora nel sec. scorso.

Bibliografia

a)​​ Classici:​​ Herbart J. F.,​​ Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1997; Id.,​​ Compendio di lezioni di pedagogia,​​ Roma, Armando 1971; Komensky (Comenio) J. A.,​​ Novissima linguarum methodus,​​ in Id.,​​ Opera omnia,​​ vol. 15-II, Praga, Academia, 1989; Id.,​​ Grande didattica,​​ Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1993. b)​​ Studi:​​ Seccet-Riou F.,​​ La discipline et l’éducation. Du dressage à l’autonomie,​​ Paris, Bourrellier, 1946; Durkheim É.,​​ L’éducation morale,​​ Paris, PUF, 1963;​​ Chamberlin L. J.,​​ Discipline: the managerial approach,​​ St. Louis, Torchlite, 1980; Elias N.,​​ La civiltà delle buone maniere,​​ Bologna, Il Mulino, 1982; Vico G.,​​ Educazione morale e pedagogia attivistica,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1983; Scurati C. (Ed.),​​ La d. nella scuola. Problemi e prospettive,​​ Brescia, La Scuola, 1987.

B. A. Bellerate




DISCIPLINE

 

DISCIPLINE

Contenuti di insegnamento organizzati sulla base dei campi di sapere di riferimento tenendo conto del livello scolastico e di maturità culturale dei destinatari. Letteralmente d. evoca i termini lat.​​ disco​​ (imparo) e​​ discipulus​​ (uno che impara, prende da un altro); ma l’uso fa riferimento anche allo sviluppo di capacità di gestione del pensiero, dell’​​ ​​ apprendimento in determinati campi del sapere e persino di padronanza del comportamento, della condotta morale e della vita personale.

1.​​ La trasposizione didattica.​​ È il processo di trasformazione operato da e in una istituzione che porta dai contenuti del sapere di riferimento, ad es. il sapere matematico, ai contenuti del sapere da insegnare, ad es. i programmi scolastici di​​ ​​ matematica, e da questi ai contenuti effettivamente insegnati, ad es. la​​ ​​ programmazione didattica di un corso di matematica. Il primo passaggio avviene in Italia in seno al Ministero della Pubblica Istruzione quando, attraverso il lavoro di commissioni ministeriali costituite a questo scopo, vengono definiti i contenuti di insegnamento per i vari ordini e gradi scolastici e la loro organizzazione interna. Dal confronto tra le posizioni degli specialisti universitari, depositari del sapere di riferimento, e quelle dei rappresentanti dell’istituzione scolastica (ispettori scolastici, presidi, direttori, insegnanti), vengono definiti in concreto le d. da insegnare e i loro contenuti. Il secondo passaggio avviene in seno alla singola scuola su proposta dei docenti delle varie d. ed è convalidato dal Collegio dei docenti. Si tratta di quella che è definita programmazione didattica. Sulla base dei​​ ​​ programmi scolastici ufficiali viene elaborato il piano di lavoro per l’anno scolastico in corso, selezionando e ordinando nella loro successione temporale i differenti contenuti, identificando gli obiettivi da raggiungere, i metodi di insegnamento e i modi di​​ ​​ valutazione. Si ha, infine, un ulteriore passaggio: il docente predispone situazioni didattiche concrete in cui gli allievi possano acquisire in maniera significativa e stabile le conoscenze proposte. Questa trasformazione è stata talora definita un’opera di «ingegneria didattica». D’altro canto, nell’attuazione del progetto di​​ ​​ lezione o di unità d’apprendimento entrano in gioco altri fattori trasformativi, come il sistema di relazioni interpersonali instaurato, il clima e l’ordine presente nella classe, lo stato motivazionale dell’insegnante e degli allievi.

2.​​ La vigilanza epistemologica.​​ La trasposizione didattica implica una trasformazione del sapere che comporta una sua istituzionalizzazione. Si tratta di un’operazione squisitamente «politica»: di qui il problema della sua legittimazione. In altre parole il sapere di riferimento subisce una duplice modificazione che può provocare un allontanamento non indifferente dal suo status epistemologico. Per evitare che questo porti a un suo travisamento occorre che a tutti i livelli venga messa in atto una costante vigilanza epistemologica, cioè un’azione continua di controllo della correttezza e sostanziale conformità di quanto proposto per l’insegnamento e di quanto elaborato dalla comunità scientifica. Ciò indica però anche l’apparizione sistematica di uno scarto tra sapere insegnato e i riferimenti culturali che lo legittimano, scarto dovuto ai vincoli che pesano sul funzionamento di un sistema di insegnamento (Arsac, 1992).

3.​​ La struttura delle d.​​ J. S. Bruner (1964, 1971) ha proposto un’idea di​​ ​​ curricolo basato sulle strutture portanti delle varie d. Il curriculum di una d. dovrebbe essere determinato dalla più essenziale comprensione possibile dei princìpi basilari che sorreggono la d. stessa. Ogni contenuto ha poi una sua struttura, coerenza, bellezza. Questa struttura è ciò che conferisce all’argomento la sua fondamentale semplicità, ed è apprendendo la sua natura che riusciamo ad afferrare il significato essenziale dell’argomento stesso. La struttura di una d., d’altra parte, è data dai suoi concetti chiave e dai suoi princìpi organizzatori, che, come tali, permettono d’inquadrare i vari dati dell’esperienza e le varie conoscenze in un quadro organico. In realtà sono proprio tali concetti e tali princìpi che consentono da una parte la comprensione della materia scolastica, dall’altra una sua ulteriore espansione. Inoltre sta proprio nell’acquisizione più per strutture, che per elementi isolati, la radice della possibilità di un’efficace ritenzione e di un valido transfer. Il concetto di struttura è stato visto da Bruner anche come organizzazione cognitiva, come mezzo per andare oltre l’informazione, per ritenere i dati nella memoria e per trasferire abilità apprese a situazioni nuove: è il principio secondo cui si apprende, si ritiene e si generalizza meglio il materiale che presenta un’organizzazione interna. Da tutto questo deriva che le d. possono e debbono essere considerate come insiemi strutturati di conoscenze, abilità che possiedono al loro interno, e anche in riferimento alla realtà esterna, sistemi di relazioni e di connessioni; questi insiemi strutturati formano le d. o campi di conoscenza. Tuttavia, occorre evitare di considerare questi insiemi come architetture statiche e cristallizzate. Di ogni insieme di concetti e di abilità può essere fornita più di una organizzazione sistematica, anche in settori che sembrano i più refrattari a questo pluralismo, come la matematica. Inoltre ogni campo della conoscenza è un organismo vivo e vitale, che cresce sia a causa di nuove conquiste, sia mediante una più profonda autocomprensione, cioè cogliendo meglio la propria identità. In una prospettiva sociologica si potrebbe affermare anche che le d. sono in realtà i gruppi di studiosi che si dedicano alla ricerca e alla sistemazione culturale in quei particolari settori.

Bibliografia

Bruner J. S.,​​ Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture,​​ Roma, Armando, 1964; Id.,​​ Verso una teoria dell’istruzione,​​ Ibid., 1971; Ausubel D. P.,​​ Educazione e processi cognitivi,​​ Milano, Angeli, 1978;​​ Arsac G.,​​ L’évolution d’une théorie en didactique: l’exemple de la transposition didactique,​​ in «Recherches en Didactique des Mathématiques»​​ 12 (1992) 1, 7-32; Damiano E.,​​ L’azione didattica: per una teoria dell’insegnamento,​​ Roma, Armando, 1993; Pellerey M.,​​ Progettazione didattica,​​ Torino, SEI,​​ 21994; Gardner H.,​​ Sapere per comprendere. D. di studio e d. della mente, Milano, Feltrinelli, 2001; Monasta A.,​​ Organizzazione del sapere,​​ d. e competenze, Milano, Carocci, 2002.

M. Pellerey




DISCUSSIONE

 

DISCUSSIONE

La d. come mezzo per chiarificare un contenuto o manifestare le proprie opinioni ha trovato un’accoglienza in tutte le società con ideali democratici e pluralistici.

1.​​ Gli obiettivi educativi della d.​​ Gli obiettivi di un metodo d’insegnamento come la d. sono essenzialmente tre: a) rafforzare l’apprendimento; b) promuovere le abilità sociali necessarie per vivere in una società democratica; c) lo sviluppo del giudizio etico. Le ragioni dell’efficacia della d. dipendono dal fatto che si tratta di una situazione che comporta l’uso e il ricupero delle conoscenze previe, il possesso della terminologia, la capacità di sintesi e l’organizzazione macrosemantica dei contenuti, la capacità di stabilire connessioni tra conoscenze interne ai contenuti e tra queste e altre conoscenze esterne già possedute. La d. può anche esigere creatività o pensiero critico; in essa inoltre può essere necessario o stimolante vedere le conseguenze che possono derivare da certi principi o da certe assunzioni, oppure trovarvi applicazioni. In altri casi la d. può essere portata a cercare le assunzioni, i limiti e il confronto critico con altri valori, con altre assunzioni, con le ragioni che provano certe affermazioni, ecc. Oltre a migliorare le abilità cognitive, la d. può essere vista anche come procedimento valido a favorire lo sviluppo e l’integrazione del processo di​​ ​​ socializzazione delle generazioni più giovani. Sono molti oggi a ritenere che alla scuola non spetti più promuovere solo la componente cognitiva della personalità dei giovani, ma che ad essa debba essere affidato anche il compito di favorire la componente socio-relazionale per un inserimento significativo nella società attuale. Gli studenti sono educati al confronto delle idee senza paura o pregiudizi, alla dinamica dell’ascolto attivo degli altri, alla ricerca di soluzioni positive ai conflitti, ad apprezzare il contenuto logico di un’idea invece di avere un attaccamento cieco ed emozionale alle proprie «idee», ad assumere ruoli diversi. Un altro obiettivo significativo del metodo della d. è lo sviluppo del giudizio etico. Generalmente si ritiene che gli anni dell’​​ ​​ adolescenza e della giovinezza siano particolarmente critici per lo sviluppo del ragionamento etico nei​​ ​​ giovani. È questo infatti il periodo in cui essi cercano il senso e il valore delle cose e delle azioni, del pensiero e della vita, nel tentativo di dare un orientamento alla loro esistenza e un fondamento alle loro scelte. Nella d. su valori e orientamenti di vita è possibile giungere ad una valutazione critica dell’attendibilità o della profondità umana e sociale di atteggiamenti, comportamenti e scelte.

2.​​ Lo svolgimento della d.​​ Nella fase di preparazione della d. l’insegnante deve mettere in atto alcune «regole del gioco»: delimitare opportunamente l’argomento, tenere presenti alcune informazioni previe che possono essere molto utili, pianificare e classificare gli obiettivi del confronto, osservare che i partecipanti abbiano un minimo di abilità sociali e comunicative. Nella fase di svolgimento egli deve prestare attenzione a tre tipi d’interazioni tra i partecipanti che possono dar origine a tre forme o tipo di conduzione. Nella​​ d. diretta dall’insegnante,​​ è l’insegnante il punto di riferimento. La d., fortemente controllata da lui, segue lo stile di domanda-risposta. Nella​​ d. centrata sul gruppo,​​ ognuno si esprime liberamente con spirito di cooperazione e apprezzamento e con domande aperte. Qui l’insegnante resta fuori dal confronto ed è soltanto un osservatore. Nella​​ d. collaborativa,​​ il compito da realizzare costituisce l’obiettivo principale del gruppo. Tutti, compreso l’insegnante che si fa membro del gruppo, partecipano responsabilmente per trovare le soluzioni migliori ai problemi. Come nella fase iniziale della d. si definiscono gli orientamenti e i limiti entro i quali essa dovrà essere affrontata e svolta, così al termine si devono raccogliere in una sintesi i punti chiave generali. Il momento​​ successivo alla d.​​ costituisce la fase finale. Ogni d. deve essere rivista e valutata e il processo di valutazione deve essere considerato parte integrante della procedura. Il metodo della d. non è di difficile applicazione se l’insegnante saprà programmare uno sviluppo delle proprie competenze e di quelle degli allievi. Si richiede, però, l’obiettivo di risultati migliori da parte degli studenti, accompagnato da un atteggiamento riflessivo che aiuta a misurare continuamente la sua efficacia attraverso una costante valutazione.

Bibliografia

Wilen W. W. (Ed.),​​ Teaching and learning through discussion. The theory,​​ research and practice of the discussion method,​​ Springfield, Charles Thomas, 1990; Dillon J. T.,​​ Using discussion in classrooms,​​ Buckingham, Open University Press, 1994; Rabow J. et al.,​​ Learning through discussion,​​ Thousand Oaks, Sage,​​ 31994.

M. Comoglio