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COUNSELLING

 

COUNSELLING

C. proviene dall’ingl.​​ to counsell, in it.​​ consigliare​​ ed​​ è un termine che si utilizza nella lingua originale poiché è di difficile trad. a causa della complessità del mestiere e delle competenze significate. In Inghilterra, lo si scrive con due «l», negli USA con una.

1.​​ Natura.​​ Il c. è una relazione d’aiuto tra un​​ counsellor​​ e un utente in un processo pedagogico di breve durata con la finalità di sviluppare le potenzialità per la prevenzione-superamento di situazioni di disagio (a livello emozionale, sociale, educativo, culturale, valoriale, esistenziale, religioso, morale, vocazionale) che non comportino una ristrutturazione personale profonda con il ricorso alle tecniche del confronto intrapsichico e / o interpersonale. Il c. ha come oggetto proprio la conoscenza delle dinamiche personali, i problemi, le decisioni e le crisi personali o relazionali. Le sue finalità sono: assicurare all’utente uno spazio per riflettere; abilitarlo o riabilitarlo di fronte al problema; arricchire i suoi significati; scoprire nuove alternative per la sua vita personale, interpersonale, culturale e interculturale; sviluppare le risorse per una migliore qualità di vita personale e / o comune. Il c. si distingue da altre relazioni d’aiuto, specialmente dalla psicoterapia, caratterizzandosi come servizio a soggetti «sani». Questa nota specifica rende valido il c. per chi, facendo fatica ad andare dallo «psicologo» per non sentirsi «malato», può confidarsi con un​​ counsellor​​ come «bisognoso di ascolto» e non come «paziente». Il ruolo del​​ counsellor​​ è intermedio tra l’amico del cuore (non sempre disponibile) e lo psicologo (non sempre necessario).

2.​​ Il processo.​​ Il c.​​ è un processo intenzionale svolto in successivi colloqui che riassumono in sé lo spirito dell’intero percorso con il contributo di varie competenze specifiche. Dal​​ counsellor​​ si richiede una preparazione remota e immediata che privilegia l’accoglienza non giudicante e libera dall’ansia che il soggetto ispira. Nei suoi atteggiamenti egli dovrebbe andare dalla chiusura all’apertura, dal rifiuto all’accoglienza, dalla superiorità alla reciprocità, dal giudizio all’accettazione, dall’improvvisazione alla previsione, dalle incoerenze alla congruenza, dall’indifferenza all’empatia e al coinvolgimento. Da parte dell’utente, è necessaria l’identificazione delle motivazioni «vere» e della condizione di partenza riguardo al c. (accettazione o rifiuto, ammirazione o disprezzo, apertura o riluttanza, scelta personale o costrizione esterna). Il​​ counsellor,​​ dunque,​​ conduce il soggetto al maggior livello di coinvolgimento possibile attraverso una relazione fiduciosa costruita con domande di senso, rilettura del passato e rielaborazione della progettualità vissuta ma non sempre riflessa. Nella prima fase il​​ counsellor​​ deve facilitare la creazione di un’alleanza per la ricerca della verità. Poi egli rileva i dati essenziali dell’utente, l’interazione iniziale, il problema e i tentativi di soluzione nei termini del soggetto, le sue risorse e l’impressione generale. È importante l’osservazione degli elementi verbali e non verbali (sguardo, sorriso, mimica, tono di voce) e la gestione della distanza e del movimento. Si devono determinare gli obiettivi dell’intervento in forma provvisoria, finché non si raggiunge una conoscenza migliore grazie all’intervento empatico. Infine, si devono comunicare le regole del c., normalmente espresse in un contratto. La seconda fase cerca l’identità personale e i nodi del problema. Nella terza fase si precisano gli obiettivi in termini positivi e verificabili e si progetta il cambiamento. La quarta fase consiste nell’applicazione responsabile del progetto. La verifica dei cambiamenti, quinta fase, chiude il processo; si devono analizzare anche il ritmo imposto e le strategie usate e si devono segnalare gli elementi positivi anche quando il soggetto abbia una visione pessimista di sé. Strumento essenziale del c. è l’ascolto attivo-riflessivo caratterizzato dall’attenzione al soggetto e dall’eliminazione degli ostacoli di ogni tipo. L’ascolto suppone anche la decodificazione dei messaggi e l’eliminazione degli atteggiamenti non facilitanti il​​ ​​ dialogo (valutazione, investigazione, sostegno consolatorio, facile soluzione e interpretazione), e l’assunzione dell’empatia, atteggiamento centrale del mestiere che si traduce nella riformulazione del messaggio, e si sostiene con l’incoraggiamento, il rispetto, la valorizzazione del positivo, la concretezza, l’immediatezza e l’autenticità, frutto dell’autoconsapevolezza e autorivelazione misurata del​​ counsellor. Servono anche le domande di delucidazione per l’esplorazione, il riassunto, la focalizzazione e una comunicazione diretta. Il​​ feed-back​​ deve essere descrittivo e non critico, specifico e non generico, sul comportamento e non sulla persona, responsabilizzante e non direttivo. Manifestazione avanzata dell’empatia sono la segnalazione delle incoerenze e dei punti di forza del soggetto e la misura del suo cambiamento. L’intervento applica anche tecniche di influenzamento (informazioni e consigli) come frutto dell’analisi realizzata insieme. Principi etici del c. sono il rispetto del segreto e della​​ privacy, il dominio delle competenze specifiche, la formazione permanente e la disponibilità alla supervisione, il rispetto dei confini della propria professionalità e dei valori dei suoi referenti.

3.​​ Diversi tipi di c.​​ Il c. può essere individuale o di gruppo, familiare o comunitario, e nei differenti contesti in cui si realizza richiede competenze specifiche. Perciò abbiamo diversi tipi di c.: scolastico, lavorativo, aziendale, sanitario, sportivo, filosofico, spirituale, pastorale e vocazionale. Secondo gli strumenti utilizzati abbiamo un c. telefonico o telematico. Secondo la scuola psicologica di riferimento, esistono altri tipi di c.: psicodinamico, cognitivo-comportamentale, umanistico-esistenziale, o secondo un modello integrato.

4.​​ Cenni storici. Il c. inizia con la rivoluzione industriale (1800) nel mondo anglosassone nel settore dell’educazione con programmi di orientamento scolastico e universitario. Nel 1913, nasce la​​ National Vocational Guidance Association, ma più avanti C. Rogers e la psicologia umanistica saranno i veri catalizzatori del c. Più tardi il c. sarà applicato alla riabilitazione, al lavoro, alla salute mentale e al settore militare. In Europa il c. si espande in Inghilterra, come servizio di orientamento pedagogico e di supporto socio-sanitario fatto dagli psicologi. A livello europeo sorgono la​​ British Association for C.​​ (1976) e l’European Association for C.​​ (1994). In Italia sorge la prima scuola femminile di «assistenti sociali» (1929) che facilita l’approccio personale ai problemi dell’ambiente e con il contributo di O. Vallin (1960) venuto dalla Francia prende slancio l’idea della «prevenzione». Tra gli autori italiani risaltano: L. Cian, fondatore del COSPES a Genova (1971); M. Danon, che considera il c. «una professione per il terzo millennio» e ne descrive lo stato attuale; E. Giusti, precursore del​​ Gestalt​​ c., che applica i suoi principi al​​ coaching; A. Di Fabio che inizia all’arte del c. Le scuole esistenti offrono diplomi di tre livelli secondo gli​​ standard​​ dell’Associazione Europea di C.​​ Negli anni ’90 sono sorte varie associazioni che favoriscono la ricerca sul c.​​ e si è creato il​​ Registro Italiano dei Counsellor​​ (2002). La​​ Società Italiana di C.​​ (1993)​​ e il​​ Coordinamento Nazionale dei Counsellor Professionisti​​ (2002) accreditano formazione teorica e pratica e con il​​ Coordinamento Libere Associazioni Professionali, sono impegnati con il​​ Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro​​ per regolamentare il c. L’UE però richiede che le professioni con contenuti analoghi a ordini già esistenti siano regolamentate in rapporto a tali ordini e, avendo il c. consistenti connotazioni psicologiche, ancora non è stato oggetto di normative specifiche.

Bibliografia

Mucchielli R.,​​ Apprendere il c., Trento, Erickson, 1987 / 1997; Carkhuff R.,​​ L’arte di aiutare, Ibid., 1989 / 2004; Rosenthal H.,​​ Encyclopedia of c.,​​ New York-London, Brunner-Routledge, 2002; Danon M.,​​ C., Novara, Red, 2003; Di Fabio A.,​​ C. e relazione d’aiuto, Firenze, Giunti, 2003; Ivey A. - M. Ivey,​​ Il colloquio intenzionale e il c., Roma, LAS, 2004.

M. Llanos




CREATIVITÀ

 

CREATIVITÀ

La c. è la rara capacità di alcuni individui di scoprire rapporti tra idee, cose e situazioni, di produrre nuove idee, di avere delle intuizioni e di concludere il processo mentale con un prodotto valido e utile nel settore scientifico, estetico, sociale e tecnico di una determinata cultura; il prodotto poi esercita un certo influsso sulla vita degli altri arricchendola oppure producendo in essa un positivo cambiamento. Nella c. vengono distinti tre aspetti: la persona, il processo e il prodotto.

1.​​ La persona.​​ È caratterizzata da​​ ​​ abilità generali, speciali e da alcuni​​ ​​ tratti della personalità che costituiscono la sua motivazione alla produzione creativa. La persona creativa possiede in alto grado i processi ipotetico-deduttivi; risulta alta in fluidità ideativa che consiste nella produzione di idee nuove che vanno incontro a bisogni sociali; la c. può essere verbale (ricca produzione di parole), associativa (combinazione di concetti differenti) ed espressiva (produzione grafica o gestuale). La persona creativa è flessibile mentalmente in quanto riesce ad adattarsi a situazioni nuove; è in grado di cogliere ed assimilare nuovi contributi; possiede pure la fluidità categoriale, in quanto passa facilmente da un contenuto all’altro; infine produce con facilità delle associazioni libere: associa, cioè, contenuti, fatti, concetti ed idee in modo insolito, ma socialmente accettabile. Padroneggia pure processi «metasistemici» in quanto comprende bene la struttura di un sistema e riesce a confrontarlo con gli altri e quindi è in grado di valutarli adeguatamente, di trascenderli e di vedere la situazione in una nuova luce. Questa sua abilità la rende sensibile ai problemi di un determinato settore, a raccogliere le informazioni per definirli, a rendersi conto delle incongruenze, a scoprire assunti ed eventuali distorsioni (pregiudizi) o sofismi, a dare delle spiegazioni, a formulare delle ipotesi e a verificarle. Perché tale persona possa produrre un’opera significativa deve possedere anche delle abilità specifiche in una determinata area come quella verbale, numerica, spaziale, oppure in quelle combinate: percettive, psicomotorie e sociali; deve cioè possedere delle abilità straordinarie in uno specifico settore. Oltre ai due tipi di abilità la persona per essere creativa deve possedere in uno specifico settore delle ampie conoscenze che sono presupposto per ogni produzione creativa. Deve possedere il sapere consolidato acquisito con un prolungato studio ed esercizio. Lubart (1994) nota che senza le conoscenze di uno specifico settore è difficile scoprire un problema, capirlo e procedere nella giusta direzione per risolverlo. La conoscenza è un presupposto anche per una scoperta casuale, tanto che Pasteur ha detto: «Il caso favorisce solo una mente preparata». Ogni produzione creativa inizia con il processo algoritmico (soluzione prestabilita) seguito poi dal processo euristico (soluzione innovativa). Il primo è basato sull’intelligenza cristallizzata (sapere consolidato) mentre il secondo è fondato su quella fluida (sapere da ordinare ed elaborare). L’eccessivo possesso del sapere consolidato è però dannoso alla c. in quanto la persona ricorre al metodo collaudato per la soluzione dei problemi e non tenta soluzioni nuove; inoltre esso riduce la versatilità mentale. Per la produzione artistica abbondanti modelli possono essere dannosi in quanto portano all’imitazione e a non cercare soluzioni originali. Lubart (1994) nota che scarse e ricche conoscenze riducono la c. Accanto alle abilità e alle conoscenze è fondamentale la​​ ​​ motivazione, che è una forza interna che spinge la persona all’azione e alla produzione. Essa ha origine in alcuni tratti della personalità che distinguono le persone creative da quelle non creative. Essi sono di tre tipi:​​ temperamentali:​​ introverso, disinvolto, emotivo, individualista, tollerante dell’incertezza;​​ intellettivi:​​ curioso, indipendente, predisposto ad un ragionevole rischio, conscio del suo valore, di chiara identità, di precisi obiettivi, versatile, flessibile;​​ etici:​​ volitivo, tenace, sensibile al vero e al bello. In sintesi si può dire che le abilità del soggetto sono «calate» in una personalità che possiede delle caratteristiche favorevoli alla produzione creativa.

2.​​ Processo e prodotto.​​ Il processo creativo si articola in quattro fasi: 1ª la​​ preparazione​​ in cui viene scoperto e definito il problema (o l’argomento); segue la raccolta di informazioni e si prospetta la sua soluzione iniziale. 2ª l’incubazione:​​ il problema viene «rimuginato» sotto la soglia della coscienza, vengono associate nuove informazioni a concetti già posseduti, si fanno considerazioni da punti differenti in un processo parallelo (ogni filone di riflessione procede senza incrociarsi con un altro); in questo processo vi è un continuo passaggio dall’incubazione alla preparazione e viceversa. 3ª l’illuminazione:​​ si approda alla soluzione del problema o alla coscienza dell’esistenza di un nuovo prodotto; esso poi viene rifinito ed il suo valore viene esaminato nella 4ª e conclusiva fase: di​​ valutazione.​​ Le quattro fasi si addicono meglio al processo creativo scientifico che a quello artistico. Il prodotto viene valutato dagli esperti del rispettivo settore, deve essere originale e deve risultare utile. Per la valutazione della produzione creativa degli alunni sono state elaborate alcune scale per renderla più oggettiva.

3.​​ Formazione.​​ La produzione creativa avviene in stretto rapporto con l’ambiente socioculturale il quale ad essa offre dei criteri sia per la valutazione dei contenuti che dei metodi. L’abilità creativa si forma principalmente in due ambiti: familiare e scolastico. Perché il figlio possa essere creativo deve essere incoraggiato all’indipendenza. Sfortunatamente i genitori incoraggiano l’indipendenza, l’autosufficienza ed il senso di responsabilità più nel figlio che nella figlia. Di conseguenza i figli maschi ottengono maggiore successo a scuola, lo attribuiscono alle loro abilità e all’impegno, mentre le figlie lo ascrivono più alla fortuna e al caso. L’effetto di questo atteggiamento differenziato per sesso si manifesta già nella scuola dell’obbligo in quanto il numero degli alunni creativi risulta sensibilmente superiore a quello delle alunne. L’ambiente scolastico formerà alla c. se incoraggerà e sosterrà le scelte autonome e stimolerà l’apprendimento divergente (​​ stili di apprendimento).

4.​​ Diagnosi e promozione.​​ L’accertamento delle potenzialità creative degli alunni è reso difficile dalla loro grande varietà. Vengono usati: test attitudinali e di c., scale di valutazione destinate agli insegnanti, esperti e genitori, test sociometrico, colloquio, tecniche proiettive ed anche voti scolastici. Nel contesto scolastico si cerca di promuovere l’abilità creativa degli alunni con i contenuti delle discipline anticipandoli oppure arricchendoli. Tutti e due i modi si attuano nel normale corso delle lezioni e hanno effetto positivo sulla capacità creativa degli alunni. La conduzione dell’accelerazione e dell’arricchimento è affidata ad insegnanti scelti, abili nell’insegnamento, competenti in settori specifici, flessibili mentalmente e molto motivati. Esistono però anche appositi programmi per sviluppare la c. (De Bono, 1992); essi sono impostati sull’apprendimento delle strategie di soluzioni di problemi. Nello stesso tempo viene esercitata la capacità critica dell’alunno e migliorata la sua capacità decisionale. Data l’impostazione cognitiva del procedimento esso è più efficace nel settore scientifico che in quello artistico.

5.​​ Suggerimenti.​​ La capacità creativa degli alunni può essere promossa anche durante il regolare insegnamento: a) valorizzando la produzione originale degli alunni; b) rendendoli sensibili alle valide stimolazioni dell’ambiente sociale; c) incoraggiandoli ad approfondire le loro idee; d) gestendo un modello aperto di apprendimento (possibili estensioni dell’argomento); e) incoraggiando ed apprezzando l’apprendimento autoregolato; f) dando la possibilità di gestire il curricolo in modo autonomo; g) facendo una lineare esposizione di un argomento presentando anche le interpretazioni alternative; h) formando negli alunni l’abitudine di sviluppare a fondo le implicanze delle proprie idee portandole alle estreme conseguenze; i) coltivando processi superiori dell’apprendimento (applicazione, sintesi e valutazione); j) proponendo le attività che facilitano l’esplorazione; k) usando vari metodi di insegnamento: letture personali, discussioni, lavori di gruppo, escursioni e progettazioni. La formazione delle abilità creative rappresenta uno degli obiettivi più ambiziosi dell’ educazione; infatti la capacità creativa è collegata alla piena maturità intellettuale della persona (Poláček, 1994) che la rende libera (trascende i sistemi) ed altamente produttiva.

Bibliografia

Glover J. A. - R. R. Ronning - C. R. Reynolds (Edd.),​​ Handbook of creativity,​​ New York, Plenum Press, 1989; De Bono E.,​​ Strategie per imparare a pensare,​​ Torino, Omega, 1992; Lubart T. I., «Creativity», in R. J. Sternberg (Ed.).​​ Thinking and problem solving,​​ San Diego, Academic Press,21994; Poláček K.,​​ In che cosa consiste la maturità intellettuale?,​​ in «Orientamenti Pedagogici» 41 (1994) 207-218; Runco M. A. - S. R. Pritzker (Edd.),​​ Encyclopedia of creativity,​​ 2 voll., San Diego, Academic Press, 1999; Kaufman J. C. - R. J. Sternberg (Edd.),​​ The international handbook of creativity,​​ Cambridge, Cambridge University Press, 2006; Kaufman J. C. - J. Baer (Edd.), Creativity and reason in cognitive development,​​ Ibid., 2006; Sternberg R. J.- H. L. Roediger - D. F. Halpern (Edd.).​​ Critical thinking in psychology,​​ Ibid., 2006.

K. Poláček




CREDENZE

 

CREDENZE

Durante tutta la sua storia, l’uomo ha sempre cercato di stabilire un rapporto cognitivo con la realtà che lo circonda attraverso una molteplicità di approcci. Accanto all’uso della razionalità strumentale, intesa come l’elaborazione di risposte pragmatiche ai problemi quotidiani del vivere, va sottolineata l’ampia produzione delle c., cioè di conoscenze che si pongono su un piano nettamente distinto da quello della razionalità, anche se non necessariamente contrapposto a quello.

1. Tra i tipi più diffusi di c. vi sono quelle religiose, che possono essere definite come l’insieme degli atteggiamenti che gli individui hanno nei confronti di un essere superiore o di una potenza percepita come trascendente. Le c. religiose possono indicare anche un complesso di dogmi o di verità di fede che vanno identificate di volta in volta nelle varie religioni storiche: in questo senso sono proposizioni formulate verbalmente o meno, a cui una persona conferisce pieno assenso. Esse, come confermano molti studiosi, hanno a che fare con i significati ultimi dell’esistenza umana. Quasi tutte le religioni storiche hanno elaborato compiute rappresentazioni del mondo e dell’uomo fondate sul principio dell’immortalità dell’essere umano, anche se non sempre collegate all’idea dell’esistenza dell’aldilà. Inoltre, le c. religiose hanno bisogno di istituzioni come supporto necessario per fornire una struttura di plausibilità alle c. stesse. Ogni c. richiede un simile sostegno sociale ma le c. religiose ne hanno particolarmente bisogno, a causa del carattere straordinario e trascendente delle loro affermazioni.

2. Seguendo diverse indicazioni provenienti dalla storia, dalla fenomenologia e dalla sociologia, si può dire che il​​ ​​ mito è una forma primordiale di c. religiosa in quanto tipo originario di appercezione e di espressione delle realtà religiose primitive. Esso è un’intuizione teorico-pratica di carattere sostanzialmente partecipativo, che tende ad accentuare gli aspetti emotivi, affettivi, vitali. Nella percezione mitica il rapporto tra soggetto e oggetto sacro è per sua natura fluido e fluttuante. Il sacro appare nella sua caratteristica di diverso e di separato, ma allo stesso tempo come qualcosa che esprime necessariamente un rapporto con il soggetto. I miti sono anche la prima forma di spiegazione intellettuale delle percezioni religiose. Essi ripetono le eterne domande – Perché siamo qui? Da dove veniamo? Perché ci comportiamo in un certo modo? Perché si muore? –, interrogativi che la curiosità intellettuale dell’uomo è pronta a porre e a cui risponde nel mito con un linguaggio immaginativo, cioè simbolico. Fondamentalmente il mito trascende la razionalizzazione. Le c. religiose e la dottrina sono la seconda forma di spiegazione intellettuale del problema religioso. Sul piano della comprensione sociologica si rivela utile l’intuizione durkheimiana secondo cui ogni gruppo umano tende a consacrare su un piano di assolutezza i valori cui affida la legittimazione del proprio esistere (​​ Durkheim, 1963). La fede religiosa, tra tutte le forme di c., sembra possedere un potere di integrazione e di propulsione sia a livello individuale sia a livello sociale, relativamente superiore a quello della altre filosofie di vita.

3. Più che la scomparsa della​​ ​​ religione si constata oggi una molteplicità dei segni religiosi. A riguardo del senso della vita, del richiamo ai valori ultimi, del fondamento dell’eticità, la società è piena di segni religiosi e di nuovi credenti, ma la religione non è considerata un’eredità da accogliere e sviluppare ed è sempre meno legittimata dalle interpretazioni approvate dalla tradizione e dalle religioni istituzionalizzate. Esiste una situazione di pluralismo in senso sincretistico che indica il miscuglio, l’intreccio di molteplici e differenti elementi religiosi parziali. Oggi tutti i credenti sono esposti a un’illimitata offerta di culti, pratiche, letterature, c. di altre tradizioni religiose. La diversità religiosa si inserisce all’interno dell’individuo. Così l’uso dei modelli di comportamento religioso si sposta da una religiosità istituzionalizzata e fissa a una individuale ed elettiva che attinge da varie sorgenti. Rimangono però le tracce della religiosità privata e i molteplici sostituti dell’esperienza religiosa. Nella situazione moderna tocca a ciascuno elaborare per proprio conto le sue risposte religiose; in altre parole, il declino della religiosità tradizionale si paga con la fatica dell’essere soggetto.

4. Nella religiosità moderna prevalgono la dimensione soggettiva e l’esperienza personale indipendente da ogni contenuto dogmatico definito. Essa non ha bisogno di proiettarsi in rappresentazioni definite, articolate in corpi dottrinali e socialmente condivise; le sue modalità non producono quasi mai sintesi del tutto compiute, ma piuttosto forme sincretistiche, selezione, giustapposizione, assimilazione, fusione di tratti religiosi diversi. Sempre più frequentemente il sincretismo si costruisce con assetti sia religiosi sia secolari. In questo processo i primi rappresentano una risorsa epistemologica, un orizzonte con funzione soprattutto cognitiva e legittimatrice. Ciò che è nuovo nella percezione delle c. moderne è la grande mobilità, la dispersione in molteplici direzioni, la diversità degli oggetti in cui si realizza, la differenziazione delle funzioni a cui assolve.

Bibliografia

Durkheim É.,​​ Le forme elementari della vita religiosa,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1963; Crespi P.,​​ La coscienza mitica,​​ Milano, Giuffré, 1970; Eliade M.,​​ Storia delle c. e delle idee religiose,​​ Firenze, Sansoni, 1990; Acquaviva S. - E. Pace,​​ Sociologia delle religioni. Problemi e prospettive,​​ Roma, NIS, 1992; Berger P.,​​ A far glory.​​ The quest for faith in an age of credulity,​​ New York, The Free Press, 1992; Berzano L.,​​ Religiosità del nuovo areopago.​​ C. e forme religiose nell’epoca postsecolare,​​ Milano, Angeli, 1994; Rizzi E.,​​ La giustificazione «critica» delle nostre c. sul mondo, Firenze, Polistampa, 2000.

J. Bajzek




CREDIBILITÀ

 

CREDIBILITÀ

Dal punto di vista pedagogico, la c. può essere intesa come la condizione di persone, istituzioni, contenuti di proposte e inviti educativi che innestano dinamiche di coinvolgimento affettivo e spirituale e muovono al consenso.

1. La c. può essere condizione globale di un sistema e di un rapporto o riferirsi a un singolo fattore e atto dell’educazione. Appartiene alla pedagogia della​​ ​​ motivazione. Abitualmente gli esiti educativi buoni si attribuiscono agli educatori, le risposte negative o difettose alle condizioni del soggetto educando o dell’ambiente. Il primo si giudica poco disponibile, soprattutto a proposte e richieste valide e impegnative. Il secondo di solito viene rimproverato di scarsa collaborazione, di moltiplicazione delle difficoltà, d’essere responsabile oggi della quasi impossibilità di una buona educazione.

2. La c. si tende a darla quasi per scontata. Invece, oggettivamente, la responsabilità prima e ultima dell’intervento educativo è legata a un sistema di c., delle persone e delle comunità educatrici, alle loro proposte, alla qualità delle loro mediazioni, alla loro presenza o assenza. Credibili sono le persone che testimoniano, che pagano di persona, che mostrano amore e zelo, dedizione, pazienza. Credibili sono le proposte che si mostrano significative e ottengono per questo profonda risonanza interiore anche di fronte ad attese esigenti e critiche o dubbiose. Credibile è ciò che agisce in profondità, esprime valori permanenti, ma insieme corrisponde allo spirito dei tempi, alla pluralità delle condizioni e delle disponibilità. Credibile è un sistema che presenta le prove, i segni di valore e la forza dei contenuti che propone. Credibili sono le personalità e i modi della mediazione che suscitano dinamiche di attenzione e di fiducia, e spingono ad assumere in profondità e convinzione quanto viene proposto (v. anche​​ ​​ autorità educativa).

Bibliografia

Gianola P., «I giovani e la vita religiosa oggi: tra disponibilità e c.», in CIS,​​ Vocazioni giovanili e comunità d’accoglienza,​​ Roma, Rogate, 1982, 25-46; Guardini R., «La c. dell’educatore», in Id.,​​ Persona e libertà, Brescia, La Scuola, 1987.

P. Gianola




CRISI

 

CRISI

Termine di origine gr. (krino =​​ scelgo, discrimino, separo) usato dalla medicina ippocratica per indicare il momento decisivo del decorso d’una malattia.

1.​​ Definizione.​​ In ambito psicopedagogico si riferisce a una fase della vita caratterizzata dalla rottura dell’equilibrio precedentemente acquisito e dalla capacità di trasformare quegli schemi di atteggiamento e di comportamento che si rivelano inadeguati a far fronte alla nuova situazione.

2.​​ Tipologia.​​ La tendenza attuale della moderna​​ ​​ psicopedagogia è quella di distinguere tra vari tipi di c. alla luce di due criteri: la​​ natura del legame​​ della c. stessa con le fasi o gli eventi della vita, e la​​ libertà del soggetto​​ d’affrontare le varie situazioni di c. Prendendo in considerazione, anzitutto, il rapporto tra c. ed esistenza, avremo due tipi di situazioni critiche: a) c.​​ essenziali,​​ perché legate, direttamente o indirettamente, all’evolversi naturale della vita. Tali c., a loro volta, possono esser ancora di due tipi:​​ evolutive,​​ quelle connesse intrinsecamente alle stagioni classiche dell’esistenza umana (infanzia, adolescenza ecc., oggetto della psicologia evolutiva), o a particolari settori di sviluppo (e avremo allora le varie teorie dello sviluppo intellettuale di​​ ​​ Piaget, affettivo-sessuale di​​ ​​ Erikson, morale di​​ ​​ Kohlberg...). Tali c. sono prevedibili o, in ogni caso, è possibile preparare l’individuo ad affrontarle, espletando i corrispondenti «compiti evolutivi». Altro tipo di c. essenziale è la c.​​ vocazionale,​​ legata di per sé a un preciso passaggio evolutivo, quello che dalla​​ ​​ preadolescenza porta all’adolescenza e poi alla giovinezza, lungo il quale il soggetto decide della sua identità ideale e, all’interno d’essa, del suo futuro. Di fatto tale c. dovrebbe accompagnare in qualche modo tutta l’esistenza. b) Il secondo tipo di situazione esistenziale critica è rappresentato dalle c.​​ accidentali,​​ legate a eventi traumatici imprevedibili e indipendenti dalla persona, come lutti, malattie, cambi repentini, incidenti vari e quant’altro venga a turbare in modo emotivamente rilevante e spesso improvviso un certo assetto intrapsichico. La c. accidentale può esser determinata anche da eventi non del tutto imprevedibili né indipendenti dal soggetto, come possono essere situazioni d’infedeltà e incoerenza personali rispetto al proprio piano ideale di vita. Anche la c. accidentale può divenire fattore di sviluppo, purché il soggetto sia aiutato a integrare il limite esistenziale e personale. Prendendo in considerazione il grado di libertà interiore con cui si affronta la c. avremo queste due fondamentali distinzioni: a)​​ c. vera e propria d’identità:​​ è quella che è legata al concetto d’identità, concetto che è per natura sua dinamico al punto da comprendere l’idea stessa di c. Il senso dell’io, infatti, a partire da un nucleo di riferimento sostanzialmente positivo e stabile, deve continuamente riorganizzarsi nella definizione sempre più accurata dei suoi elementi costitutivi (io attuale e io ideale) e del rapporto interno a essi (di consistenza o inconsistenza), lungo i diversi stadi di sviluppo. Tale c. d’identità è normale e salutare per la crescita, poiché indica un io forte e pure duttile, disponibile a cogliere, di volta in volta, la non corrispondenza tra identità personale, esigenze e provocazioni della realtà esterna, e libero di lasciarsi sfidare dalle mutevoli situazioni della vita; b)​​ diffusione-dispersione d’identità​​ (Identity diffusion):​​ è di natura opposta alla precedente. È una situazione di contrasto fra «stati dell’Io vicendevolmente dissociati» (Kernberg, 1980, 222), come un conflitto interno che la persona non riesce a gestire ed armonizzare e che ne assorbe tutte le energie, impedendole di comunicare con la realtà esterna e di coglierne gli stimoli critici come opportunità educative. Tale chiusura segnala debolezza d’identità e preclude ogni possibilità di formazione permanente. In una prospettiva credente tale distinzione tra c. dell’io e diffusione d’identità prelude a un’altra e corrispondente distinzione, quella tra​​ c. psicologica​​ e​​ c. spirituale: la prima è un conflitto intrapsichico e senza sbocco, d’una parte dell’io contro un’altra parte; la seconda indica la lotta con Dio e i suoi desideri, un confronto con la sua parola e la sua volontà che è sempre oltre il progetto solo umano. È lotta biblica (cfr. Es 32,23-33) e sana, perché espone l’uomo alla massima provocazione e all’autentica realizzazione di sé.

3.​​ C. e opportunità educativa.​​ È ormai un dato acquisito dalle scienze pedagogiche la fondamentale ambiguità del concetto di c. che, infatti, nella lingua cinese, viene rappresentato dalla combinazione di due ideogrammi che indicano pericolo e opportunità. La «pedagogia della c.» è oggi sempre più orientata a studiare come sfruttare e non solo come evitare la c., e a capire come rendere la c. fattore di sviluppo e non di stasi o regressione, momento evolutivo e non involutivo, sottolineando le seguenti caratteristiche della c. «buona» o feconda (in opposizione a quella regressiva-sterile). Essa dev’essere: a)​​ Preparata,​​ almeno per quanto è possibile preparare i passaggi evolutivi dell’esistenza. Basti pensare a certi passaggi strategici, come quello tra preadolescenza e adolescenza, o tra vita attiva e ritiro dall’azione; una c. preparata è spesso una c. prevenuta. b) A volte la c. va addirittura​​ provocata.​​ È l’arte educativa finissima del sapere sfruttare certe «situazioni pedagogiche», come i momenti apparentemente negativi di frustrazione, assenza, silenzio, attesa, desiderio inappagato, domanda, lotta, nei quali emerge, in realtà, una dimensione ulteriore e inesplorata dell’uomo, o la verità più profonda del mistero umano. Sapere sfruttare significa la fatica di aiutare a scrutare questa verità, di cogliere il senso più autentico dell’attesa, «scavando domanda e desiderio» (Godin, 1983, 181ss.) per capire cosa il singolo stia cercando anche se non lo sa. La c. vocazionale, ad es., può esser intelligentemente provocata. c) Per esser fattore di sviluppo la c. deve però esser​​ proporzionata,​​ su misura del reale indice di maturità del soggetto, che non potrebbe «intendere» una provocazione eccessiva, né sarebbe adeguatamente sollecitato da proposte o ambienti educativi inferiori al suo livello di maturazione e dunque non abbastanza stimolanti. Secondo Kohlberg, l’autentica situazione critica educativa è quella che propone un compito e una sfida a un livello immediatamente superiore a quello raggiunto dal soggetto (Duska-Whelan, 1975, 65-66). d) Infine, condizione importante è che la c. sia​​ accompagnata​​ da un «fratello maggiore», che aiuti a individuarne la radice profonda, per verificare poi il tipo di risposta. Tale presenza amica, che nella tradizione ascetica cristiana è la guida spirituale, dovrà saper dosare accoglienza e provocazione, pazienza e urgenza, capacità di comprendere e confrontare, e quanto insomma consenta al giovane di vivere intensamente la sua c., e di non evitarla per paura o ignoranza.

Bibliografia

Duska R. - M. Whelan,​​ Lo sviluppo morale nell’età evolutiva,​​ Una guida a Piaget e Kohlberg,​​ Torino, Marietti, 1975; Godin A.,​​ Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà,​​ Brescia, Morcelliana, 1983; Guardini R.,​​ Le età della vita. Loro significato educativo e morale,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1992; Del Core P. (Ed.),​​ Difficoltà e c. nella vita consacrata,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci, 1996; Tripani G., «Perché non posso seguirti ora?» Momenti di prova e formazione permanente,​​ Milano, Paoline, 2004; Grun A.,​​ 40 anni: età di c. o tempo di grazia?,​​ Padova, Messaggero, 2006; Parolari C.,​​ Vivere le prove con sincerità di cuore,​​ in «Tre Dimensioni» 2 (2006) 207-211.

A. Cencini




CRISOSTOMO Giovanni

 

CRISOSTOMO Giovanni

n. ad Antiochia di Siria nel 345 / 355 - m. a Comana nel 407, padre della Chiesa, santo.

1. Frequenta gli studi filosofici e letterari. Nel 372, ritiratosi tra i monti attorno ad Antiochia, rientra nel 378 ad Antiochia, vi è ordinato diacono (381) e poi presbitero (386). Volle da sempre essere solo «uomo ecclesiastico» e non monaco. Esercita il ministero ad Antiochia per dodici anni, fino alla sua elezione a vescovo e patriarca di Costantinopoli. Contestato oltretutto per le sue riforme, viene esiliato due volte. Muore di stenti a Comana nel Ponto. Possediamo di lui molte​​ Omelie​​ a commento (specie morale) della Scrittura,​​ Lettere​​ e diverse​​ Operette,​​ tra cui due trattati pedagogici:​​ Contro i detrattori della vita monastica​​ e​​ Sulla vanagloria e sull’educazione dei figli.

2. Il pensiero di C. subisce un’evoluzione dovuta alla progressiva esperienza pastorale. Nel trattato​​ Contro i detrattori della vita monastica,​​ egli sostiene la tesi estremista d’inviare i figli nei monasteri fino alla loro maturità spirituale. Ma più tardi (396-397), il trattato​​ Sulla vanagloria e sull’educazione dei figli​​ rappresenta il superamento del precedente: l’educazione morale-religiosa del fanciullo è da lui affidata ai genitori in famiglia, e l’educazione alle pubbliche scuole. La prima parte del trattato (1-15) presenta l’esclusiva preoccupazione dei padri per la futura professione civile dei figli, finalizzata alla gloria umana (Sulla vanagloria);​​ la seconda parte (16-90) pone in termini positivi il problema di una riuscita formazione cristiana dei figli (19-22), passando poi ad esporre i criteri e i modi di soluzione del problema (23-90) (Sull’educazione dei figli).​​ Emerge, per la prima volta in apposita operetta patristica, la necessità dell’educazione morale dei fanciulli in famiglia, il cui animo, molle come cera (20), deve essere educato fin dalla prima età (19). Le stesse​​ Omelie​​ offrono materiale pedagogico. Le fasi di sviluppo psicofisico-spirituale del giovane vengono individuate nell’infanzia-fanciullezza; adolescenza-giovinezza e fidanzamento-matrimonio. Particolarmente significativa è l’incidenza del vissuto ecclesiale sui giovani, in un tempo di mancanza di forme di associazionismo giovanile e di dominio dell’adultismo.

Bibliografia

Pasquato O.,​​ Pastorale familiare. La testimonianza di G.C.,​​ in «Salesianum» 51 (1989) 3-46; Xodo C., «C. G.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia Pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3369-3373; Pasquato O.,​​ «De inani gloria et de educandis liberis», di G.C., in «OCP» 58 (1992) 253-264; Id., «S.G.C.» (345 / 355-407), in M. Midali - R. Tonelli (Edd.),​​ Dizionario di pastorale giovanile,​​ Leumann (TO), Elle Di Ci,​​ 21992, 1125-1131 (ora in CDr);​​ Id.,​​ Katechese (Katechismus),​​ in «RAC», Bd. XX (2003) 447-449; Id.,​​ I laici in G.C. Tra Chiesa,​​ famiglia e città, Roma, LAS,​​ 32006.

O. Pasquato




CRISTIANESIMO

 

CRISTIANESIMO

Il C., fin dalle sue origini, si è sempre occupato di educazione, sia pure con modalità molto diverse.

1. Le chiese cristiane, lungo la loro storia, hanno sempre avuto a che fare con problemi pedagogici e scolastici, anche se questi non furono predominanti. L’influsso del pensiero cristiano sulla prassi educativa, sulle istituzioni e dottrine pedagogiche è innegabile, ma non va neppure sottovalutato l’influsso che la formazione culturale e la scuola ebbero sulla vita delle comunità cristiane. Queste constatazioni sono interpretate e valutate in modi assai differenti – e talora opposti – dalle varie confessioni cristiane. Anche dopo il Conc. Vaticano II, non tutte le divergenze sono state superate; tuttavia si sta sempre più rafforzando, tra le differenti denominazioni cristiane, un fruttuoso dialogo ecumenico (​​ Ecumenismo) in questo settore.

2. Lo studio dei rapporti tra C. e educazione dovrebbe essere sia di ordine teoretico che storico, però è talmente vasto da non poter essere compreso sotto un’unica voce. Si è costretti pertanto a suddividerne la trattazione e a collocarla sotto differenti voci. Qui ci limitiamo a segnalarne le principali. Per le trattazioni di ordine​​ storico,​​ cioè riguardanti i rapporti che nei due millenni di vita del C. le chiese e le comunità cristiane hanno instaurato con le istituzioni educative e scolastiche presenti nelle varie culture, si possono vedere le seguenti voci: Agazzi, Agostino, Aporti, Barnabiti, Basilio, Benedetto, Borromeo, Bosco, Calasanz, Casotti, Clemente Alessandrino, Comenio, Congregazioni insegnanti, Da Silva, Deontologia, Direzione spirituale, Dottrina sociale della Chiesa, Dupanloup, Ebraismo, Erasmo, Förster, Francke, Figlie di Maria Ausiliatrice, Fratelli delle Scuole cristiane, Gesuiti, Giansenismo, Giussani, Guanella, Guardini, Isidoro di Siviglia, La Salle, Lutero, Manjón, Maritain, Medioevo, Monachesimo, Movimenti ecclesiali, Nebreda, Pietismo, Protestantesimo, Salesiani, Scolopi, Tommaso d’Aquino,​​ Willmann.

3. Lo studio​​ teoretico​​ dei rapporti tra C. e educazione è di natura essenzialmente teologica ed è assai complesso. Comprende anzitutto un primo gruppo di problemi riguardanti il​​ perché​​ la Chiesa – la cui missione di ordine essenzialmente spirituale sarebbe quella di essere «sacramento» del Regno di Dio nel mondo –​​ debba​​ occuparsi anche di educazione e di scuola, che sono invece attività e istituzioni temporali. Questo primo gruppo di interrogativi fa parte della più ampia problematica concernente i fondamenti teologici dell’azione della Chiesa nel temporale. Un secondo gruppo riguarda invece il​​ come​​ la Chiesa possa occuparsi di educazione e di scuola (e, in generale, delle realtà e finalità temporali), senza venir meno alla sua missione spirituale di servizio del regno di Dio. Anche in questo caso la trattazione di questa problematica (che verrà fatta in un clima di dialogo ecumenico, pur privilegiando la prospettiva teologica della Chiesa Cattolica) viene suddivisa in una pluralità di voci, che segnaliamo: Bibbia, Catechesi, Catechismo, Catecumenato, Chiesa, Educazione cristiana, morale, religiosa, spirituale, Esperienza religiosa, Formazione vocazionale, Gruppi di ascolto, Insegnamento della religione cattolica, Pastorale, Pedagogia cristiana, Preghiera, Relativismo morale, Sistema preventivo, Spiritualità, Teologia dell’educazione, Virtù.

Bibliografia

Corallo G., «Il C. e l’educazione», in L. Volpicelli (Ed.),​​ Pedagogia,​​ vol. 8:​​ Storia della pedagogia,​​ Milano, Vallardi, 1972, 171-221; Quacquarelli A.,​​ Scuola e cultura dei primi secoli cristiani,​​ Brescia, La Scuola, 1974; Braido P. (Ed.),​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia,​​ 2 voll., Roma, LAS, 1981; Sagramola O.,​​ Alle radici della pedagogia cristiana: educazione,​​ cultura e scuola nel C. dei primi secoli, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2003.

G. Groppo




CRITICA

 

CRITICA

È un termine filosofico, relativo alla natura e al senso razionale della conoscenza, che ha diverse applicazioni in sede di pedagogia e di educazione.

1. Il termine (dal gr.​​ kritiké téchne,​​ arte di giudicare) rimanda alla tecnica di analisi testuale e valutazione delle fonti, al giudizio di opere letterarie e artistiche, e da​​ ​​ Kant in poi, sta alla base del criticismo filosofico, che si caratterizza per l’esame radicale a cui viene razionalmente sottomessa la conoscenza e la ragione stessa nei suoi diversi modi di porsi. È noto che​​ ​​ Lombardo Radice prospettò una c. didattica, intesa come filosofia vissuta che discute e passa al vaglio l’opera didattica, cioè l’istituzione, i metodi, gli atteggiamenti e i comportamenti scolastici concreti; la produzione didattica e pedagogica; gli esperimenti di innovazione didattica e scolastica. In tal modo credette di poter superare il tecnicismo e la pedanteria erudita; di stimolare la formazione degli insegnanti e l’opinione pubblica; di far penetrare nella scuola e nelle famiglie idee pedagogiche nuove e atteggiamenti più rispettosi della​​ ​​ creatività del fanciullo. Negli anni settanta, nel generale clima di radicale contestazione della scuola e della pedagogia, soprattutto negli ambienti tedeschi, si parlò di scienza c. dell’educazione, così come di didattica c. per una educazione e una comunicazione non-autoritaria nella scuola. Oggetto suo proprio sarebbe dovuto essere la denuncia dei condizionamenti ideologici e strutturali, che impediscono una comunicazione dialogica, un apprendimento riflessivo-critico, la ricerca dell’autonomia soggettiva e l’emancipazione individuale e collettiva. Negli anni novanta, a fronte della complessificazione della vita e della crisi della modernità occidentale, si è ripreso a parlare in Italia di pedagogia c. al fine di superare impostazioni scientistiche, riduttive, schematiche, unilaterali; di ricercare itinerari di razionalità educativa; di valorizzare la particolarità, la storicità, la soggettività, la varietà delle situazioni, la ricchezza delle differenze individuali, esistenziali, culturali; di saldare dimensioni epistemologiche, etiche, valoriali, politiche ed operative.

2. In tal senso la c. pedagogica può essere vista come un compito fondamentale della teoria e della​​ ​​ filosofia dell’educazione che indaga e discute pubblicamente le idee e le pratiche educative per saggiarne la validità, l’attendibilità, l’adeguatezza e la significatività sia rispetto ai bisogni educativi e alla domanda sociale di formazione attuale e futura sia rispetto alle esigenze della razionalità e della scientificità contemporanea. A sua volta, in sede di educazione la criticità è tradizionalmente indicata come una caratteristica essenziale dell’educazione moderna e specialmente dell’educazione scolastica, in un più ampio quadro di educazione alla ragione, di​​ ​​ educazione scientifica e tecnologica, di educazione ai​​ ​​ valori della tradizione, alle novità e​​ ​​ mode del tempo. In particolare l’educazione al​​ ​​ pensiero critico si raccomanda oggi a fronte del vasto pluralismo, della multicultura e della complessità vitale che caratterizzano l’esistenza contemporanea.

Bibliografia

Lombardo Radice G.,​​ Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale,​​ Palermo, Sandron, 1936; Bertoldi F.,​​ C. della certezza pedagogica, Roma, Armando, 1981; Cambi F. - G. Cives - R. Fornaca,​​ Complessità,​​ pedagogia c.,​​ educazione democratica,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1991; Granese A.,​​ Il labirinto e la porta stretta. Saggio di pedagogia c., Ibid., 1993; Ragnedda M.,​​ Eclisse o tramonto del pensiero critico? Il ruolo dei mass media nella società post-moderna, Roma, Aracne, 2006; Sartori G.,​​ Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma / Bari, Laterza, 2007.

C. Nanni




CULTURA

 

CULTURA

L’etimologia del vocabolo c. ci rinvia al lat.​​ colere​​ (curare, onorare, esercitare), da cui​​ cultus,​​ come in​​ cultus deorum​​ e​​ cultus agri​​ (locuzione, quest’ultima, divenuta in seguito​​ c. agri).​​ Di qui si è sviluppata l’espressione​​ c. mentis​​ del tardo Medioevo (in realtà già Cicerone​​ ​​ in​​ Tusculanae Disputationes​​ 2,5,13​​ ​​ scriveva:​​ C. animi philosophia est)​​ e del primo Rinascimento, che è all’origine del concetto classico tradizionale assunto dal termine c. quando venne introdotta nelle lingue moderne (Kluckhohn - Kroeber, 1982). Attualmente il termine c., pur proponendosi in ogni sua accezione di specificare il regno delle attività umane differenziato e rapportato (talvolta contrapposto) al regno della natura, viene adoperato per indicare fondamentalmente due realtà distinte, di cui però la prima è inclusa nella seconda: a) il processo di educazione o formazione della persona umana: è il senso tradizionale,​​ classico-umanistico;​​ b) «quel complesso insieme​​ [complex whole],​​ quella totalità che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società»: è il senso moderno,​​ sociologico-antropologico, nella prima celebre definizione lanciata nel 1871 da C. B. Tylor, punto di riferimento per tutte le successive rielaborazioni (Kluckhohn-Kroeber, 1982, 99).

1.​​ La c. come visione globale dell’esistenza umana.​​ Per un discorso critico sulla c.​​ ​​ che sempre prenderemo nel senso antropologico-moderno​​ ​​ è necessario superarne la semplice descrizione fenomenologica, per individuarne l’essenzialità e l’importanza, quali premesse e fondamenti per una proposta educativa. Ripercorrendo il processo dell’intellezione (umana), mediante il quale l’uomo comprende se stesso come «esistente, con gli altri, nel mondo», si configura sempre più chiaramente il​​ concetto filosofico​​ di c. in quanto tale, che potremmo così definire: l’insieme dei modi di vita, inscindibilmente espressi sia negli orientamenti speculativi (letteratura, filosofia, arte, religione, musica, ecc.) sia nei comportamenti pratici (tecnica, economia, norme sociali, ecc.), che sono creati, appresi e trasmessi da una generazione all’altra fra i membri di una particolare società; modi di vita che sono indispensabili ai singoli e alla comunità, in un ineluttabile reciproco condizionamento, e che, per la loro finalità ai valori universali di perfezionamento della persona umana, esigono di aprirsi ad un arricchente confronto con le altre c. (Montani, 1991, 37-48). Ne consegue che «la c. non è una specie di ornamento estrinseco che verrebbe ad aggiungersi all’esistenza dell’uomo per dargli qualche attrattiva supplementare, per principio non indispensabile. È la condizione stessa dell’esistenza veramente umana» (Ladrière, 1978, 114). La c. è parte costitutiva della natura umana, perché solo la c. «fa di noi degli esseri specificamente umani, razionali e critici ed eticamente impegnati. Grazie alla c. discerniamo i valori ed effettuiamo delle scelte. L’uomo si esprime per mezzo della c., prende consapevolezza di se stesso, si riconosce come un progetto incompiuto, rimette in questione le sue realizzazioni, ricerca instancabilmente nuovi significati e crea opere che lo trascendono» (Unesco, 1982).

2.​​ Gli elementi fondamentali della c.​​ Poiché la c. è tutta opera dell’uomo, se ne potranno specificare gli elementi costitutivi fondamentali partendo dalla classica distinzione dell’azione umana. Ovviamente questi diversi fattori culturali saranno strettamente uniti tra di loro in quanto costituiscono una struttura, intesa nel senso di un tutto organico formato di elementi solidali, tali che ognuno dipende dagli altri e non può quindi essere pienamente comprensibile se non attraverso la reciproca relazione dell’uno con tutti gli altri.

2.1.​​ La lingua.​​ Il «conoscere» è l’azione mediante cui l’uomo tende a rendersi consapevole della realtà (soggettiva e oggettiva) in un contesto di rapporti dialettici sociali. La capacità simbolizzatrice ha avuto una funzione primaria nella caratterizzazione dell’uomo, nella trasformazione dell’essere umano in persona e dell’evoluzione in storia umana: «Senza simbolo non ci sarebbe c., e l’uomo sarebbe un animale, non un essere umano» (Chiavacci, 1977, 667). La forma più importante dell’espressione simbolica è la lingua (accanto all’arte). Senza una lingua (​​ linguaggio) non avremmo una c. La lingua pertanto è formativa non meno che formata: prima di essere strumento del parlare essa è legge dello stesso pensare. Perciò come una lingua povera e rozza (di un gruppo, di una subcultura) rende difficoltosa la riflessione che apre alla consapevolezza dei valori, così una mancata padronanza della lingua rende difficoltosa la​​ ​​ comunicazione e la difesa della stessa verità, nonché dei doveri e dei diritti di ogni membro di una comunità.

2.2.​​ La tecnica.​​ Il «fare» (poiéo)​​ è l’azione umana che ha per fine principale quello di produrre, di dominare e di organizzare una materia esteriore (​​ tecnologia). È il dominio della tecnica, qui intesa nell’accezione generica di attività rivolta a costruire e manipolare processi fisici e sociali per porli al servizio delle necessità esterne della vita. Oltre alla sua palese efficacia applicativa e produttiva, essa rivela un carattere sintomatico del modello di valori dominanti in una società. In più, non va dimenticato che la dispotica pretesa della «grande scienza» e la concomitante superefficienza tecnico-produttiva dei nostri tempi sorreggono una colossale struttura di sapere e di potere, in stretti rapporti di dipendenza dallo Stato e dai suoi interessi politico-militari. La c. autentica non è semplicemente il progresso tecnico, ma è lo scopo e l’autenticazione di tale progresso. Infatti, antitetico al progresso tecnico-scientifico​​ ​​ pienamente auspicabile allorché diventa a sua volta coefficiente del perfezionamento della persona umana​​ ​​ è possibile, teoricamente e storicamente, individuare anche un progresso tecnico-scientifico che si accompagna ad un regresso morale-sociale, in quanto può essere sviluppato da un «uomo-non-umano» e creare quindi una «c.-non-culturale».

2.3.​​ Le norme sociali.​​ L’«agire» (prásso)​​ è l’azione umana che mira a formare colui che agisce, a modellarne il comportamento in un contesto di forme del vivere comune e socialmente acquisite. Le norme sociali, che impegnano ogni singolo membro di una​​ ​​ società (e la società stessa) al rispetto e all’osservanza, diventano, in definitiva, l’epifania più appariscente e più genuina della​​ ​​ Weltanschauung​​ di un popolo. Con una classificazione sociologica ormai divenuta comune distingueremo le norme sociali in: a)​​ folkways,​​ usanze e consuetudini tramandate senza speciale riflessione o procedura, seguite più o meno inconsciamente, e che, di per sé, non cadono direttamente sotto l’ordine morale (per es.: modi di vestire, di mangiare, di divertirsi, ecc.); b)​​ mores,​​ modi di agire che molto più precisamente sono considerati come giusti, appropriati e quasi essenziali al bene sociale, e che quindi, se violati, vengono puniti molto più severamente (per es.: fedeltà coniugale, condotta sessuale, diritto di proprietà, rispetto della vita altrui, ecc.); c)​​ leggi,​​ che nelle società più complesse diventano necessarie per assicurare l’ordine sociale, non bastando più la sola opinione pubblica e la sola coscienza degli individui, generalmente sufficienti nelle società primitive (Bartoli, 1987). Naturalmente il riferimento ai valori (personali e comunitari) sarà molto diverso nelle singole norme delle singole culture: avremo una gradualità di rapporto che va dall’indifferenza (etica) ad un pieno coinvolgimento (etico). Tra questi vincoli culturali, l’istituzione politica e l’istituzione educativa sono ritenuti i più determinanti ed essenziali nella trasmissione e nella compattezza del tessuto di una c.

2.4.​​ I valori.​​ Il «contemplare» (theôreô)​​ è l’attività umana che indaga sui​​ ​​ valori​​ per arricchire il regno dell’umanità e tendere all’autenticità della vita. Sono i valori che orientano le fondamentali scelte di comportamento (personali e comunitarie) e che rivestono una straordinaria importanza per il gruppo sociale, tanto da venire assunti come criteri di giudizio, norme di condotta e modelli dell’educazione. Bisogna sottolineare che nelle c. contemporanee, più sofisticate delle precedenti, il fenomeno della comunicazione ha raggiunto modalità, potere, intensità tali da influire sulla consistenza stessa e sulla «esemplarità educativa» dei valori (o dei non-valori) veicolati. Di qui la necessità, per i contemporanei, di potenziare le capacità di analisi, di giudizio, di scelta, affinché il gigantesco «mercato delle notizie» non monopolizzi il dominio delle idee.

2.5.​​ La religione.​​ Un’attenzione privilegiata va accordata al​​ valore religioso,​​ perché motivi di ordine sociologico e teoretico impongono di non eludere la controversa questione se la​​ ​​ religione sia o no il fondamento ultimo, il costitutivo supremo, la base più profonda di una c. In linea teorica ci sembra non esservi dubbio che nella religione, in cui l’uomo si mette a disposizione di Dio, si celi una delle scaturigini più essenziali della c. Passando però al piano esistenziale del rapporto religione-c., siamo convinti che la religione tanto più sarà scaturigine di valori culturali quanto più verrà percepita come un «valore» (e non semplicemente come una fredda «coerenza a delle verità»), quanto più andrà continuamente depurandosi da strumentalizzazioni arbitrarie (la​​ religio instrumentum regni)​​ e quanto più si presenterà come una proposta «ragionevole» (il che non è sinonimo di «razionale»), pienamente rispettosa della dignità umana, rigettando fondamentalismi, guerre sante, teocrazie dispotiche, roghi, fanatismi, ecc. I cristiani, in particolare, per non separare la religione dalla c., sono oggi vivamente stimolati sia a purificare la loro fede da negative incrostazioni storiche, sia ad impegnarsi in un vigile «aggiornamento» sintonizzandosi con i «segni dei tempi», che sono luogo della crescita umana e l’«ora» della continuata creazione di un Dio-Padre.

3.​​ L’universalismo culturale.​​ Oggi le sempre più numerose relazioni (politiche, economiche, turistiche, sportive) uniscono talmente tra di loro i vari popoli della terra da non mettere più in dubbio il cammino di tutta l’umanità verso una​​ mondializzazione della c.​​ La costruzione di tale progetto culturale planetario dovrà trovare l’equilibrio fra due esigenze fondamentali: da una parte, l’esigenza di difendere l’ineliminabile singolarità delle c. (con il rischio di chiudere e impoverire lo sviluppo della natura umana); dall’altra parte, l’esigenza di aprirsi ai valori di cui altre c. sono portatrici (con il rischio dello scetticismo o del relativismo della proposta di sviluppo della natura umana). Sarebbe, allora, più esatto parlare non di​​ c. planetaria​​ ma di​​ dimensione planetaria​​ delle c., che è lo sforzo di ogni popolo di rispettare e capire le diversità dell’altro.​​ Mondialità culturale​​ non significherà neppure​​ monocultura,​​ né tanto meno​​ occidentalizzazione forzata​​ delle altre c., perché la comunione tra le diverse c. non si dovrà necessariamente configurare​​ ​​ come prevalentemente è avvenuto nel passato​​ ​​ secondo un rapporto di dipendenza o come estensione geografica di un solo modello culturale, ma piuttosto si costruirà in un rapporto di mutua priorità, in cui ognuno conserva la propria originalità in un libero dare e avere. Forse solo nei nostri tempi ci si è convinti della necessità per ogni c. di «mettere in questione​​ ​​ dal suo interno​​ ​​ se stessa, rinunciando alla propria assolutezza e definitività. [...] È finito il tempo in cui gli “altri” erano o un nulla insignificante (i barbari) o il male, i cattivi da combattere e da salvare convertendoli alla propria c.» (Chiavacci, 1977, 671). Pare dunque che la nostra epoca debba cimentarsi e qualificarsi nella capacità di dialogo. Ben lungi dall’insinuare l’idea che si debba avallare quel relativismo culturale per cui una c. assiologicamente considerata ne varrebbe un’altra, riteniamo, al contrario, che il vero problema stia nel trovare il «criterio di giudizio» per valutare una c., che sarà analogo a quello adoperato per giudicare l’uomo: sarà la verità sull’uomo, nella totalità delle sue dimensioni (corporale e spirituale, individuale e sociale) e quale soggetto di libertà e quindi portatore di responsabilità. Poiché la c. non è un assoluto (valore assoluto, su questa terra, è solo la persona umana), ma è l’indispensabile condizionamento e mediazione per un’armoniosa costruzione dell’universo personale e comunitario, essa si qualificherà e dovrà essere valutata, concretamente, per quanto saprà disinteressatamente offrire, effettivamente favorire e imparzialmente difendere, per tutti i membri di una società: una sufficiente quantità di beni economici, indispensabili per​​ esistere​​ e​​ vivere​​ «da uomini»; l’emancipazione da ogni forma di schiavitù, in un quadro di solidarietà e di libertà, senza sacrificare mai l’una o l’altra per nessun pretesto; delle istituzioni socio-politiche democratiche e partecipative, con conseguente rifiuto di ogni forma di totalitarismo e di paternalismo; il rispetto del principio di sussidiarietà, secondo cui i poteri pubblici non devono soffocare i corpi sociali intermedi, nei quali i cittadini possono (e debbono) adempiere i loro doveri ed esercitare i loro diritti con maggiore responsabilità e sicurezza; un abbordabile accesso ai «luoghi» e ai «tempi» che consentono alle persone di scoprire e maturare i valori; un’energica vigilanza nel rispettare l’integrità e il ritmo della natura (questione ecologica); un’indefessa concomitante preoccupazione per la pace.

Bibliografia

Giovanni Paolo II,​​ Sollicitudo rei socialis,​​ nn. 28, 46, 33, 44, 15, 26; Rossi P. (Ed.),​​ Il​​ concetto di c.: I fondamenti teorici della scienza antropologica,​​ Torino, Einaudi,​​ 71970; Ladrière J.,​​ I​​ rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle c.,​​ Torino, SEI, 1978; Gilson É.,​​ La società di massa e la sua c.,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1981; Kluckhohn C. - A. Kroeber,​​ Il​​ concetto di c.,​​ intr. di T. Tentori, Bologna, Il Mulino, 1982; Unesco,​​ Conferenza Mondiale sulle Politiche Culturali,​​ Messico, 1982; Guardini R.,​​ La fine dell’epoca moderna. Il potere,​​ Brescia, Morcelliana, 1984; Rickert H.,​​ Il fondamento delle scienze della c.,​​ intr. di M. Signore, Ravenna, Longo,​​ 21986; Lazzati G.,​​ La c.,​​ Roma, AVE, 1987; Szaszkiewicz J.,​​ Filosofia della c.,​​ Roma, EPUG,​​ 21988; Montani M.,​​ Filosofia della c.: Problemi e prospettive,​​ Roma, LAS, 1991;​​ Carrier H.,​​ Lexique de la culture pour l’analyse culturelle et l’inculturation,​​ Tournai / Louvain la Neuve, Desclée,​​ 1992; Houston R. A.,​​ C. e istruzione nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2000.

M. Montani




CULTURA RADICALE

 

CULTURA RADICALE

Nel corso di quelli che sono stati detti i «difficili anni ’70» sono stati messi in crisi le ideologie, i modelli culturali, i modi tradizionali della ricerca scientifica (e di quella delle scienze umane in particolare); ma si sono pure ricercati nuovi modi di sentire, di fare c. e di fare scienza. In tale contesto può essere collocata quella che è stata denominata globalmente come c.r. (ad indicare un modo globale di sentire che va «alla radice» e che «porta all’estremo» le questioni).

1. Essa si è sostentata soprattutto della psicoanalisi strutturalista post-lacaniana e delle suggestioni di F. Nietzsche; e più genericamente di un certo neo-nichilismo che azzera verità e valori tradizionali e che nega ogni assolutezza. Il concetto tradizionale di soggettività ne esce profondamente scosso. L’uomo è ridotto ad un gioco pirotecnico di pulsioni e di bisogni, che atomizzano l’esistenza individuale e collettiva. Una razionalità immanente alla storia, così come una normatività oggettiva della natura sono considerate assolutamente impensabili. Al limite l’uomo viene paragonato al «rizoma», pianta senza vero fusto e foglie, ricco di riserve interne, dalle diramazioni clandestine e dagli sviluppi sotterranei non prestabiliti. Analogamente la vita collettiva è considerata simile a quella di un formicaio in cui ogni individualità è come dominata da un incessante dinamismo che la supera e che si riproduce oltre ogni mutilazione od eliminazione di questa o quella individualità. Rifiutata ogni fondazione razionale ed ogni collegamento rigido alla tradizione od ogni tentativo di riduzione ad unità organiche, l’esistenza è vista come incessante e libera produzione dei bisogni e dei desideri che liberano «dis-organicamente» la molteplicità spontanea di quelli che son detti «bisogni radicali». Il loro soddisfacimento e la loro libera espansione diventano il principio e la regola suprema d’azione.

2. Tali modi di pensare hanno fatto moda culturale. Per tanti versi hanno interpretato la diffusa aspirazione al benessere e il fascino discreto del consumismo attuale, come pure il desiderio di​​ ​​ emancipazione da ogni forma di soggezione sociale e dall’autoritarismo tradizionale. In tal senso la c.r. è contro l’educazione, vista come apparato e strumento di soggiogamento interiore e di omologazione culturale. Più largamente, oggi essa si manifesta come lotta anti-global contro l’imprenditoria e il mercato mondializzato a difesa delle libertà individuali e di un ecosistema sano; e come laicità progressista e difesa ad oltranza dei diritti umani soggettivi contro ogni forma di fondamentalismo o di ingerenza clerical-conservativa nella vita civile e politica.

Bibliografia

Marcuse H.,​​ Saggio sulla liberazione,​​ Torino, Einaudi, 1969; Heller A.,​​ La filosofia radicale,​​ Milano, Il Saggiatore, 1976; Deleuze G. - F. Guattari,​​ Rizoma,​​ Parma, Pratiche, 1977; Acquaviva S.,​​ In principio era il corpo,​​ Roma, Borla, 1977; Berni S.,​​ Nietzsche e Foucault. Corporeità e potere in una critica radicale della modernità, Milano, Giuffrè, 2005.

C. Nanni