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CONFORMISMO

 

CONFORMISMO

Il c. si può definire come una accettazione passiva delle norme di comportamento o delle idee del gruppo a cui si appartiene. Esso indica anche l’esecuzione incondizionata degli ordini di un’autorità riconosciuta.

1. Oggi il fenomeno è molto diffuso nella società che è dominata dai​​ ​​ mass media: però, di solito in questo caso si parla più di conformità che di c. Invece l’elemento di base del c. è la rinuncia del soggetto a pensare in modo autonomo, ad agire personalmente, ad esercitare in maniera libera la propria volontà e responsabilità: in altre parole, si tratta dell’accettazione passiva e acritica dei comportamenti, degli atteggiamenti, e delle idee degli altri. Per alcuni psicologi, come per es.​​ ​​ Fromm, il c. risponde ad un profondo bisogno dell’uomo, quello di superare l’isolamento e la propria solitudine. Il legame con il gruppo, in quanto assicura una certa solidarietà ed identificazione, può appagare tale esigenza, e l’individuo attraverso l’adozione passiva dei modelli culturali offerti può così arrivare sino ad annullarsi semplicemente e felicemente nel gregge. Ma il c. si paga sempre con la perdita della propria personalità autentica.

2. Quando la sociologia studia il c. solitamente concentra la sua attenzione sui modelli di condotta. Molti processi di c. possono di fatto essere analizzati come tipi di comportamento funzionale. I canali principali per acquisire i modelli di condotta sono sostanzialmente tre. Il primo, e forse il più importante, è la​​ ​​ famiglia, che è appunto il luogo sociale dove si formano quelle rappresentazioni di valore, quei comportamenti e quelle aspettative destinate a lasciare un segno indelebile nella personalità di un individuo. Il secondo canale è invece il​​ ​​ lavoro, dato che nelle nostre società acquisitive l’attività professionale costituisce uno dei più ricchi serbatoi del prestigio sociale. Il terzo è la​​ ​​ scuola, il cui scopo dovrebbe essere quello di rendere lo​​ status​​ sempre meno dipendente da fattori dati, come la provenienza sociale o il patrimonio (status​​ ascritto) e sempre più connesso alle qualità individuali (status​​ acquisito). La realtà però può essere diversa al punto che talvolta la famiglia e la scuola, invece di favorire il cambiamento, finiscono involontariamente per ostacolarlo producendo un forte c.

Bibliografia

Fromm E.,​​ Fuga dalla libertà,​​ Milano, Edizioni di Comunità, 1963; Id.,​​ Psicoanalisi della società contemporanea,​​ Ibid., 1964; Moustakes C. E.,​​ Creativity and conformity,​​ Princeton, New York, D. Van Nostrand, 1967; Allport G. W.,​​ La natura del pregiudizio,​​ Firenze, La Nuova Italia, 1973; Milgram S.,​​ Obbedienza all’autorità,​​ Milano, Bompiani, 1975; Girard G.,​​ C. e atteggiamenti politici,​​ Milano, Angeli, 1977; Mucchi Faina A.,​​ Il c., Bologna, Il Mulino, 1998; Furedi F.,​​ Il nuovo c. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005.

J. Bajzek




CONFUCIO

 

CONFUCIO

n. nel 551 a.C. a Lu - m. ivi nel 479 a.C, filosofo, maestro e statista cinese.

1. C. (da Confucius, latinizzazione del nome cinese K’ung Fu Tzu); suo padre morì quando egli era ancora un bambino e dopo la morte della madre (528 a.C.) dedicò tre anni alla riflessione e allo studio. Nel 505 a.C. entrò in politica, prima come governatore, e poi come ministro dei lavori pubblici e ministro di giustizia. Come amministratore pubblico fu ammirato e apprezzato da tutti. Indignato della vita corrotta di corte, lasciò la politica, e dal 497 a.C. dedicò gli ultimi anni della sua vita a dure peregrinazioni e all’insegnamento, raccogliendo intorno a sé oltre 3.000 discepoli. C. è considerato il primo pedagogo professionale della sua era e il personaggio più grande nella storia e cultura cinese. C. non ha lasciato scritti, però i suoi insegnamenti sono stati raccolti dai discepoli e si trovano in quattro libri:​​ Dialoghi,​​ Il Libro di Mencio,​​ Grande scienza​​ e​​ Giusto Mezzo.

2. C.​​ fu maestro impareggiabile nell’insegnare che bisogna seguire il​​ Tao​​ (la Via) per arrivare alla felicità. La sua proposta è essenzialmente un umanesimo etico. La natura umana è composta di due elementi, quello fisiologico (i cinque sensi corporali responsabili dei comportamenti fisiologici) e quello psicologico (responsabile dei comportamenti psichici). La sede dei comportamenti psichici o virtù è il cuore. Secondo C. ognuno è nato con un cuore​​ positivo,​​ che per natura ha un senso di virtù, è sensibile alle sofferenze degli altri, sente compassione, cortesia o modestia, ed è dotato del senso del giusto e ingiusto; c’è però la possibilità di sviluppare o perdere la sua sensibilità, poiché l’ambiente esterno può influenzarlo in entrambe le direzioni, anche se non in modo determinante. C. insiste sul ruolo degli insegnanti (genitori e maestri) e sulla creazione di un ambiente proprio, specialmente per i bambini, per imparare. L’educazione è un compito essenzialmente individuale e consiste nell’auto-coltivazione o auto-realizzazione in virtù. Il suo scopo è mantenere il cuore​​ positivo​​ e crescere in virtù o sviluppare​​ jen​​ o​​ karuna​​ (il senso dell’umanità o compassione). Le caratteristiche di​​ jen​​ sono sincerità, rettitudine o integrità, giustizia, devozione e obbligo filiale, rispetto reciproco nelle relazioni con gli altri.​​ Jen​​ si fonda sull’amore, prima per i propri genitori, poi per gli altri. Amore vuol dire promuovere il bene materiale e spirituale degli altri, cioè creare una società migliore di giustizia e pace. In​​ Grande scienza​​ sono presentati i sette gradini per imparare ad agire, investigare gli oggetti ed eventi, estendere la propria conoscenza, praticare le virtù cardinali, creare un ordine, ed arrivare a un mondo di pace e intelligenza.

Bibliografia

Castellani A.,​​ La dottrina del Tao,​​ Bologna, Zanichelli, 1927; Lin Huey-Ya, «Confucian theory of human development», in T. Husen - T. N. Postlethwaite (Edd.),​​ The International encyclopedia of education,​​ vol.​​ II, Oxford, Pergamon Press, 1985, 969-972; Sagramola O., «C.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3083-3087.

S. Thuruthiyil




CONGREGAZIONI INSEGNANTI FEMMINILI

 

CONGREGAZIONI INSEGNANTI FEMMINILI

Istituzioni religiose il cui scopo principale è l’assistenza, l’insegnamento e l’educazione della gioventù femminile.

1. Fin dal​​ ​​ Medioevo la storia dell’educazione extrafamiliare della​​ ​​ donna è strettamente legata all’azione educativa dei monasteri femminili cui spesso le famiglie, specialmente nobili, affidavano le loro figlie, in tenera età, perché potessero realizzarvi la loro formazione. Nell’età del Concilio di Trento, quando l’impegno educativo della Chiesa si intensificò, si affermò notevolmente il desiderio di molte donne di una vita religiosa sciolta dalla clausura (già manifestatosi precedentemente con la fondazione delle Orsoline e delle Angeliche impegnate prevalentemente nell’educazione). Nonostante gli interventi del Concilio di Trento e di Papa Pio V, che ribadivano l’obbligo della clausura, nel tardo Cinquecento e nel Seicento sorsero nuovi istituti femminili, che accoglievano le fanciulle povere per toglierle dai pericoli della strada e per offrire loro almeno il minimo indispensabile di educazione e di formazione cristiana.

2. Al fervore educativo dell’età della Riforma Cattolica si collega l’origine delle scuole per le fanciulle del popolo, la prima delle quali (o una delle prime) fu fondata da S. Rosa Venerini, la quale andò oltre la tradizione che concedeva la possibilità di istruirsi solo a poche donne «privilegiate» la cui formazione comunque si realizzava o nei monasteri o in famiglia. Le scuole di Rosa Venerini e delle sue compagne, le quali non erano religiose e vivevano in piccole comunità, dedicandosi a «fare scuola gratis alle fanciulle», mirando «ad majorem Dei Gloriam», erano istituzioni educative «nuove» che ebbero il merito di offrire a tutte le donne l’opportunità di istruirsi che nel Seicento veniva offerta soltanto a poche. La «novità» delle scuole della Venerini inoltre è dovuta al fatto che in un’epoca in cui la convinzione della «vulnerabilità» degli esseri umani e particolarmente della donna determinava l’affermazione di istituzioni educative «chiuse» si proponevano come «istituzioni aperte». Le alunne infatti vivevano «in famiglia» nelle loro case, con i loro genitori, cioè in un ambiente naturale. Con queste scuole, che seguivano il «metodo» scritto dalla Fondatrice, che quindi avevano «programmi» e che prevedevano, accanto all’educazione e all’educazione religiosa, anche l’insegnamento dei «lavori femminili», «orari», «maestre» e «regole», si intendeva gettare le basi che potevano consentire a tutte le fanciulle di continuare a coltivare la loro spiritualità e il loro saper lavorare (per rendersi economicamente autonome) nel corso della loro esistenza. L’azione di queste scuole, pur essendo culturalmente modesta, contribuì a diffondere, anche se limitatamente, la​​ cultura dell’educazione, a stimolare il Papato, il clero e i «governi» perché si facessero carico della formazione della donna, incoraggiando le famiglie ad assumere le loro responsabilità educativa e aiutandole, rivolgendo la loro attenzione alle madri, le quali erano invitate a partecipare a momenti di preghiera ed a parlare con le maestre dei loro problemi familiari e dell’educazione dei loro figli. Con la fondazione delle scuole, finalmente, si indicava alla donna una prospettiva professionale. Infatti le prime donne laiche, che si facevano chiamare «maestre», sono le prime professioniste dell’educazione che la storia ci presenta, anche se meritano di essere considerate «professioniste» non tanto per le loro competenze e per la loro cultura quanto per la tensione religiosa e morale che sorreggeva la loro azione e per la consapevolezza del significato dell’impegno educativo che testimoniavano nei confronti delle donne adulte con l’intento di sostenere e di aiutare le famiglie nell’educazione cristiana dei figli. Le «maestre», comunque, ebbero il merito, in un tempo in cui faticosamente nel mondo occidentale andava affermandosi la​​ scuola, di creare un’istituzione chiamata a configurarsi come luogo in cui l’educazione, da spontanea e irriflessa, diventa riflessa e specifica, che si propone non solo la trasmissione del sapere ma anche finalità formative. Nelle scuole aperte a tutte le fanciulle dovevano operare educatrici opportunamente preparate allo svolgimento del loro apostolato «magistrale». Pertanto alle donne che si sentivano «vocate» all’insegnamento si concedeva la possibilità di liberarsi dall’obbligo di vivere in famiglia o nei monasteri.

3. Nel corso del Settecento le scuole per le fanciulle e per le giovani si moltiplicarono, anche se il diritto canonico non riuscì ad arrivare ad una collocazione giuridica specifica per gli istituti religiosi, che non prevedevano la clausura e i voti solenni e che talvolta si facevano riconoscere come secolari degli stessi organi civili degli Stati in cui si trovavano ad operare. La presenza di questi istituti si è diffusa e si è intensificata, in particolare nell’Ottocento, ottenendo, soltanto alla fine di quel secolo, pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa come istituzioni religiose, di cui è stata ampiamente apprezzata l’azione educativa, vista come espressione di apostolato e forma specifica di carità. Nel corso del Novecento le c.i.f. si sono particolarmente impegnate nella formazione professionale (iniziale e in servizio) dei loro membri per renderli «pari all’altezza del loro ufficio», per potenziare la qualità culturale delle loro scuole, che, in questi ultimi anni, in molti Paesi accolgono alunni di ambo i sessi e che spesso hanno conquistato una loro propria identità, determinata dalla loro ispirazione cristiana, dalla fedeltà allo specifico «carisma» e dalla spiritualità dei vari istituti, dalla capacità di rispondere con differenziata adeguatezza alle domande di educazione dei singoli e delle comunità in cui operano. Pertanto la loro proposta formativa si è ampliata ed ha rivolto l’attenzione anche alla formazione professionale. Inoltre, talvolta, le educatrici religiose insegnano anche nella scuola di Stato e le loro scuole, che nell’Ottocento e nel primo Novecento hanno accolto particolarmente bambini e fanciulli, impegnandosi nella preparazione delle educatrici, hanno moltiplicato i loro indirizzi, aprendosi anche all’«educazione a livello universitario», pur testimoniando una speciale attenzione per i «piccoli» e per coloro che sono vittime delle vecchie e delle nuove povertà.

4. A queste c.i.f. si deve il merito di aver diffuso nel mondo la scuola cattolica, impegnandosi particolarmente per la promozione umana della donna, aprendosi ai problemi della società, testimoniando una carità fattiva e operosa, realizzando spesso una forma di «maternità affettiva, culturale e spirituale», alla quale la Chiesa guarda con particolare attenzione e con «speranza», chiedendo alle educatrici di testimoniare il Vangelo, capacità di accoglienza, di ascolto, di relazionalità positiva, di servizio e di coltivare la loro formazione spirituale, culturale e professionale.

Bibliografia

Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi (Ed.),​​ Conferenze tenute nel primo Convegno nazionale di studio per le Suore insegnanti d’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1940; Braido P. (Ed.),​​ Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, Vol. I e II, Roma, LAS, 1981; Paolocci C. (Ed.),​​ C. laicali femminili e promozione della donna in Italia nei sec. XVI e XVII, Genova, Associazione Amici della Biblioteca Franzoniana, 1995; Loparco G.,​​ Gli Istituti religiosi femminili e l’educazione delle donne in Italia tra Otto e Novecento, in «Seminarium» (2004) 1-2, 209-258; Bartoloni S. (Ed.),​​ Per le strade del mondo laiche e religiose fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2007.

S. S. Macchietti




CONGREGAZIONI INSEGNANTI MASCHILI

 

CONGREGAZIONI INSEGNANTI MASCHILI

Ci si limita, in questa sede, a citare quelle fondazioni per le quali l’attività dell’​​ ​​ insegnamento ebbe un rilievo notevole, pur non costituendo l’unico campo d’azione. Per secoli, esse ebbero quasi esclusivamente in mano l’educazione della gioventù, rendendosi al contempo benemerite per la conservazione del patrimonio rappresentato dalla cultura classica.

1. Lasciando da parte le​​ Scuole episcopali,​​ già presenti nei primi secoli del Cristianesimo, e le stesse​​ Scuole monastiche e abbaziali​​ (​​ Medioevo), è da ricordare che gradualmente sorsero anche scuole per esterni: in un certo senso nelle scuole dei grandi chiostri potrebbe essere colto il germe dei futuri ginnasi, licei, università, così come nelle scuole dei piccoli chiostri, nelle quali si insegnava a leggere, a scrivere e 1’​​ ​​ abaco, c’era la base dell’educazione elementare. Ma la nostra attenzione si fissa su quelle fondazioni che avevano la finalità educativa chiaramente esplicitata nelle stesse​​ Regole.​​ Degna di ricordo l’opera svolta dalla​​ C. dei Fratelli della vita comune,​​ ispirantesi alla​​ Regola​​ di s.​​ ​​ Agostino, fondata nel 1340 da Gerardo Groot, olandese, alla quale spetta il merito di avere istituito scuole per i fanciulli e le fanciulle delle classi popolari, ed in seguito una scuola anche per i figli di famiglie agiate; acquistò grande importanza la scuola di Deventer, dalla quale uscirono personalità di rilievo (basti pensare a Tommaso da Kempis, a Rodolfo Agricola, a Giovanni Sturm, ad​​ ​​ Erasmo da Rotterdam).

2. Agli inizi dell’età moderna (nel periodo delle Riforme) è tutto un fiorire di iniziative destinate ad un notevole sviluppo nel campo dell’educazione e della scuola. a)​​ Compagnia (C.) dei Chierici Regolari di Somasca.​​ Fondatore (1546) Emiliani (o​​ ​​ Miani). Scopo fondamentale la cura degli orfani, assai numerosi allora per l’infuriare delle guerre in Lombardia e nel Veneto. L’istituzione prevedeva la presenza anche di un​​ lettore​​ (o maestro), e di un​​ solizitador,​​ addetto alla cura dell’attività lavorativa dei fanciulli. Pur mancando notizie dirette e sicure sul tenore di vita e sulle regole introdotte dal Santo nei suoi orfanotrofi, dalla lettura di testi da lui stesso redatti ci si può formare un’idea abbastanza chiara di quali fossero le finalità ed il metodo seguito. Il Miani raccomandava che ci si accertasse «se i putti lezino et recitano». Oltre alla formazione religiosa ed a quella intellettuale, il Capitolo del 1538 disponeva: «li figlioli piccoli e mezzani, i quali lavorano, si faccian leggere la mattina per lo spazio quasi di un’ora, e lo stesso la sera». Quali i lavori? «arte dei teloni o de spagliere [...], gucchiar barette [...] far della trezza di capelli». Testo fondamentale è rappresentato dagli​​ Ordini per educare li poveri orfanelli conforme si governano dalli R.R. Padri della Compagnia di Somasca​​ (Milano, 1620): citiamo una frase che sintetizza gli aspetti del processo educativo. Dottrina cristiana, leggere, scrivere, abaco, in qualche sede «musica e concerto di sonare», e si aggiunge (cosa di grande rilievo dalla angolatura pedagogica) «acciò che con la comodità di diverse arti e virtù possa ognuno seguire la propia inclinazione, e procacciarsi il vitto honoratamente quando saranno fuori dall’hospitale». Discorso analogo vale per le fanciulle. La cura degli orfani fu il campo primo e principale della C. (cosa ribadita nelle Costituzioni del 1677). Ma i Somaschi svolsero notevole attività educativa anche fra le classi nobili: basti citare la decisione di papa Clemente VIII di affidare a loro la direzione del Collegio Clementino in Roma nel 1595. La scelta era più che giustificata; leggiamo nella​​ Bulla erectionis​​ che i Somaschi erano «educationi juventutis ex professo et peculiari instituto vacare soliti», e che avevano dato prove indiscusse in molte città d’Italia, et «praesertim in civitate Venetiarum». Nel citato collegio (dal quale uscì pure un papa, Benedetto XIV) si poté costruire quel metodo di studi che ebbe una prima redazione nel 1741, senza dimenticare che l’importanza di un metodo era stata affermata nelle Costituzioni del 1626. La struttura delle scuole presso i Somaschi si differenziava dal quinquennio previsto dalla​​ ​​ Ratio studiorum​​ dei collegi gesuiti, in quanto non si fissavano limiti precisi per gli anni di​​ ​​ grammatica, perché ci si voleva garantire che gli allievi passassero allo studio dei classici solo se in possesso di sicure conoscenze grammaticali. Rilevante la parte dedicata alle doti che i maestri avrebbero dovuto possedere: onestà di costumi, solida formazione religiosa, accurata preparazione professionale. b)​​ Chierici Regolari di S. Paolo (​​ Barnabiti).​​ Fondatore Antonio Maria Zaccaria (1502-1539). Nelle​​ Costituzioni​​ si faceva divieto ai fratelli di studiare le arti liberali. Non mancano tuttavia spunti di notevole interesse pedagogico: «Sappiate tutti, che è melio lezer pocho et quello masticarlo bene, che trascorrere et vedere molte cose, et più authori, perché questo è più presto pascere la curiosità che studiare». I Barnabiti furono a lungo restii ad accettare alunni esterni nei propri collegi: un mutamento lo si ebbe con p. Bascapè (1584-1593). Destinatari dell’opera educativa furono prevalentemente (anche se non esclusivamente) gli appartenenti alle classi nobili. c)​​ Le Scuole Pie​​ (​​ Scolopi). L’apostolato educativo del Calasanzio (​​ Calasanz) si può fare iniziare con il 1595, ed i destinatari furono in un primo tempo quasi esclusivamente i fanciulli appartenenti alle classi popolari: a lui, per comune consenso, spetta il merito di avere fondato nel 1597, in uno dei quartieri più poveri di Roma, «la prima scuola popolare in Europa». d) I​​ ​​ Fratelli delle Scuole Cristiane,​​ istituiti dal​​ ​​ La Salle, continuarono in Francia l’opera del Calasanzio, dedicandosi all’educazione ed educazione dei fanciulli delle classi media ed infima. Svolsero la loro attività anche in scuole d’arti e mestieri, con il divieto assoluto dello studio del latino (da ciò il nome loro dato di «Ignorantelli»). e)​​ La Compagnia di Gesù​​ (​​ Gesuiti),​​ istituita da Ignazio di​​ ​​ Loyola, fu quella che acquistò la massima importanza e la massima diffusione nel periodo controriformista.

3.​​ Altre esperienze e fondazioni.​​ Tra molte altre, andrebbero ricordate: l’Oratorio​​ di s. Francesco di Sales e la​​ Società Salesiana​​ (1859) di don​​ ​​ Bosco, che fu tra i primi ad istituire scuole serali gratuite per operai, nonché scuole d’arti e mestieri (​​ Salesiani); la C.​​ dei Chierici secolari delle scuole della Carità​​ dei fratelli Cavanis a Venezia.

Bibliografia

oltre alle varie «voci» specifiche nella​​ Enciclopedia pedagogica,​​ a cura di M. Laeng (Brescia, La Scuola, 1989-2003) e nel​​ Dizionario degli Istituti di Perfezione​​ (Roma, 1974), si rinvia al fondamentale lavoro di Escobar M.,​​ Ordini e c. religiose,​​ Torino, SEI, 1951-1953. Utile la consultazione dei contributi dedicati alle varie fondazioni, in​​ Nuove questioni di storia della pedagogia,​​ Brescia, La Scuola, 1977 e nell’Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani / Fondaz. C.S.F. Gallarate, 2006.

F. De Vivo




CONGRESSI PEDAGOGICI

 

CONGRESSI PEDAGOGICI

Riunioni scientifiche regionali, nazionali o internazionali di esperti in pedagogia ed educazione.

1. La loro origine risale alle cosiddette «conferenze dei maestri tedeschi» (il 21° Congresso fu tenuto a Breslau nel 1874), in cui a scopo puramente professionale si trattava di metodologie, procedimenti ed informazioni varie, generalmente relative all’insegnamento primario. Ben presto però divennero riunioni scientifiche a carattere pedagogico, dove si rendevano note ricerche, si diffondevano conoscenze, si confrontavano studi. La loro utilità è stata evidente, perché i relativi​​ Atti​​ costituiscono una fonte sicura e inesauribile di informazioni e sono il fedele riflesso del livello di teorizzazione raggiunto; inoltre l’incontro tra professionisti della pedagogia arricchisce sia il pensiero che la prassi educativa tramite lo scambio di informazioni. I temi trattati dai c.p. abbracciano tutto il panorama della pedagogia e dell’educazione.

2. Dopo che in Germania, si tennero c.p. in Svezia, Francia, Belgio, Stati Uniti, Italia, Spagna ed altri Paesi. Nel 1880 fu tenuto un c.p. internazionale a Bruxelles dalla Lega Belga di Insegnamento; nello stesso anno ve ne fu un altro a Londra, presieduto da Selys Longchamps, presidente del Senato. Altri c.p. si celebrarono a Londra (1884), Parigi (1889) e Chicago (1893), mentre in altri Paesi si tenevano c.p. nazionali. A Madrid, inoltre, nel 1892 si celebrò il c.p. ispano-portoghese-americano e il c. ispano-americano nel 1900. Particolare rilevanza rivestono i c.p. internazionali organizzati dalla​​ World Association for Educational Research​​ (WAER / AMSE): a Gant (I, 1953) sull’insegnamento universitario delle scienze pedagogiche nell’Europa occidentale; a Firenze (II, 1957) sulla sperimentazione in pedagogia; ad Oslo (III, 1961) sul compito della ricerca nell’educazione sociale; a Cambridge (IV, 1965) sul contributo della ricerca pedagogica nella continuità e nel cambio educativo; a Varsavia (V, 1969) su situazioni e compiti derivati dalle necessità e dai problemi teorico-pratici della civilizzazione moderna, dell’industrializzazione, della democratizzazione e della cultura di massa; a Parigi (VI, 1973) sull’apporto delle scienze fondamentali alle scienze dell’educazione; nuovamente a Gant (VII, 1977) sulla realizzazione della personalità mediante l’educazione; ad Helsinki (VIII, 1982) su personalità, educazione e società; a Madrid (IX, 1985) su educazione e lavoro nella società moderna; a Praga (X, 1989) sulle innovazioni scientifiche e tecnologiche in educazione per il futuro; a Gerusalemme (XI, 1993) sul compito e ruolo delle scienze umane nell’educazione per il mondo del XXI sec. Si tengono anche Giornate, c. specifici (storia, lingue, didattiche, filosofia dell’educazione, scuole infantili, tecnologie educative, educazione ambientale, animazione socioculturale, formazione dei docenti, maltrattamento dell’infanzia, orientamento personale, scolastico e professionale, personaggi concreti...) nazionali ed internazionali. Particolarmente ricchi sono i c. di storia dell’educazione tenuti insieme da spagnoli, francesi e portoghesi, con la partecipazione di italiani, con uno sguardo alla nazione propria ed all’​​ ​​ America Latina.

Bibliografia

García Navarro P. de A.,​​ Teoría y​​ práctica de la educación y​​ la enseñanza,​​ Madrid, Hernando, 1902; «Bordón»​​ 234 (1980) 234 (n. monogr.); Bucci S., «C.p.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 3091-3101.

V. Faubell




CONSULENZA PSICOPEDAGOGICA

 

CONSULENZA PSICOPEDAGOGICA

Per c.p. s’intende l’assistenza e l’aiuto rivolti alle persone che si occupano in vari modi di educazione, affinché possano guidare ed agevolare lo sviluppo fisico, intellettuale e morale sia dei bambini «normali», sia di quelli portatori di handicap od affetti da disturbi della​​ ​​ personalità. Per queste ultime categorie gli educatori potrebbero aver bisogno di un’assistenza particolare, in quanto devono essere aiutati nella risoluzione di problemi educativi fuori della norma e quindi necessitano di avere la competenza per poter effettuare un invio mirato a un professionista specifico.

1. In ambito educativo la c., nel senso non professionale della parola, è sempre esistita, mentre come professione si è sviluppata solo nel XX sec., divenendo sempre più finalizzata, deliberata, metodica, obiettiva e scientificamente fondata. Sono stati così creati centri specializzati di c.p. che si avvalgono della partecipazione di vari esperti, quali psicologi specializzati, pedagogisti, logopedisti, assistenti sociali, fisioterapeuti ecc. che sono in grado di esaminare, da varie angolature, i problemi e pertanto possono individuare, in collaborazione con la persona in difficoltà, le soluzioni più convenienti. Si suole operare una distinzione tra la forma di aiuto che possono dare la c.p., il​​ counseling​​ e la​​ ​​ psicoterapia. Nella c.p. gli incontri tra lo specialista e la persona in difficoltà sono brevi e mirati alla soluzione della problematica presentata; nel tipo di c. o consultazione, abitualmente chiamato​​ counseling,​​ invece, vengono esaminati con l’aiuto di un esperto, gli aspetti consci delle difficoltà vissute dalla persona affinché questa possa gestire il contesto in cui vive e riprendere il proprio cammino di crescita, di maturazione e possa vivere in maniera positiva l’esperienza scolastica, familiare, o professionale. Nella psicoterapia, infine, il terapeuta per mezzo di vari metodi psicologici e di colloqui individuali o tecniche di terapia di gruppo, cerca di rimuovere i disturbi mentali, emotivi e comportamentali la cui origine può avere radici nell’inconscio.

2. Il consulente psicopedagogico svolge la propria attività prevalentemente in ambito scolastico, anche se a volte si trova questa figura presso i consultori come supporto alla famiglia nel sostenere il figlio, per cui il suo compito assume caratteristiche di volta in volta diverse. Infatti nella scuola materna egli si impegna ad aiutare il bambino ad inserirsi ed a sentirsi accettato come una persona che ha caratteristiche proprie. Attraverso il​​ ​​ colloquio, riservato e personalizzato, con gli insegnanti ed i genitori del bambino, può giungere a ristrutturare qualche aspetto della dinamica familiare e dei comportamenti parentali che possono avere degli influssi negativi sul fanciullo e che spesso si evidenziano nei suoi rapporti con i coetanei. Il consulente non risolve il problema ma deve far nascere nei genitori e nell’​​ ​​ insegnante la consapevolezza della presenza di una difficoltà, aiutarli a gestirla, e possibilmente a risolverla; deve inoltre orientare i genitori, se necessario, nella scelta di interventi specialistici per risolvere problemi particolari che si manifestano con chiarezza nell’ambiente scolastico. Nella scuola elementare il lavoro del consulente si inserisce nel progetto educativo e pertanto dovrebbe gestire il collegamento tra la scuola materna e la scuola elementare, oltre che tra famiglia e scuola, nella difficile fase dell’impatto, da parte del fanciullo, con una realtà del tutto diversa. Inoltre ha il compito di favorire, presso l’insegnante, una maggiore comprensione dell’alunno e dei suoi problemi. Nella scuola secondaria il consulente acquista un ruolo educativo particolare in quanto, non essendo implicato nelle vicende scolastiche è più adatto a comprendere ed a dialogare con l’adolescente sui problemi della vita che in questa età si presentano complessi ed insormontabili se la loro soluzione viene lasciata al solo soggetto. Nel periodo universitario, infine, il consulente ha una funzione più che altro orientativa per le scelte professionali e occupazionali.

3. Non va dimenticata, infine, l’importanza del lavoro svolto dal consulente sia in ambito rieducativo, dove la sua opera si rivolge a soggetti particolarmente difficili quali i ritardati scolastici, i soggetti caratteriali, le persone con disturbi del linguaggio, i disadattati sociali; sia nel campo della​​ ​​ prevenzione dove, per mezzo di una diagnosi precoce e di un adeguato e tempestivo trattamento, può evitare che nel soggetto si consolidino particolari difficoltà.

Bibliografia

Rogers C. R. - G. M. Kinget,​​ Psicoterapia e relazioni umane,​​ Torino, Bollati Boringhieri, 1970; Zavalloni R. (Ed.),​​ Figura e funzione del consigliere,​​ Roma, Armando, 1975; Korchin S. J.,​​ Psicologia clinica moderna,​​ 2​​ voll., Roma, Borla, 1977; Schneider P. B.,​​ I​​ fondamenti della psicoterapia,​​ Ibid., 1977.

W. Visconti




CONSUMISMO

 

CONSUMISMO

Il c. è generalmente inteso come quel comportamento sociale, assai spesso compulsivo, irrazionale ed eccessivo, che include l’acquisto, l’uso, il godimento, la fruizione di beni e servizi in cambio di denaro o di altre prestazioni personali. I consumi diventano oggetto di studio quando se ne analizzano i tipi e la quantità in relazione alla​​ ​​ classe sociale di appartenenza, alla stratificazione sociale, al sistema socio-economico, allo stile di vita, al tipo di​​ ​​ famiglia, alla disponibilità o scarsità delle risorse, nonché alla qualità dei​​ ​​ bisogni.

1. L’approccio allo studio dei consumi può essere articolato secondo tre direttrici: la prima di carattere​​ socioeconomico,​​ dove l’attenzione è posta sul consumatore, le sue motivazioni e gli altri fattori che, secondo la teoria della domanda, influenzano le sue decisioni di acquisto; la seconda di ispirazione​​ sociopolitica,​​ che, orientata all’analisi critica dei consumi e del c., pone al centro il problema dei rapporti tra produzione e consumo, e in particolare la questione del condizionamento dei bisogni da parte della produzione; la terza, di tipo​​ socioculturale,​​ studia le funzioni simboliche del l’attività di consumo e il ruolo qualitativo dei beni nei rituali di comunicazione e di integrazione sociale. Il concetto di consumi e di c. è quindi una nozione al crocevia tra economia, politica, sociologia, psicologia e antropologia.

2. Nella prospettiva socioeconomica, lo studio dei consumi, partito dall’analisi dei bilanci familiari e dai fattori che li condizionano, secondo le leggi di Engel e poi di Halbwachs, ha evidenziato che i modelli dei consumi degli operai e degli impiegati differiscono notevolmente anche a parità di reddito, suggerendo così l’ipotesi che lo status individuale giochi un ruolo fondamentale nella formazione dei gusti e delle preferenze dei soggetti. Ciò è stato approfondito da Veblen nella sua teoria del «consumo vistoso»,​​ secondo il quale il fine del consumatore è più quello di ottenere dai consumi una maggior stima e apprezzamento che non una vera e propria utilità pratica (1949). I beni sono anzitutto onorifici, danno immagine, creano un alone di rispetto e di esaltazione. Lo sviluppo poi della teoria di Duesenberry mette in campo la funzione della «privazione relativa», secondo cui l’insoddisfazione derivante dai continui confronti con la classe superiore provocherebbe l’impulso a migliorare sempre il proprio tenore di vita e a desiderare beni di qualità superiore (1969). A parere di Hirsch, infine, il c. diventa un vero e proprio linguaggio, o «status symbol»​​ (1981).

3. Si apre così la strada alla​​ prospettiva socioculturale,​​ dove la tesi vebleniana dei beni come strumento di esibizione competitiva viene portata da Baudrillard alle sue estreme conseguenze. In altre parole il c. non è altro che uno scambio socializzato di segni, un modo per ostentare nella «società affluente» la capacità di spesa dell’individuo («l’ostentazione del lusso»)​​ rispetto ai beni anche non fondamentali, in una logica di progressiva autodifferenziazione, vissuta come uno dei bisogni principali. Queste categorie costituiscono infatti la struttura portante del c. e degli stili di vita da esso introdotti, dove i beni di consumo diventano gli strumenti per dare​​ ​​ identità alla persona stessa.

Bibliografia

Baudrillard J.,​​ La società dei consumi,​​ Bologna, Il Mulino, 1976; Paltrinieri R.,​​ Il consumo come linguaggio, Milano, Angeli, 1998; Dell’aquila P., «Il consumo dalla società industriale alla società comunicazionale», in C. Cipolla,​​ Principi di sociologia, Ibid., 2000, 510-546; Ritzer G.,​​ La religione dei consumi. Cattedrali,​​ riti e pellegrinaggi dell’iperconsumismo, Bologna, Il Mulino, 2005; Bauman Z.,​​ Homo consumens, Trento, Erickson, 2007.

R. Mion




CONTENUTI EDUCATIVI

 

CONTENUTI EDUCATIVI

Tutto ciò che, proposto e assunto in relazione con la vitalità interiore del soggetto, gli permette di crescere ordinatamente in pienezza di vita interna e di relazione. Lo sono sia i vissuti e gli elaborati mentali, sia le realtà esterne, accostate come oggetti o simboli e forme culturali.

1.​​ C.,​​ non contenutismo.​​ È preliminare la soluzione di una vecchia polemica contro il contenutismo delle pedagogie scolastiche e extrascolastiche, culturali, catechistiche, professionali, dove dominano i programmi di insegnamento e apprendimento, l’accettazione e l’adesione, con la pretesa di seminare, plasmare, riempire teste come le proverbiali lavagne sulle quali nulla è scritto, formare automi, masse ubbidienti. I denunciatori del contenutismo mettono in primo piano la promozione e cura di processi e stati educanti di​​ ​​ libertà, maturità, sanità fisiche, psichiche e spirituali, relazioni affettive intra e interpersonali, attitudini culturali e virtù morali, spesso vuote di realtà. Forse siamo semplicemente di fronte a nuovi c. che devono bilanciare eccessi di oggettivismo, materialismo, esteriorità, alienazione. Analisi e sintesi sui c.e. esterni partono sempre dalla vitalità personale da maturare in relazione esistenziale con universi di esperienza esterna crescente e comunicante, mantenendo la finalità primaria della​​ ​​ autorealizzazione, anche nella appartenenza e partecipazione larga e competente.

2.​​ Il​​ quadro dei c.e.​​ Si possono distinguere: a)​​ c. reali.​​ Sono le realtà oggettuali che compongono gli universi di identità, appartenenza e partecipazione delle persone e delle condotte. La prima realtà da esplorare, dominare, possedere e gestire è proprio​​ l’io​​ stesso nelle dimensioni corporea, psichica, spirituale, trascendente, individuale, sociale, storica, teologica. Viene poi la​​ ​​ natura, l’intero cosmo prossimo e lontano, la​​ ​​ società e le società degli uomini. Per i credenti, corona ogni altro universo,​​ Dio​​ medesimo, orizzonte religioso primo e ultimo di ogni altro universo; b)​​ c. culturali.​​ Sono gli universi già mediati da varie elaborazioni di informazione, comprensione, sistemazione, assunzione, trasformazione in modo da formare​​ ​​ cultura: modi e stili, ethos e costume, opinioni, credenze e insegnamenti, coscienza e quindi scienza e scienze largamente articolate per ogni realtà, tecniche e tecnologie, elaborati di arte, civiltà, moralità e religione; oggi acquistano particolare rilevanza pedagogica i c. provenienti da o disponibili come «banche-dati» nel mondo della comunicazione di massa e nel mondo virtuale informatico-telematico; c)​​ c. esistenziali ed esperienziali.​​ Sono le condizioni, le situazioni, gli andamenti dell’essere personale, del divenire, crescere, incontrare e relazionarsi. Realisticamente si distribuiscono tra comprensione e incomprensione, aiuti e assenze, libertà e pressione, fino alle condizioni normali o drammatiche e tragiche, quotidiane, economiche, affettive, spirituali di lavoro e di futuro, di fiducia e di fede, di significato e di senso per la vita, di scelte precise e difficili; d)​​ c. e.​​ Sono le idee, i progetti, i processi e i metodi, gli istituti e i piani per affrontare i valori-problemi della educazione attorno ai c. precedenti. Per educare l’io, esplorare, comprendere, valutare, assimilare le realtà, inserirvisi, assumere criticamente la società e le società, la cultura e le culture, parteciparvi, metterle in crisi, produrne, abilitare l’autocoscienza e l’esperienza interiore. Sono anche i processi, i progetti e i metodi della propria educazione e rieducazione. Sono i​​ ​​ valori, non da ricevere per trasmissione, ma da costruire leggendo nella realtà e nella condotta, presenze di vita, fonti di motivi, norme, criteri, modelli, sistemi di verità e moralità,​​ ​​ virtù e costume, cultura, perfino trascendenza. Sono le capacità di problematizzazione e soluzione; e)​​ c. strumentali.​​ Sono i modi, i modelli, i processi, le competenze di uso della libertà di incontro, comprensione,​​ ​​ comunicazione, elaborazione e sviluppo, analisi e sintesi: metodologie, tecniche, capacità e abilità, ecc.

3.​​ Perché e come educativi.​​ I c. sono educativi in quanto sono riferibili ad un progetto-programma di esperienza di vita e per la vita. Emergono e chiedono espansione e organizzazione nei luoghi e nei processi formativi della esistenza personale, della famiglia, della scuola, della convivenza sociale, del sistema della comunicazione sociale. Nei vecchi trattati si dicevano​​ beni educativi. L’espressione si collegava alla dottrina classica aristotelico-tomista della coincidenza trascendentale dell’essere (ens)​​ e del bene (bonum).​​ Se ne potrebbe considerare una elaborazione moderna la distinzione dei c.e. riguardanti il sapere, rispetto a quelli relativi al fare, all’essere e al vivere insieme con gli altri, considerati i quattro «pilastri» dell’educazione (Delors).

4.​​ C. nuovi?​​ Oggi le novità sono molte anche dal punto di vista contenutistico. L’umanesimo classico letterario ed esistenziale è passato prima nella filosofia e poi nella teologia con la centralità delle interpretazioni e delle normative dei soggetti individuali e sociali; ed ha dato il primato alle scienze positive e fenomenologiche. Le attenzioni si sono rivolte più verso 1’​​ ​​ etica che verso la​​ ​​ religione, più verso l’uomo che verso Dio o il mondo stesso (che però negli ultimi tempi ha acquistato nuova udienza a motivo del paventato tracollo ecologico). L’attenzione all’uomo si fa rara per la persona carica di valori, dignità, diritti, doveri e progetti e per l’individuo carico di bisogni e interessi, problemi e preferenze. È cresciuto il peso della​​ ​​ società e del pubblico, che diventano il nuovo soggetto reale, progettuale, di riferimento. A loro volta, nella società dettano leggi la produzione e la tecnica, la​​ ​​ tecnologia, il progresso. La pedagogia ufficiale e istituzionale è interpellata vivacemente da queste novità come anche dalle crisi e sfide moderne e postmoderne e dalla nuova esistenza giovanile e adulta allo stesso tempo globalizzata e frammentata. Prevalgono l’esperienza esistenziale e l’eco dei messaggi mass-mediali e virtual-telematico, ricchi di sfide e controsfide, di proposte e controproposte. La problematicità della situazione attuale tocca direttamente i c., ma anche e soprattutto l’azione educante a riguardo di essi. Si esige accostamento equilibrato, superamento delle incompiutezze imperdonabili, educazione alla informazione, alla riflessione, al giudizio, alla scelta, alla libertà e insieme all’adesione, al consumo e alla riproduzione.

5.​​ Criteri di scelta dei c.e.​​ I c. sono nell’ordine dei mezzi. Fine è l’uomo vivente nella natura e nel mondo,​​ l’homo oeconomicus,​​ sapiens,​​ faber,​​ ethicus,​​ religiosus,​​ politicus,​​ artifex: la persona, uomo-donna, cittadino, lavoratore, professionista, credente. In prospettiva pedagogica, la cultura non è vista tanto e / o in primo luogo nel suo aspetto di patrimonio sociale da tramandare, per la continuità della società di appartenenza (anche se questa funzione sociale dell’educazione non è da escludere), quanto piuttosto come insieme dei c. che costituiscono un utile quadro di riferimento per lo sviluppo di persone, di modo che siano all’altezza delle esigenze della storia sociale, in cui poter operare da soggetti. Ma parlare di​​ cultura educativa​​ non è semplicemente qualificare la cultura a partire da un punto di vista particolare; vuol dire anche e specialmente inserire nel complesso del patrimonio sociale di cultura un criterio selettivo, conseguente ad un giudizio di valore, per cui si viene ad affermare che non tutto ciò che afferisce dalla cultura oggettiva è formativo, ma solo ciò che in tale patrimonio sociale è identificabile mediante criteri di rilevanza oggettiva e di adeguatezza personale, di pertinenza contestuale e di efficacia storica. La considerazione e la proposizione dei c.e., implicano, infatti, un giudizio ed una scelta assiologica, etica e politica, sia da parte dei singoli, sia da parte dei gruppi sociali, sia da parte del corpo sociale nella sua globalità e nei suoi rappresentanti legali, in quanto ultimamente riguardante il modello di sviluppo cui s’intende improntare la vita personale e la vicenda comunitaria. Più direttamente diventano questione di politica educativa e scolastica, ai diversi livelli in cui esse si esprimono. E trovano certamente un loro luogo privilegiato nel momento della programmazione di un qualsiasi progetto educativo. Oggi siamo sempre più coscienti dei dislivelli e delle fratture che spesso esistono tra proposte educativo-culturali familiari, scolastiche, partitiche, imprenditoriali, governative, ecc.; oppure delle diverse opportunità di apprendimento, delle carenze dovute alle condizioni sociali, alla classe di appartenenza, alle condizioni economiche, all’ambiente umano e civile e così via.

6.​​ La ricerca di c.e. per il nostro tempo.​​ Una tale opera di revisione, anzi di riforma dei c.e. e scolastici è particolarmente sentita nel nostro tempo, segnato profondamente dal cambiamento e dalla mobilità sociale ed economica, dalla internazionalizzazione della produzione, dal mercato mondializzato dalla multicultura e dalla globalizzazione dell’esistenza; dalle accresciute possibilità di comunicazione interpersonale e sociale; dall’espansione delle conoscenze (per cui si parla di società della conoscenza e di info-società); e dalla preponderanza della razionalità tecnologica. Le difficoltà tuttavia sono molte: sia per ciò che riguarda l’individuazione dei c. sia per ciò che riguarda le modalità educative della loro proposizione. Il pluralismo intra-culturale impedisce di pensare ad un’omogeneità formativa basata sull’acquisizione di uno stesso bagaglio culturale. D’altra parte sembra necessario un denominatore comune, un insieme di idee e valori condivisi, realmente funzionale ad una vita comunitaria e a uno sviluppo equo e sostenibile, oltre che democratico, per tutti e per ciascuno. Un «luogo» concreto di tali c.e. è oggi visto da molti in ciò che globalmente denominiamo «diritti umani». Peraltro, la coscienza pedagogica più avvertita piega i saperi necessari all’educazione. Verso la loro acquisizione competente, sia in senso operativo che globalmente personal-formativo, in modo che sia permessa a tutti e a ciascuno la sintesi tra il privato ed il pubblico, tra sensibilità individuale e sensibilità sociale, tra coscienza dell’identità personale e coscienza di appartenenza e di partecipazione ad un comune progetto storico, pur nel pluralismo e nella dinamica dell’esistenza individuale sociale, privata e pubblica.

Bibliografia

Lawton D.,​​ Programmi di studio ed evoluzione sociale. Dalla teoria alla pratica,​​ Roma, Armando, 1973; Nanni C.,​​ Educazione e pedagogia in una cultura che cambia, Roma, LAS, 19882; Volpi C.,​​ Paideia ’80. L’educabilità nell’era del post-moderno, Napoli, Tecnodid, 1988; Vico G.,​​ I fini dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1995; Cresson E. - P. Flynn,​​ Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; Delors J. (Ed.),​​ Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; Morin E.,​​ La testa ben fatta.​​ Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina Editore, 2000; Id.,​​ I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Ibid., 2001; Callari Galli M. - F. Cambi - M. Ceruti,​​ Formare alla complessità, Roma, Carocci, 2003.

P. Gianola - C. Nanni




CONTESTAZIONE GIOVANILE

 

CONTESTAZIONE GIOVANILE

Per c.g. generalmente viene inteso quel fenomeno di protesta e di ribellione dei​​ ​​ giovani, soprattutto studenti, europei e non, contro la​​ ​​ società in generale o la classe politica in particolare, che ha visto nel ’68 il suo momento culminante.

1.​​ Natura e contesto storico.​​ Essa ha avuto origine attorno agli anni ’60 negli USA, partendo spesso da istituzioni formative prestigiose, come le università, per diffondersi poi con fasi alterne e con motivazioni e modalità differenziate in altri Paesi sia dell’Europa orientale che del Terzo Mondo. È stato il cammino di un’ideologia che, passando attraverso le proteste della «generazione Beat» (1955), del movimento Hippy e della «New Left» americana degli anni ’60, ha impresso una forte accelerazione a tutte le componenti della società, riportando in primo piano l’esigenza e la volontà di protagonismo da parte dei giovani. I primi fermenti contestativi sistematici apparvero nel 1962 all’Università di Berkeley, a cui seguì dal 1964 al 1967 un più esteso movimento di protesta contro la subordinazione degli istituti di ricerca al potere militare, per culminare nel 1968 con le grandi manifestazioni contro il conflitto vietnamita, l’arruolamento dei giovani americani per quella guerra «infinita», e contro la segregazione razziale. I motivi ispiratori della protesta sono da collegarsi a varie situazioni politiche internazionali, come la Rivoluzione culturale in Cina, la guerriglia in America Latina, la presenza del Che Guevara in Bolivia, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia.

2.​​ Diffusività e caratteristiche.​​ Al di là delle differenti caratterizzazioni che la protesta veniva ad assumere in ogni Paese,​​ il motivo ispiratore​​ di fondo era dato in misura generalizzata da tre fattori e cioè: dalla più viva consapevolezza della precaria situazione universitaria sia a livello politico che didattico e della conseguente «segregazione sociale» a cui i giovani si sentivano avviati per la mancanza di adeguati sbocchi professionali; dalla ripresa più acuta della loro coscienza socio-politica e del loro peso nelle decisioni che più direttamente li riguardavano; dalla rivendicazione studentesca contro i diversi tipi di autoritarismo dei docenti, della struttura accademica, dell’intera società. In sostanza si era acutizzata sempre più l’insofferenza per un certo tipo di rapporti sociali giudicati insoddisfacenti che ora si tentava di cambiare. La protesta ha avvolto l’intera Europa, e ha contagiato anche gli altri continenti in misura proporzionale. In Italia vi erano state occupazioni di Facoltà già fin dal 1963 alla Normale di Pisa, a Firenze, a Trento (che manteneva stretti collegamenti con Berlino). La protesta si è diffusa poi ad altre Università come Roma, Torino e Milano fino a costituire nel ’68 un Movimento di c. non solo di opinione, ma anche di protesta diretta con scontri di piazza e interventi della polizia. Inoltre, ad un periodo definito di «riflusso», immediatamente dopo il ’68, sono seguite fasi successive denominate in modo assai tipico: «Movimento del ’77», i «Ragazzi dell’85», il «Movimento della Pantera» e negli anni ’90 il Movimento della «Jurassic School». La c.g. del ’68 si è qualificata per alcuni​​ tratti caratteristici comuni.​​ Tra questi sono stati importanti: la singolare contemporaneità in tutti i continenti, la particolare somiglianza delle idee, degli stessi slogans e dei comportamenti, l’accesa rivendicazione della soggettività, del protagonismo e della leadership giovanile a scapito della direzione adulta, la forte valenza politica e antiautoritaria della protesta, la critica antiistituzionale globale per una più diffusa democratizzazione del sapere.

Bibliografia

Ardigò A.,​​ Interrogativi ed ipotesi sulla protesta dei movimenti giovanili,​​ in «Studi di Sociologia» 6 (1968) 4; Marcuse H.,​​ La fine dell’utopia,​​ Bari, Laterza, 1968; Keniston K.,​​ Giovani all’opposizione,​​ Torino, Einaudi, 1972; Melucci A.,​​ Movimenti di rivolta. Teorie e forme di azione collettiva,​​ Milano, Etas Libri, 1976; Joussellin J.,​​ La c.g.,​​ Torino, SEI, 1979; Altieri L. et al.,​​ Tempo di vivere. Nuove identità e paradigma giovanile dopo il 1977,​​ Milano, Angeli, 1983; Mion R., «Giovani ’86: Lo specchio infranto», in Ministero Pubblica Istruzione,​​ Salute oggi,​​ Roma, MPI, 1986; Ferrarotti F.,​​ La nostalgia dei padri, in «La Critica Sociologica» (1999) 131 / 132, 1-12; Mucci G.,​​ Che cosa è rimasto del Sessantotto, in «Civiltà Cattolica» 151 (2000) 111-124; Berman P.,​​ Sessantotto. La generazione delle due utopie, Torino, Einaudi, 2006.

R. Mion




CONTINUITÀ EDUCATIVA

 

CONTINUITÀ EDUCATIVA

Il rapporto tra crescita, sviluppo personale e auto- educazione da una parte, e interventi formativi, istituzioni scolastiche, etero-educazione dall’altra, è oggetto permanente della riflessione e della ricerca pedagogica, che hanno trovato diverse mediazioni operative nelle varie epoche storiche. In Italia, negli ultimi lustri, questo problema è stato identificato come questione di c.e. ed è stato affrontato in diversi modi: dall’esterno, riferendosi alla strutturazione dei cicli scolastici, alla loro organizzazione, ecc.; dall’interno, relativamente allo sviluppo della persona dell’alunno che vive l’esperienza scolastica e alle sue esigenze; oppure, in generale, riconoscendo il diritto della persona ad «esprimersi» ed «essere» per quello che è e identificando il compito della struttura educativa nel dare ciò di cui hanno bisogno, sul piano formativo, bambini, fanciulli, preadolescenti, ecc. (Montuschi, 1983).

1.​​ Indicazioni della ricerca.​​ a) La c. dello sviluppo del soggetto, secondo​​ ​​ Erikson, si evidenzia nel fatto che esso non si configura come «pura e semplice successione di parti», ma piuttosto come una «sequenza di stadi», peraltro non rigidamente intesi, all’interno dei quali si delinea la differenziazione e l’emergenza delle «parti», che restano sempre sistematicamente in relazione fra loro. Questa affermazione è stata suffragata dalle ricerche empiriche della psicologia dell’età evolutiva. Tra queste, quelle di​​ ​​ Piaget hanno svolto un ruolo assai considerevole nel delineare alcuni principi fondamentali: le diverse dimensioni della persona – corporea, cognitiva, morale, affettiva e relazionale – sono sempre significativamente presenti e correlate in ogni momento dell’età evolutiva ed oltre; per ogni dimensione esistono particolari momenti critici e decisivi di «emergenza» evolutiva; si possono individuare alcuni principali cicli evolutivi, ma tra l’uno e l’altro non vi sono salti, segmentazioni rigide o barriere, ma nessi e saldature. b) Il principale contributo di mediazione pedagogica tra acquisizioni della ricerca e prospettazione di soluzioni praticabili è venuto da​​ ​​ Hessen che, nell’opera​​ Struttura e contenuto della scuola moderna,​​ ha disegnato un preciso itinerario di «sostegno» scolastico alla realizzazione personale ed ha fondato l’idea di scuola di base, intendendo la c. come progressiva conquista dell’autonomia. Nella proposta hesseniana il rispetto delle caratteristiche psicologiche delle varie età è condizione per una concezione scolastica a misura di persona che eviti precocismi ed «attese» ingiustificate. c) Accanto al problema della c.e. in direzione diacronica, che abbiamo appena delineato, non può essere trascurata la questione dei rapporti sincronici tra le diverse «agenzie» educative che operano contemporaneamente con interventi formativi sul soggetto. Uno specifico contributo utile per affrontare il problema della c. viene dall’«ecologia dello sviluppo umano» elaborata da Bronfenbrenner. In estrema sintesi, la sua ricerca conferma l’importanza della diversità di ambienti formativi per la crescita personale, ma evidenzia anche le condizioni che è necessario rispettare. Afferma, infatti, che «apprendimento e sviluppo risultano facilitati qualora la persona che sta crescendo partecipi a strutture più complesse di attività [...] tuttavia [...] il potenziale evolutivo [...] varierà in proporzione diretta alla facilità e alla quantità di comunicazione bidirezionale esistente tra le due situazioni [...] particolare importanza rivestono le discussioni concernenti una situazione ambientale condotte nell’altra situazione [...] e che [...] la transizione di una persona [...] avvenga insieme a qualcuno nei confronti del quale abbia sviluppato un attaccamento emotivo intenso e duraturo» (Bronfenbrenner, 1986).

2.​​ Soluzioni istituzionali.​​ a) Nei sistemi scolastici dei Paesi dell’Unione Europea si possono evidenziare alcune linee di tendenza comuni che mirano, con strumenti differenziati, a rendere il più costruttivo e continuo possibile il percorso formativo di ogni alunno; ad es.: la diffusione della frequenza di istituzioni per l’infanzia, con diversi Paesi che la considerano obbligatoria; l’aumento progressivo dei sistemi articolati in cicli scolastici in funzione di un migliore adattamento ai «ritmi» degli alunni, che si associa alla definizione ed al controllo di standard di​​ ​​ apprendimento per le diverse età; la diversificazione interna dei percorsi formativi di ogni alunno, direttamente proporzionale alla lunghezza dell’obbligo. In altre parole, non una scuola di base unica e monolitica o segmentata rigidamente secondo schemi d’età, ma una scuola modulata in rapporto alle caratteristiche individuali ed al loro dinamico evolversi, al fine di poter più costruttivamente perseguire gli scopi istituzionali ed educativi della formazione di base. b) Alla luce delle indicazioni della ricerca si può rilevare la presenza di concezioni di «scuola di base» di tipo «lineare» nelle quali si propone che siano definiti in modo preciso, a livello normativo, i «traguardi» che ogni​​ ​​ scuola (materna - elementare - media) deve conseguire, precisando che tali esiti debbono costituire il punto di partenza per il lavoro successivo. Al modello del «domino» e dell’«interfaccia» tra una scuola e l’altra, si contrappone quello di un passaggio processuale fluido, adeguato alla organicità dello sviluppo personale. Le proposte curricolari impostate in chiave lineare, infatti, sembrano trascurare il principio della ciclicità formativa che è, invece, l’elemento centrale di un’impostazione sistemica, la cui portata teorico-operativa deve essere ancora pienamente sfruttata.

3.​​ Prospettive.​​ La c.e. si persegue creando le condizioni anche istituzionali per una positiva evoluzione del processo formativo. Infatti c. non vuol dire prosecuzione meccanica, quanto piuttosto successione non traumatica di esperienze diverse, che proprio in forza della loro diversità sono fonte di arricchimento della formazione, della cultura e, pertanto, della personalità dell’educando, di cui la scuola si fa carico in modo specifico interagendo con le altre agenzie educative. Siamo agli antipodi, cioè, della possibile considerazione banale della c. come eliminazione delle trasformazioni, appiattimento, ovattatura dell’azione formativa. Il punto di riferimento non è né il bambino come è, né come dovrebbe essere, ma è il​​ ​​ processo educativo che, in quanto realizzato da una persona nella sua integralità, esige congruenza e coerenza e, con questo significato, c.

4. In conclusione, il criterio della c. verticale ed orizzontale indica uno specifico modo di considerare i rapporti tra le «agenzie educative» sull’asse diacronico e su quello sincronico, secondo il «paradigma» dell’agire comunicativo che si basa sullo scambio informativo, sulla concertazione, sulla cooperazione. Questa prospettiva implica la condivisione delle finalità educative (formazione integrata della dimensione corporea, cognitiva, affettiva e relazionale della personalità) e la funzionalità specifica dell’azione dei diversi ambienti formativi.

Bibliografia

Hessen S.,​​ Struttura e contenuto della scuola moderna,​​ Roma, Armando, 1949; Erikson D.,​​ Infanzia e società,​​ Ibid., 1967; Piaget J.,​​ Lo sviluppo mentale,​​ Torino, Einaudi, 1983; Montuschi F.,​​ Introduzione alla nuova scuola elementare,​​ Ancona, Il Lavoro, 1983; Bronfenbrenner U.,​​ Ecologia dello sviluppo umano,​​ Bologna, Il Mulino, 1986; Calidoni M. - P. Calidoni,​​ C.e. e scuola di base,​​ Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi,​​ La scuola in verticale,​​ Napoli, Tecnodid, 2000; Santoianni F. - M. Striano,​​ Modelli teorici e metodologici dell’apprendimento,​​ Bari, Laterza, 2003.

P. Calidoni