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ADOLESCENZA

 

ADOLESCENZA

Classicamente, l’a. è considerata come il periodo della vita situato tra 1’infanzia e l’età adulta. In termini biologici, l’inizio viene segnalato dalla pubertà e la durata, in genere, viene attribuita ad un arco di tempo che va dai 12 ai 18 anni d’età (le differenze sessuali e delle condizioni ambientali, sociali e razziali fanno oscillare questi limiti temporali). In base ad un criterio di tipo cognitivo-sociale, l’a. va dal momento in cui il ragazzo comincia ad essere capace di utilizzare con una certa autonomia il pensiero logico, fino a quando giunge alla piena integrazione delle sue capacità logico-cognitive ed ha la possibilità di vivere una vita indipendente a livello affettivo, economico e relazionale.

1.​​ Studi sull’a.​​ Nell’ultimo sec. l’a. è stata studiata da diverse scienze; le scienze psicologiche (nell’ambito delle quali ci situiamo) hanno affrontato il tema da molti punti di vista. Ci sembra che le varie prospettive possano essere organizzate intorno a tre gruppi di studi. In un primo gruppo di lavori, che tiene presente una​​ preoccupazione speculativa,​​ è possibile scorgere un tentativo di far aderire la realtà alla teoria (e non viceversa); in altri termini, la preoccupazione è quella di applicare e «imporre» alla realtà adolescenziale le caratteristiche definite aprioristicamente. La concezione psicoanalitica, che in questo gruppo si situa, offre un’ipotesi interpretativa secondo la quale il periodo di crisi e di grande disagio proprio dell’a. va attribuito all’emergere degli istinti e delle forze pulsionali, che provoca uno squilibrio psichico che si manifesta con quei comportamenti disadattivi, a diversi livelli di «patologia», tipici degli adolescenti; si tratta, evidentemente, di una interpretazione di tipo biologico che presenta l’a. come una realtà con caratteristiche legate e condizionate dalla fisiologia dei soggetti. Un secondo gruppo di studi, con​​ preoccupazione sociologica,​​ prende in considerazione i dati reali che emergono da incontri psicologici di tipo clinico con soggetti «atipici» o «diversi» e da osservazioni di tipo sociologico su soggetti «emarginati» o «disadattati». Si tratta di interpretazioni di tipo socio-culturale secondo le quali l’a. sarebbe un «prodotto» della realtà sociale delle diverse strutture nazionali ed internazionali. A questa prospettiva interpretativa si richiama la teoria sociologica secondo la quale le difficoltà adolescenziali, ed i relativi comportamenti disadattivi, sono frutto dell’influsso della società e sono correlati al processo di socializzazione ed alla diversità di ruoli attribuiti all’adolescente. Interpretazioni sempre di tipo sociologico, ma più complete e meno rigide, propongono categorie che consentono una più ampia e realistica visione della condizione giovanile: «marginalità», «frammentarietà», «cambio culturale», «eccedenza delle opportunità» e «lotta per l’identità». Queste due note ipotesi interpretative della psicologia dell’a., biologica e sociale, pongono l’accento solo su uno dei due fattori di sviluppo (endogeno ed esogeno) e non tengono presente, in modo adeguato, il contributo di ciascuno e la possibilità che entrambi hanno di integrarsi. Inoltre, vogliamo evidenziare l’insufficienza di queste posizioni poiché non vi è alcuna corrispondenza tra le caratteristiche adolescenziali da esse indicate, i conseguenti tentativi interpretativi offerti, ed i numerosi dati empirici ormai acquisiti sugli adolescenti. Diversamente, la​​ preoccupazione empirica​​ è ciò che caratterizza il terzo gruppo di studi. La realtà adolescenziale, nell’orizzonte di una definita prospettiva teorica, viene avvicinata sperimentalmente. In altre parole, alla luce di una teoria di riferimento, una ipotesi interpretativa viene confrontata con i dati ottenuti tramite ricerche condotte su adolescenti «normali». Se queste tre categorie di studi prese isolatamente mostrano limiti e carenze, integrandosi possono diventare una chiave di lettura molto utile per approssimarsi nel modo più adeguato e completo alla ricca realtà adolescenziale.

2.​​ Pista di lettura dell’a.​​ Senza pretendere di essere completi e senza voler schematizzare la ricchezza della persona, proponiamo la nostra lettura della realtà adolescenziale. Nella riflessione sull’adolescente, per avere una visione il più completa possibile, è necessario tener presente gli aspetti comportamentali, cognitivi e tendenziali della persona in sviluppo e avvicinarli alla luce di una pluralità di teorie psicologiche.​​ a) Capacità dell’adolescente.​​ L’adolescente è in grado di vedersi dall’esterno, di percepirsi oggettivamente, distaccandosi dalle prime impressioni soggettive; nello stesso tempo, si trova a dover fare i conti con l’ambiente sociale e con la sensibilità che ancora lo rende vulnerabile al giudizio altrui e che, spesso in misura notevole, condiziona e ridimensiona la sua oggettiva capacità di autorealizzazione. Sempre in riferimento allo sviluppo cognitivo, una seconda osservazione vuole evidenziare tanto la capacità dell’adolescente di creare realtà ipotetiche e di immaginare, quanto le sue esigenze di giustizia, uguaglianza e amore universali, che appaiono come una ricerca del senso della vita, di rifiuto della realtà concreta e, alle volte, di sublimazione dei suoi desideri, pensieri e sentimenti. La​​ ricerca della trascendenza​​ attraverso la modalità intellettuale è uno degli aspetti che più caratterizza l’adolescente (riconoscere questo bisogno profondo è un modo stupendo per avvicinarsi a lui). L’adolescente ha difficoltà ad accettare i propri sentimenti; per convivere con tali sentimenti non integrati nella personalità, li «iperdifferenzia». L’iperdifferenziazione dell’esperienza profonda lo rende «unico», lo caratterizza con una diversità tale da fargli pensare che la sua sia una realtà incomunicabile e che nessuno sia in grado di capirlo. Il rapporto interpersonale diventa, quindi, difficile e, alle volte, impossibile; ma, poiché è doloroso vivere incompreso, può nascere in lui la ricerca di un essere così grande, così distante, e persino così diverso, da avere la capacità di capirlo e di comprenderlo. Proprio perché emergente da questo bisogno, da questa ricerca di comprensione, definiamo il rapporto dell’adolescente con la realtà trascendente di​​ falso ascetismo​​ (in quanto derivante, appunto, dalla sublimazione di alcuni bisogni ai quali non si trova una risposta corrispondente). L’adolescente si caratterizza anche per una​​ grande apertura agli altri.​​ Il desiderio della socialità, generalmente, trova soddisfazione nell’incontro con il gruppo dei pari. In esso, il giovane ha la possibilità di confrontarsi, di realizzare attività, progetti o, semplicemente, di «stare con» gli altri; inoltre, visto che il gruppo si propone come referente normativo e affettivo, progressivamente va ad affiancare e sostituire i ruoli parentali consentendo un distacco sempre maggiore dalla famiglia; infine, l’esperienza della relazione con i coetanei, costituisce un valido aiuto alla formazione del senso di identità, poiché permette all’adolescente di conoscersi e di stimarsi di più in quanto, nel gruppo, viene accettato per ciò che è e per ciò che realizza. La capacità cognitiva di cui l’adolescente è dotato e l’importanza dell’ambiente sociale vengono ad interagire con il suo mondo profondo che comprende il passato (a volte pesante da sopportare), i sentimenti autentici, la difficoltà dell’integrazione armonica delle diverse componenti della personalità, le ambivalenze, i bisogni ed altro ancora. In sintesi, possiamo dire che l’adolescente viene visto come una persona capace di mettersi in rapporto proattivo con il mondo circostante e di rispondere ai compiti di sviluppo che gli si presentano e che, progressivamente e armonicamente, lo portano verso la maturità.​​ b) Difficoltà dell’adolescente.​​ Anziché parlare di «problemi», parola che fa pensare a qualcosa da sopportare od a disturbi propri dell’età per cui non si può far altro che aspettare il superamento della fase, useremo le espressioni «aspetti problematici» e «punti focali» che, ci sembra, consentono di cogliere le peculiarità dell’a. e i possibili conflitti intra ed interpersonali senza stigmatizzarli, ma leggendoli in termini processuali di impegno verso una maturità più grande. Un primo, e generale, aspetto problematico consiste, allora, nella difficoltà che l’adolescente incontra nel compiere​​ un’integrazione transazionale​​ delle tre componenti (cognitiva, affettiva, relazionale) della sua personalità; soprattutto, l’adolescente trova difficoltà ad integrare l’aspetto cognitivo e quello tendenziale: malgrado abbia la capacità di auto-vedersi oggettivamente, non riesce a cogliere la positività delle sue esperienze e non riesce a dare una spiegazione soddisfacente delle proprie tendenze, dei sentimenti o di ciò che prova nelle diverse situazioni. Un secondo, e più «banale», aspetto problematico è legato​​ all’immagine corporea.​​ Non è facile per l’adolescente integrare i mutamenti corporei che, spesso, sfuggono al controllo razionale e che non sempre è possibile armonizzare in modo da sentirsi a proprio agio sia con se stessi che nel gruppo dei pari. La conoscenza, l’accettazione e la rielaborazione dell’immagine corporea e la formazione di una adeguata identità psicosessuale, sono compiti molto impegnativi che richiedono la presenza e la mediazione di un educatore. Un terzo punto focale è costituito dalla conquistata capacità di pensare in termini ipotetici, che porta l’adolescente a vivere in un mondo fantastico, nel quale è​​ possibile costruire sia eventi che persone ideali.​​ Due conseguenze di questa conquista possono creare difficoltà all’adolescente. In primo luogo, il cambio della relazione «reale-possibile», che conduce l’adolescente a relazionarsi con il «possibile» come se fosse «realtà», ostacola la capacità di ragionare e di comportarsi in base ai fatti concreti ed all’esperienza vissuta e riflessa. D’altra parte, e arriviamo alla seconda conseguenza, la capacità di vedere come possibili tante risposte e tanti modi di combinare gli eventi e le risorse in suo possesso, porta l’adolescente all’incertezza, all’indecisione e, quindi, blocca la sua azione; non potendo accettare tale immobilità, nel suo disorientamento, chiede aiuto. I problemi emergono allorché l’adolescente confronta la scelta che gli è stata consigliata, e che lui ha messo in pratica, con tutte le altre che la sua capacità di pensiero gli presenta (realizzabili o ipoteticamente possibili che siano) e constata che l’alternativa attuata è più povera di quelle che avrebbe potuto attuare. Questa scoperta può portare l’adolescente ad un sentimento ambivalente: colpevolizza le persone da cui ha ricevuto l’orientamento (ribellione) e, successivamente, nel momento in cui riesce a vedere sia gli aspetti positivi del consiglio ricevuto sia l’interessamento delle persone adulte a cui si è rivolto in cerca di consiglio, si sente colpevole. Un quarto aspetto problematico riguarda la vita relazionale dell’adolescente; la tendenza ad aprirsi agli altri può trasformarsi in​​ tendenza all’isolamento​​ per due ordini di difficoltà. In primo luogo, la non accettazione del proprio mondo personale può portare l’adolescente a costruirsi delle «maschere sociali» che hanno lo scopo di difenderlo dai pregiudizi e dalle etichette sociali e, soprattutto, dal pericolo di venir scoperto negli aspetti negativi che crede di avere o negli aspetti che realmente ha e non gli piacciono. In secondo luogo, la tendenza all’isolamento dell’adolescente è favorita dall’impossibilità di manifestare chiaramente e apertamente nel mondo sociale la sua ricchezza intrapsichica.

3.​​ Suggerimenti educativi.​​ Da un punto di vista educativo è necessario partire da una concezione dell’uomo che permetta di coglierne tutta la ricchezza e che, di conseguenza, offra una visione dell’adolescente come persona che realizza in modo proprio, non solo in funzione dell’adulto che diventerà o del fanciullo che non è più, il compito di essere uomo. Da un punto di vista psicologico in generale e della psicologia dell’a. in particolare, è bene tener presente che un processo educativo si realizza seguendo alcuni passi. Per prima cosa, è necessario «stare con» il soggetto in modo da conoscere la sua struttura cognitiva, il suo modo di ragionare, le sue risorse. L’adolescente si sviluppa continuamente; le sue risposte non sono mai definitive. È necessario saper decodificare e proporre le risposte considerandole parte di un processo, di un dinamismo in continuo sviluppo e mai come entità chiuse e definite. Indichiamo alcune mete che, se comunicate in modo chiaro, possono essere raggiunte favorendo così la crescita dell’adolescente: accettare le opinioni per il loro valore, differire la soddisfazione dei bisogni, operare un equilibrio tra dipendenza e indipendenza, richiedere secondo le esigenze e non solo secondo le apparenze. L’educatore deve essere in grado di capire e di accettare le risposte e le sollecitazioni che gli vengono dal mondo adolescenziale in qualsiasi modo gli arrivino; nello stesso tempo, deve essere capace di dar ragione esplicita delle sue proposte in modo tale che l’adolescente le possa accettare per il loro valore intrinseco (senza dimenticare l’importanza che la persona dell’educatore ha per l’adolescente).

Bibliografia

Arto A.,​​ Psicologia evolutiva. Metodologia di studio e proposta educativa,​​ Roma, LAS, 1990; Palmonari A. (Ed.),​​ Psicologia dell’a.,​​ Bologna, Il Mulino, 1993; Berger K. S.,​​ Lo sviluppo della persona: periodo prenatale,​​ infanzia,​​ a.,​​ maturità,​​ vecchiaia, Bologna, Zanichelli, 1996; Erikson E. H.,​​ I cicli della vita. Continuità e mutamenti,​​ Roma, Armando, 1999; Caprara G. V. - A. Fonzi,​​ L’età sospesa. Itinerari del viaggio adolescenziale,​​ Firenze, Giunti, 2000; Pellai A. - S. Boncinelli,​​ Just do it! I comportamenti a rischio in a. Manuale di prevenzione per scuola e famiglia,​​ Milano, Angeli,​​ 2002; Bonino S. - E. Cattelino - S. Ciairano,​​ Adolescenti e rischio. Comportamenti,​​ funzioni e fattori di protezione, Firenze, Giunti, 2003; Bonino S.,​​ Il fascino del rischio negli adolescenti, Ibid., 2005; Couyoumdjian A. - R. Baiocco - C. Del Miglio,​​ Adolescenti e nuove dipendenze. Le basi teoriche,​​ i fattori di rischio,​​ la prevenzione, Bari, Laterza, 2006; Marcelli D. - A. Bracconnier,​​ A. e psicopatologia, Milano, Masson, 2006; Montuschi F. - A. Palmonari,​​ Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Roma, EDB, 2006.

A. Arto




ADOZIONE

 

ADOZIONE

Istituto giuridico che stabilisce un legame genitori-figli di tipo legale ed affettivo che non esiste per linea biologica. Derivato dal lat.​​ ad-optare​​ (scegliere), indica un rapporto che trae origine da un atto di libera volontà.

1. L’a. è un istituto antichissimo che si trova già codificato nella raccolta delle leggi mesopotamiche del sec. XVIII a.C. In epoca moderna essa è stata caratterizzata fino al sec. XIX da una visione privatistica con funzione prevalentemente patrimoniale che poneva al centro dell’interesse l’adottante. A seguito degli sconvolgimenti sociali e politici della prima metà del sec. XX è nata la necessità di una sua radicale trasformazione in strumento di protezione e integrazione dei minori in contesti familiari.

2. In Italia l’a. come concetto culturale e sociale diverso ha cominciato a diffondersi dopo la II guerra mondiale. Il primo adeguamento delle normative a criteri più avanzati risale alla L. n. 431 / 67 sull’a. speciale che ha ribaltato la prospettiva dell’a.: obiettivo della disciplina giuridica diviene l’adottato con la sua necessità di avere una famiglia, nel senso affettivo, sociale e psicologico del termine, e non più l’adottante. I rapidi mutamenti sociali e la maggiore attenzione alle problematiche minorili hanno portato nel 1983 all’emanazione della L. n. 184 «Disciplina dell’affidamento e dell’a. dei minori» che ha ribadito la centralità dell’interesse del minore e introdotto alcuni elementi innovativi tra cui l’a. internazionale, mai prima codificata in Italia. Nel decennio successivo le a. internazionali hanno superato numericamente quelle nazionali. L’Italia ha recepito con L. di ratifica 476 del 1998 la Convenzione dell’Aia del 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di a. internazionale, nata dall’ampio dibattito sviluppatosi a seguito dei molti abusi perpetrati ai danni dei minori e dei loro Paesi di origine. Nel 2001 è stata pubblicata la L. 149 di modifica di alcune parti della L. 184 / 83.

3. Nel complesso la normativa attuale prevede esclusivamente l’a. piena di minori a seguito della quale l’adottato acquisisce lo status di figlio legittimo degli adottanti di cui assume e trasmette il cognome. Essa consente l’a. a coniugi sposati da almeno 3 anni o che possano dimostrare una stabile convivenza, per lo stesso periodo, prima del matrimonio e che abbiano una differenza minima di 18 anni e massima di 45 con l’adottato. L’a. è permessa anche qualora uno solo dei coniugi superi la differenza massima di non più di dieci anni. L’a. è prevista per i minori dichiarati in stato di adottabilità secondo i criteri stabiliti dalle leggi 184 / 83 e 149 / 01 che regolano con la massima attenzione l’accertamento del loro stato di abbandono. La L. 149 introduce, per la prima volta, la possibilità per l’adottato di ricercare le sue origini. Riguardo all’a. internazionale sono previsti per i coniugi i medesimi requisiti e procedure richiesti per essere dichiarati idonei all’a. nazionale e, per i minori, uguali effetti giuridici oltre all’acquisizione della cittadinanza it. La L. 476 / 98 esclude le a. private ed introduce l’obbligatorietà dell’intervento di enti autorizzati per il percorso all’estero. L’a. di persone maggiori di età è regolata dal titolo VIII del Codice Civile che continua a contemplare questo tipo di istituto con effetti meramente patrimoniali come nel passato.

4. È opportuno notare che, come raccomandato da tutte le legislazioni nazionali più avanzate e dalle convenzioni internazionali, l’a. deve essere considerata esclusivamente come una soluzione estrema per fornire ad un minore un ambiente di crescita e di sviluppo armonico e rispondente alle sue necessità psicologiche ed affettive, dopo aver esperito ogni possibile risorsa per farlo rimanere nella sua famiglia biologica, e in caso di a. internazionale, nel suo stesso contesto culturale ed etnico.

Bibliografia

Fadiga L.,​​ L’a.:​​ una famiglia per chi non ce l’ha,​​ Bologna, Il Mulino, 1999; Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza,​​ A. Internazionali: l’attuazione della nuova disciplina, Firenze, Istituto Degli Innocenti, 2000; Quémada N.,​​ Cure materne e​​ a., Torino, UTET, 2000; Finocchiaro A. - M. Finocchiaro,​​ A. ed affidamento dei​​ minori.​​ Commento alla nuova disciplina, in «Diritto e Giustizia» supplemento n. 25 del 30.06.01.

A. M. Libri




ADULTISMO

 

ADULTISMO

Errore pedagogico di relazionarsi educativamente con i fanciulli e gli adolescenti come se fossero adulti. Termine polemico opposto a puerocentrismo.

1. In senso più propriamente pedagogico, l’a. può essere definito come quell’orientamento «che afferma essere il processo educativo una imitazione del “modello” di​​ ​​ uomo espresso dalla tradizione e fondato su determinate esigenze sociali; per esso viene svalutata la situazione attuale dell’​​ ​​ educando mentre viene esclusivamente valutata la sua capacità a identificarsi con il modello» (​​ Bertolini). Tale indirizzo, soprattutto sul piano didattico, degenera nel​​ magistrocentrismo, nella pretesa cioè di insegnare ai fanciulli i contenuti del sapere con un linguaggio maturo e concettualmente definito in modo rigoroso, inducendo così l’allievo ad un meccanico esercizio mnemonico inadeguato alla sua capacità di​​ ​​ apprendimento.

2. In termini di prassi educativa, quindi, due sono le tendenze da evitare, quella del​​ rigorismo autoritario​​ e quella del​​ lassismo permissivo.​​ Entrambe le tendenze attengono al campo affettivo e morale dell’allievo: da un lato si esagera nell’attribuire al fanciullo in modo sproporzionato una responsabilità di diritti e di doveri, eccedendo, di conseguenza, anche sul piano di una rigida disciplina; dall’altro si attribuisce, in un clima di incontrollato spontaneismo, una capacità di comprensione e di autodeterminazione, che è soltanto il frutto di un lento e graduale​​ ​​ processo educativo verso la maturità. Si potrebbe concludere che non pochi insegnanti per il semplice fatto di «sapere» ciò che devono insegnare, credono anche di «saperlo» insegnare. Ora, un insegnante deve essere senz’altro competente della «materia» che insegna, ma la sua alta qualità si esplicita pienamente quando egli è il competente della comunicazione di questi contenuti ed altrettanto competente nell’acquisire le esigenze, le possibilità, le attese dei suoi allievi, per sapersi relazionare con loro. Questa è la strada maestra, per intervenire al momento giusto e nel modo adeguato, evitando così ogni forma di a.

Bibliografia

Claparède E.,​​ L’educazione funzionale, Firenze, Giunti, 1962; Id.,​​ La scuola su misura,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1982. Per un approfondimento bibliografico mirato cfr. voci «A.» e «Puerocentrismo», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ voll. I e V, Brescia, La Scuola, 1989, 121-122; 1992, 9704-9709.

C. Bucciarelli




ADULTO

 

ADULTO

Etimologicamente il termine a. proviene, dal lat.​​ adolescere​​ (crescere, svilupparsi, rinvigorirsi); letteralmente, quindi, si può definire a. il soggetto che, avendo compiuto l’età evolutiva, ha raggiunto la maturità morfologica (a livello fisico e psichico) e funzionale. Il termine​​ adultità​​ è stato coniato di recente per indicare le caratteristiche e le condizioni che definiscono l’a.

1.​​ L’identità adulta.​​ Da un punto di vista funzionale, poi, per «età adulta» si può intendere quella fase d’età cronologica che sta tra l’adolescenza e l’età senile. Gli studi della scienza psicologica sono indispensabili per dedurre le costanti di questa fase della vita ed in questo contesto due sono gli approcci a cui si fa solitamente riferimento: l’approccio psicodinamico e quello fenomenologico. Nell’approccio psicodinamico​​ vanno segnalati gli studi di​​ ​​ Freud per cui l’a. veniva inteso come soggetto padrone di una​​ genitalità​​ capace di «amare» e di «lavorare»; gli studi di​​ ​​ Jung (1875-1961) interpretano invece l’adultità come età del dubbio in cui appare una fase dualista, quella cioè che vedrebbe emergere un secondo Io che tende a togliere la direzione della vita psichica al primo Io: quello dell’infanzia, di qui la contrapposizione tra due identità che si fa lotta tra i due archetipi del​​ puer​​ e del​​ senex.​​ Tra gli studi psicodinamici però i più noti e funzionali alla dimensione pedagogica sono quelli di​​ ​​ Erikson che con il suo fondamentale lavoro​​ Infanzia e società​​ (1967) e con​​ I​​ cicli della vita​​ (1984), in linea con le teorie freudiane dello sviluppo psico-sessuale, riteneva a. quell’individuo che agisce non in diretta conseguenza della soddisfazione degli impulsi primari, ma che sa conquistarsi​​ un’autonomia funzionale,​​ che sa cioè prefiggersi la realizzazione di scopi che prescindono, in parte, da dati bisogni pulsionali. Nell’approccio fenomenologico​​ l’identità adulta trova soprattutto in alcuni studiosi i suoi interpreti più accreditati. Innanzitutto​​ ​​ Maslow (1971) che vede nella «motivazione» il tratto costitutivo dell’identità altrimenti denominabile «bisogno» della persona.​​ ​​ Rogers nel suo studio su​​ Lo sviluppo della personalità​​ (1961), evocando un modello di sviluppo ontogenetico, vede l’adultità matura nel transito di alcuni passaggi esistenziali qualitativi: dalla incongruenza alla congruenza; dalla non accettazione di sé alla accettazione; dalla non comunicazione alla comunicazione; dalla rigidità mentale alla flessibilità; dal rifiuto delle responsabilità alla accettazione di queste; dall’isolamento alla socievolezza; dalla rigidità alla creatività; dalla sfiducia alla fiducia nella natura umana; da una vita spenta ad una vita piena sul piano dell’esperienza e della ricerca; dall’eterodipendenza all’autodeterminazione. Infine​​ ​​ Lewin che, nella sua opera​​ Principi di psicologia topologica​​ (1936) detta anche «del campo», rivela l’individuazione dell’identità adulta con particolari modalità operative; infatti l’a. per Lewin è quel soggetto che riesce adeguatamente a operare una differenziazione tra la totalità-persona e le figure che di volta in volta gli occorrono per agire e sopravvivere.

2.​​ Apprendere in età adulta.​​ Chi ha responsabilità formative anche nel campo degli a. prevede senz’altro di incontrare delle difficoltà nel realizzare i propri obiettivi. Se da una parte però la ricerca scientifica fa il suo doveroso cammino, dall’altra mai come oggi, con una società in rapida trasformazione, il termine​​ formazione​​ deve essere applicato anche agli a., non solo per compensare lacune di una loro preparazione anteriore (= analfabetismo di ritorno), ma soprattutto per completare e sviluppare la loro cultura. L’educazione degli a. pertanto, in prosecuzione di quella rivolta dall’infanzia alla giovinezza, nel contesto di un’​​ ​​ educazione permanente varia nei contenuti e nelle forme, per tutte le età. È prassi consolidata ormai che tra le specifiche funzioni di tale intervento a favore dell’a. si possono considerare l’educazione civica e politica, l’aggiornamento professionale, la divulgazione tecnica e scientifica, l’informazione artistica e sanitaria, le attività del tempo libero, l’igiene mentale. La formazione dell’a. vede così assicurati periodi ciclici per forme di completamento, di qualificazione, riqualificazione, specializzazione e aggiornamento. Ad una simile alternanza di periodi di formazione e di periodi di lavoro si dà il nome di​​ ​​ educazione continua, o ricorrente o intermittente.

Bibliografia

Lazzaretto A.,​​ La scoperta dell’a.,​​ Roma, Armando, 1966; Erikson E. H.,​​ L’a.,​​ Ibid., 1981; Id.,​​ I​​ cicli della vita,​​ Ibid., 984; Morin E., «Le vie della complessità», in G. Bocchi - M. Ceruti (Edd.),​​ La sfida della complessità,​​ Milano, Feltrinelli, 1985; Bucciarelli C.,​​ L’educazione permanente: un modello di politica educativa,​​ Rimini, Maggioli, 1987; Demetrio D.,​​ L’età adulta, Roma, NIS, 1990; Resnick R. T.,​​ Impulsività,​​ disattenzione e iperattività dell’a., Milano, McGraw, 2002.

C. Bucciarelli




AFASIA

 

AFASIA

Termine ampio per indicare la perdita o l’alterazione dell’uso dei simboli verbali o scritti del​​ ​​ linguaggio.

1. I sintomi principali sono: l’anartria​​ (difficoltà o impossibilità di articolazione della parola); gli​​ stereotipi verbali​​ (ripetizione della stessa parola); la​​ parafrasia​​ (sostituzione o deformazione della parola); la​​ gergofasia​​ (uso di un gergo incomprensibile, fondato su parole deformate e neologismi). Nei casi più gravi l’afasico è incapace di leggere​​ (a.)​​ e di scrivere (agrafia).

2. Vi sono differenti tipi di a.: 1)​​ a. di Broca.​​ Consiste in un disturbo della rappresentazione motoria delle parole e si manifesta attraverso difficoltà di articolazione (inceppi, sostituzioni, anticipazioni di una lettera o di un fonema su un altro, elisioni o assimilazioni di fonemi), riduzione della fluidità dell’eloquio, agrammatismo (difficoltà di usare articoli, aggettivi, preposizioni, declinazioni di verbi, ecc.), anomia (incapacità a trovare la parola appropriata al contesto); 2)​​ a. amnesica.​​ Difficoltà di trovare la parola adatta, per esprimere quanto si ha in mente e ricorso a circonlocuzioni; 3)​​ a. di Wernicke.​​ Uso di un gergo incomprensibile e difficoltà di capire quello che l’interlocutore dice; 4)​​ a. globale.​​ Grave difficoltà, sia di espressione che di comprensione, di linguaggio orale e scritto.

3. Le cause possono essere molteplici: disturbi vascolari, traumi cranici, tumori cerebrali, malattie infiammatorie o degenerative. Relativamente alle anomalie del linguaggio infantile, si distingue tra​​ a. acquisita,​​ che insorge dopo che l’​​ ​​ apprendimento del linguaggio è già avvenuto e​​ disfasia evolutiva,​​ dovuta ad un incompleto sviluppo della funzione linguistica. A pari gravità di lesione, i bambini recuperano più rapidamente e completamente degli adulti.

Bibliografia

Pizzamiglio L. (Ed.),​​ I disturbi del linguaggio,​​ Milano, Etas Libri, 1968; Basso A.,​​ Il paziente afasico,​​ Milano, Feltrinelli, 1977; Code C. - D. J. Muller,​​ Terapia dell’a.,​​ Roma, Marrapese, 1984; Cippone De Filippis A.,​​ Turbe del linguaggio e riabilitazione, Roma, Armando, 1993; Minuto I.,​​ Le patologie del linguaggio infantile, Firenze, La Nuova Italia, 1994; Capasso R. - G. Miceli,​​ Esame neurologico per l’a. (E.N.P.A), Milano, Springer, 2001; Basso A.,​​ Conoscere e rieducare l’a., Roma, Il Pensiero Scientifico, 2005; Jacobson R.,​​ Linguaggio infantile e a., Torino, Einaudi, 2006.

V. L. Castellazzi




AFFETTIVITÀ

 

AFFETTIVITÀ

Per a. intendiamo riferirci al complesso dinamico di sentimenti e di​​ ​​ emozioni che costituiscono la totalità del processo emozionale. Le emozioni si possono definire come uno stato interno complesso ed organizzato nel quale è individuabile una spinta all’azione, una reazione somatica ed una valutazione cognitiva; ed i sentimenti come fenomeni stabili, duraturi, generalmente meno intensi delle emozioni e che contraddistinguono la​​ ​​ personalità dal punto di vista affettivo.

1. Anche se si ritiene che l’a., nel suo insieme di sentimenti e di emozioni, sia presente fin dalla nascita, è pur vero che essa si apprende in larga misura durante tutta la vita. Così nel​​ ​​ bambino appena nato l’a. svolge una funzione fondamentale e si presenta come un elemento importante nel suo sviluppo psicofisico. Al pianto che si verifica alla nascita potrebbe essere riconosciuta anche la funzione di richiamare la madre alle pratiche inerenti alla cura del neonato. Infatti egli per sopravvivere deve soddisfare dei bisogni fisici specifici quali il mangiare, il dormire, l’evacuare, che sono avvertiti mediante sensazioni dolorose e che, soddisfatti dalla madre o dalla persona che lo cura, producono in lui una sensazione di piacere e di benessere diffuso. Il succhiare il seno materno, il piangere per avere la madre, il sorridere alla sua presenza, il rivolgerle i primi balbettii, sono tutti comportamenti in cui si esprime il rapporto affettivo madre-bambino. Solo se il bambino è stato adeguatamente curato dalla madre non vive sotto l’incubo continuo di perderla e con questa sicurezza sopporta le frustrazioni e le inevitabili difficoltà che si verificano durante la sua espansione verso il mondo esterno. Crescendo, infatti, il bambino allarga la sua sfera affettiva ed investe di particolare amore sia alcuni oggetti, come l’orsacchiotto od il succhiotto, che le altre persone della sua famiglia. Più tardi diventeranno anche importanti i coetanei e gli adulti appartenenti all’ambiente a lui vicino.

2. La mancanza di un’a. nell’ambito familiare può indurre nel bambino uno stato di paura e di ansia che apparirà alla prima frustrazione specialmente quando non vi è tra coloro che lo circondano una persona cara alla quale poter comunicare liberamente i sentimenti provati nelle vicende giornaliere. Ciò lo porta a respingere pian piano la consapevolezza del proprio vissuto affettivo interno e a non volerlo sperimentare perché sente che non vi è una persona che possa accettare e comprendere il suo mondo di sentimenti. Alcune volte questa presenza dispensatrice di a. è mancata o manca per motivi contingenti quali il lavoro od impegni tali da lasciare pochi momenti liberi per avvicinarsi con tranquillità e serenità al mondo dell’altro. Oppure vi può essere stata una difficoltà costituzionale a comprendere la necessità di avere dimostrazioni di a. da parte del bambino. L’a. viene così ritenuta qualcosa di superfluo, che può essere sostituito vantaggiosamente da una razionalizzazione. In questi casi il bambino purtroppo finisce con l’apprendere che il bisogno di a. è una cosa solo sua, che agli altri non interessa e che pertanto è bene viverla in segreto o addirittura non viverla affatto. Da ciò può nascere un comportamento difensivo nei riguardi di tutto ciò che è affettivo e che provoca quella sensazione di vuoto, caratteristica della persona che ha soffocato questa importante parte di se stessa. Pertanto vi dovrà essere, per superare la sofferenza, la riappropriazione dei propri sentimenti ed emozioni con l’aiuto di una persona che sappia corrispondere con un caldo clima affettivo.

Bibliografia

D’Urso V. - R. Trentin,​​ Psicologia delle emozioni,​​ Bologna, Il Mulino, 1988; Ammaniti M. - N. Dazzi (Edd.),​​ Affetti,​​ Bari, Laterza, 1990; Sonet D.,​​ Il primo bacio & dintorni: educatori e ragazzi di fronte a sessualità e a., Leumann (TO), Elle Di Ci, 2003; Olivo S. - V. Iurman - M. Colombo,​​ A. e sessualità. Saper ascoltare per saper educare, Trieste, Mgs Press, 2007.

W. Visconti




AFFIDAMENTO

 

AFFIDAMENTO

Istituto giuridico volto ad offrire ad un minore, temporaneamente privo della possibilità di vivere nella sua famiglia di origine, un ambiente familiare idoneo a soddisfare le sue necessità affettive ed educative.

1. L’a. ha le sue basi storiche nel generico concetto di accoglienza privata e di ospitalità dei minori abbandonati; in Italia non esistono sue formulazioni legislative fino al​​ Codice civile​​ del 1942, con cui assume per la prima volta un significato giuridico sia pur ancora piuttosto limitato. Solo negli anni ’70, sulla scia di un significativo ed interessante dibattito culturale e politico promosso da operatori sociali e da associazioni di​​ ​​ volontariato, si è cominciato a considerarlo come possibile forma organica di intervento per i minori in semi-abbandono, non adottabili e con difficili storie di vita. Si è giunti quindi nel 1983 all’emanazione della L. n. 184 «Disciplina dell’adozione e dell’a. dei minori» con cui tale istituto ha trovato una precisa codificazione delle sue finalità e modalità di applicazione. La L. 184 è stata poi in parte modificata ed integrata dalla L. 149 del 2001 che ha dato maggior risalto all’importanza per il minore di vivere nella propria famiglia o in un ambiente familiare ed alla necessità di sostenere il più possibile le famiglie di origine, introducendo inoltre un’importante innovazione con la decisione di chiudere i grandi istituti di accoglienza entro la fine del 2006 e consentendo il permanere delle sole comunità di tipo familiare.

2. La normativa prevede per i minori temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo, che possano essere affidati ad altre famiglie, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurare loro il mantenimento, l’educazione e l’istruzione L’a. viene promosso dai servizi sociali territoriali. Quando vi è il consenso dei genitori naturali, esso è reso esecutivo con decreto del Giudice Tutelare; nel caso manchi tale consenso viene deciso dal Tribunale per i Minorenni. Il provvedimento deve chiarire i motivi dell’a. ed indicare la sua probabile durata, che non deve superare i due anni, ma può essere prorogato qualora se ne ravveda la necessità. I servizi sociali hanno il compito di vigilare sul suo andamento, offrendo a tutte le persone coinvolte sostegno, consulenza, aiuto. È previsto che gli affidatari favoriscano i contatti del minore con la famiglia di origine ed il suo reinserimento nella stessa.

3. L’a. è un istituto complesso, di problematica attuazione e gestione pratica. Nonostante la sua definizione giuridica e le molte campagne condotte da amministrazioni pubbliche e da associazioni private per farlo conoscere a livello sociale e culturale, incontra tuttora difficoltà a trovare la necessaria disponibilità da parte delle famiglie difficilmente in grado di aprirsi ad una ospitalità temporanea ed al rapporto con i genitori naturali dei figli accolti.

Bibliografia

Cambiaso G.,​​ L’affido come base sicura: la famiglia affidataria,​​ il minore e la teoria dell’attaccamento, Milano, Angeli, 1998; Greco O. - R. Iafrate,​​ Figli al confine: una ricerca multimetodologica sull’a. familiare, Ibid., 2001; Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza,​​ I bambini e gli adolescenti in a. familiare, Firenze, Istituto degli Innocenti, 2002.

A. M. Libri




AFRICA sistemi formativi

 

AFRICA: sistemi formativi

1.​​ Tradizione e emancipazione.​​ La tradizione africana è basata sulla vita di clan che provvede alla educazione del bambino. I riti di​​ ​​ iniziazione della fase puberale segnano il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. I codici morali e l’assunzione dei ruoli adulti sono appresi nella vita comunitaria e la pedagogia di per sé non ha una fondazione teoretica. Sulla tradizione antica africana si sono innestati i modelli educativi importati dall’​​ ​​ Europa. La compresenza dei due sistemi valoriali di riferimento ha alla lunga generato forme di convivenza ma anche conflitti e movimenti di​​ ​​ liberazione nazionale. Dagli anni ’60, epoca della decolonizzazione, alla metà degli anni ’70 l’A. cerca faticosamente la propria emancipazione; segue la fase della affermazione degli Stati totalitari e quindi quella della ricerca di vie di liberazione mutuate dall’Occidente capitalista e dall’Est comunista. Il continente africano resta un universo culturale composito sia per le passate vicende precoloniali e coloniali, sia per l’attuale fisionomia politico-sociale dei diversi Paesi che rende difficile l’elaborazione di modelli educativi originali e liberi dall’influenza europea. Solo nello Zaire sono parlati più di 400 dialetti appartenenti ai gruppi linguistici sudanesi e bantu. Tale molteplicità linguistica, comune agli altri Stati africani, trova ancora nelle lingue europee, soprattutto nel fr., nell’ingl. e nel port., un veicolo di comunicazione internazionale insostituibile.

2.​​ Economia e istruzione.​​ Mentre l’A. Occidentale crea una sua comunità economica con PECOWAS, o​​ Economic Community of West African States​​ (fondata nel 1975), l’A. Meridionale cerca un suo sviluppo autonomo dal Sud A., coordinando gli sforzi attraverso la SADCC, o​​ Southern African Development Coordination Conference​​ (fondata nel 1979). A livello internazionale la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale continuano a fornire prestiti a diversi Paesi africani, ed i creditori europei organizzati nel​​ Paris Club​​ e nel​​ London Club,​​ dove reputano opportuno, operano dilazioni nei pagamenti. Questo meccanismo di debiti / crediti trasforma l’A. da continente ricco per natura a continente povero per capacità e possibilità di sfruttamento delle risorse. Di qui la ricerca di personale qualificato da immettere nei processi formativi e nel mercato interno del lavoro. Guerra e povertà (cfr. Angola, Botswana, Sudan, Mozambico) sono problemi che ritardano l’attuazione dei piani di​​ ​​ alfabetizzazione di bambini, giovani, adulti. Le stime del 1990 sull’analfabetismo adulto (Unesco, 1993) registrano percentuali notevoli negli Stati di Burkina Faso (81,8%), Benin (76,6%), Guinea (76,0%), Somalia (75,9%) e meno elevate nel Madagascar (19,8%) e nelle Isole Maurizio (20,1%). Nella maggioranza dei casi sono le fasce femminili della popolazione, la popolazione rurale e gli appartenenti alle classi sociali meno abbienti ad essere più esclusi dalla​​ ​​ scuola, salvo poi effettuare i rientri nel circuito dell’istruzione previsti dalle varie forme di​​ ​​ educazione degli adulti.

3.​​ Sistemi formativi a confronto.​​ Dalle statistiche dell’Unesco (1993) non compaiono dati relativi all’istruzione prescolastica in: Botswana, Ciad, Guinea, Guinea Equatoriale, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Sierra Leone, Tanzania, Uganda, Zimbabwe. Le eventuali agenzie, preposte alla educazione prescolastica in questi Stati, funzionano nelle aree urbane, per iniziativa privata, ad opera delle missioni, e sono spesso accessibili solo alle classi agiate. L’istruzione è obbligatoria e gratuita quasi dovunque: per 5 anni come in Madagascar, per 8 come in Angola e nel Niger, per 9 come in Algeria, per 10 come nel Congo e nel Gabon, per 11 come in Tunisia. Non vi è​​ ​​ obbligo scolastico nei seguenti Stati: Botswana, Camerun Occidentale, Gambia, Kenya, Mauritania, Maurizio, Sierra Leone, Sudan, Swaziland, Uganda. La scuola primaria e quella secondaria sono attivate, dovunque: l’obbligo quando previsto, copre l’arco dell’istruzione primaria e, in qualche caso, il primo ciclo della secondaria. I giovani degli Stati nei quali le istituzioni superiori non sono attivate completano gli studi nelle università africane disponibili, in Europa, negli Stati Uniti d’America, in Canada e, fino a quando è stato possibile, nell’Unione Sovietica. In molti casi la politica dell’educazione nei vari Stati sottolinea la necessità di raggiungere la diffusione universale dell’istruzione primaria e piani specifici vengono periodicamente predisposti allo scopo. Si tratta di un obiettivo difficile, considerata la diversità delle opportunità educative per maschi e femmine, per utenza urbana e rurale e la forte dispersione scolastica data da abbandoni, ripetenze, interruzioni, frequenze irregolari. Diplomati e laureati non sempre decidono di restare in A. e 1’​​ ​​ emigrazione dei professionisti impoverisce ulteriormente le economie e lo sviluppo dei Paesi africani più poveri. Un caso a parte è rappresentato dal Sud A. nel quale è in atto una lenta trasformazione post-apartheid che investe l’economia, la cultura, la scuola. Il nuovo sistema scolastico sudafricano prevede 13 lingue ufficiali: Tingi, più una delle lingue locali. La società multiculturale, presente in A., come in Europa, assume conformazioni interessanti, forse ancora troppo poco studiate fuori dei quadri interpretativi della subordinazione economico-politica. Si pensi ad es. al problema della nuova scrittura dei manuali e alla riformulazione dei curricoli scolastici, alla adozione di linguaggi che permettano la comunicazione tra formazioni culturali diverse. Se da un lato non appare scientifico relazionarsi all’A. come ad un continente senza tradizioni, o dalle tradizioni poco significative, d’altro canto esiste l’urgenza di creare flussi migratori e contatti umani impostati sulla consapevolezza del particolare patrimonio di valori che va scoperto e conosciuto soprattutto attraverso 1’​​ ​​ educazione interculturale e sulla presa di coscienza del condizionamento negativo provocato dal​​ ​​ pregiudizio etnico.

Bibliografia

King E. J., «South A.», in T. N. Postlethwaite,​​ The encyclopedia of comparative education and national systems of education,​​ Oxford, Pergamon, 1987; Chistolini S.,​​ I sistemi educativi nel Sud del Mondo. A. subsahariana, Roma, Euroma-La Goliardica, 1988; Fajana A., «Multicultural education practices in Nigeria», in D. K. Sharpes (Ed.),​​ International perspectives on teacher education,​​ London, Routledge, 1988, 33-42; Dekkere I. - E. M. Lemmer (Edd.),​​ Critical issues in modern education,​​ Durban, Butterworths, 1993; Gandolfi S. - F. Rizzi,​​ L’educazione in A.,​​ Brescia, La Scuola, 2001; Erny P.,​​ Istruzione,​​ educazione familiare e condizione giovanile in A., Torino, L’Harmattan Italia, 2003.

S. Chistolini




AGAZZI Aldo

 

AGAZZI Aldo

n. a Bergamo nel 1906 - m. a Bergamo nel 2000,​​ pedagogista italiano.

1. Figlio di due operai tipografi, primogenito di 8 figli, divenne a 18 anni maestro elementare, a 28 direttore didattico. Diplomato nell’Università Cattolica, con​​ ​​ Casotti, e laureato in Pedagogia all’Università di Torino, divenne insegnante di filosofia all’istituto magistrale, poi libero docente in pedagogia e incaricato a Padova e infine straordinario nell’Università Cattolica (1960), dove fu anche preside di Facoltà e direttore dell’Istituto di Pedagogia.

2. Dotato di vasta e solida cultura umanistica, si aprì alle istanze della socialità e della democrazia, impegnandosi nell’UCIIM, Unione cattolica italiana insegnanti medi, al fianco di​​ ​​ Nosengo, che avrebbe sostituito alla presidenza nazionale, dal 1969 al 1974. Fu anche presidente del Movimento Circoli della Didattica. Partecipò alla Commissione Gonella, battendosi vittoriosamente per la secondarietà della scuola media, fu membro del Consiglio Superiore della P.I. (1951-54 e 1958-62), combattivo membro delle commissioni ministeriali per la stesura dei Programmi della scuola media e degli Orientamenti della scuola materna, fu direttore poi presidente del Centro didattico nazionale per la scuola materna (dal 1950 al 1974), presidente dell’ASPeI, associazione pedagogica italiana, segretario di Scholè, centro di studi fra pedagogisti cristiani, presso l’Editrice la Scuola, dal 1954 al 1968. Presso la stessa Editrice fu anche direttore dal 1948 al 1984 della rivista​​ Scuola Materna​​ e dal 1955 al 1991 della rivista «Scuola e Didattica».

3. I più impegnativi lavori scientifici di A. sono:​​ Saggio sulla natura del fatto educativo,​​ in ordine alla teoria della persona e dei valori​​ (1950),​​ Oltre la scuola attiva. Storia,​​ essenza e significato dell’attivismo​​ (1955);​​ Teoria e pedagogia della scuola nel mondo moderno​​ (1958) e​​ Il lavoro nella pedagogia e nella scuola​​ (1958). Negli anni successivi, oltre alle sue dispense universitarie videro la luce fra gli altri:​​ Gli esami,​​ aspetti pedagogici​​ (1967);​​ Pedagogia,​​ didattica,​​ preparazione dell’insegnante​​ (1968);​​ Le nuove problematiche dell’educazione​​ (1971). Collocatosi nella linea del personalismo educativo (Il discorso pedagogico. Prospettive attuali del personalismo educativo, pro manuscripto, 1963), A. affrontò nei seminari universitari, nelle sedi istituzionali, nei convegni e nei corsi di aggiornamento per docenti e per educatori problemi filosofici, pedagogici, di politica scolastica, didattici, con chiarezza, equilibrio, tenacia, da educatore oltre che da intellettuale impegnato, stimato dai colleghi di tutti gli orientamenti.

Bibliografia

a)​​ Fonti: la bibl. di A.A. (oltre 1600 titoli) è contenuta in:​​ Pedagogia fra tradizione e innovazione.​​ Studi in onore di A.A., Milano, Vita e Pensiero, 1979. b)​​ Studi: Galli N.,​​ A.A., in M. Laeng,​​ Enciclopedia pedagogica, vol. I, Brescia, La Scuola, 1989, 216-224; Id.,​​ La pedagogia di A.A., in «Pedagogia e Vita» (2002) 2, 39-91; Scurati C. (Ed.),​​ Educazione,​​ società,​​ scuola: la prospettiva pedagogica di A.A., Brescia, La Scuola, 2005; Corradini L.,​​ Nosengo e A.,​​ attualità di due centenari, in «La Scuola e l’Uomo» (2006) 8-9, 189-194; Pazzaglia L. et. al.,​​ La passione e l’intelligenza educativa. Il patrimonio pedagogico di A.A, in «Scuola e Didattica» 11 (2007) 2, 49-64.

L. Corradini




AGAZZI Rosa e Carolina

 

AGAZZI Rosa e Carolina

Rosa n. a Volongo-Cremona nel 1866 - m. ivi nel 1951 e Carolina n. a Volongo-Cremona nel 1870 - m. a Brescia nel 1945, educatrici italiane.

1. Alle sorelle A. (ma particolarmente a Rosa) si riconosce il merito di aver attuato la riforma del fröbelismo in Italia e di aver realizzato a Mompiano (Brescia) un sistema di educazione infantile che si rivelò capace di soddisfare con puntualità e con congruenza, le esigenze dei bambini e della società rurale in cui vivevano. In questo sistema interagiscono vari elementi (i bambini, le educatrici, le loro famiglie, i locali, gli spazi esterni, il materiale didattico, le esperienze educative, lo stile magistrale, le modalità comunicative). Al centro c’è il bambino, visto come «germe vitale che aspira al suo armonico sviluppo», che è protagonista attivo del suo apprendimento e partecipe della vita della scuola, grazie alla qualità dell’organizzazione dell’ambiente, delle relazioni, dell’animazione educativa della maestra che è la «regista» della «grande casa e dell’allegra famiglia».

2. R.A. dalla conoscenza del bambino fa scaturire due curricoli: uno (che oggi potremmo chiamare​​ implicito) legato alla qualità dell’ambiente che consente ai bambini di soddisfare la loro curiosità, «di chiedere, di domandare, di guardare e di osservare», il bisogno di conoscere le loro cose, quelle dei loro compagni, il mondo fisico, «la scuola, l’orto, gli oggetti, le piante, gli animali, le persone che vi si trovavano», di fare, di costruire, di interagire; e l’altro​​ esplicito​​ relativo alle attività comunemente considerate a carattere intellettuale quali «la lingua e le abilità in genere». Accanto a questo programma c’è tutta la vita della scuola, con i rapporti che si instaurano tra bambini, tra i bambini ed educatrici e con le occasioni che si presentano per le lezioni, per i dialoghi, per la conversazione, per il racconto e la discussione.

3. Il sistema di Mompiano «si impernia intorno ad un ambiente di vita fisica ed operativa», in cui il bambino prova la gioia di vivere, respira un’atmosfera educativa ed apprende ad essere autonomo e competente, capace di mangiare da sé, di apparecchiare e di sparecchiare, di vestirsi e di spogliarsi, di provvedere ai suoi bisogni, di muoversi nel suo spazio vitale, di organizzare il suo tempo, di fare, di trasformare la materia attraverso il gioco-lavoro, di ben pensare e di esprimere con chiarezza il suo pensiero. Tra i bisogni del bambino, oltre a quello di stare bene, di maturare la propria identità, di autonomia e di competenze, R.A. colloca anche quelli di armonia, di bellezza e del sacro, sostenendo che la sua «incontrastabile individualità impone all’educatrice di attingere da se stessa quanto occorre per promuoverla», per vivificare l’umanità che egli custodisce ed attende di attuare.

Bibliografia

Agazzi A. - S. S. Macchietti,​​ L’educazione dell’infanzia nella scuola materna e il metodo A., Brescia, La Scuola, 1991; Macchietti S. S. et al.,​​ Scuola materna gioia di vivere crescere apprendere, Brescia, Ist. Mompiano «Pasquali-Agazzi», 1996; Macchietti S. S. (Ed.),​​ Alle origini dell’esperienza agazziana: sottolineature e discorsi, Azzano San Paolo (BG), Junior, 2001.

S. S. Macchietti