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CHIESA

 

CHIESA

Il discorso è limitato alla C. Cattolica nei suoi rapporti con la realtà educativa privilegiando il punto di vista teoretico rispetto a quello storico (​​ Cristianesimo).

1. C.​​ e istituzioni educative e scolastiche.​​ La C., vivendo nel mondo, ha dovuto continuamente affrontare e risolvere a livello teorico e pratico, nell’orizzonte significativo della Parola di Dio, quei problemi che nascono dall’inevitabile incarnarsi della sua esperienza di fede nelle culture. Sia il​​ ​​ Magistero della C. che i teologi si sono resi conto che i cristiani, dovendo vivere la loro fede integralmente non solo nell’ambito del cultuale e del religioso ma anche nei settori profani della vita, erano obbligati ad affrontare i problemi emergenti dall’impatto della fede con la​​ ​​ cultura, inventando soluzioni che da una parte fossero coerenti con le esigenze irrinunciabili della loro fede, dall’altra fossero adatte al contesto socioculturale nel quale la fede cristiana doveva incarnarsi. Questo è avvenuto in passato e avviene ancor oggi nel settore educativo e pedagogico. Sono sorti in questo modo, nell’orizzonte significativo della fede cristiana, vari tipi di prassi e di istituzioni educative come pure di teorie pedagogiche, segnate dalla cultura del tempo e del luogo che le ha espresse, diverse tra loro, tuttavia possedenti, ciascuna, una caratteristica che, mentre le accomuna, nello stesso tempo le differenzia dagli altri tipi di educazione. Si tratta infatti di processi educativi, di istituzioni e di teorie pedagogiche messe in opera dalle comunità cristiane all’interno di progetti pastorali ultimamente finalizzati alla​​ ​​ conversione e alla crescita cristiana (​​ educazione cristiana,​​ ​​ pedagogia cristiana,​​ ​​ teologia dell’educazione). I rapporti tra C. e istituzioni educative e scolastiche, lungo i secoli cristiani, non furono né monolitici né univoci. È significativo, ad es., il fatto che, nei primi quattro secoli non solo durante le persecuzioni ma anche dopo la pace costantiniana, la C. non abbia pensato a crearsi su larga scala istituzioni educativo-scolastiche proprie, neppure per il suo clero. Accettò di fatto, sia pure come una necessità e malvolentieri, la scuola ufficiale, legata alla religione pagana, cercando di ovviare al pericolo che essa costituiva per la fede, premunendone gli alunni e provvedendo alla loro educazione e formazione cristiana nell’ambito della famiglia e della comunità liturgica. Molto diverso invece è stato il comportamento della C. in campo educativo e scolastico durante il​​ ​​ Medioevo e nell’epoca moderna e contemporanea. Nell’epoca moderna troviamo qualche presa di posizione autorevole da parte del Magistero in difesa dell’educazione cristiana e della scuola confessionale. Ma solo nell’epoca contemporanea, a partire da Pio XI, la C. ha affrontato in modo organico ed autorevole il problema dell’educazione cristiana in due documenti, differenti per importanza e per l’impostazione e la soluzione di alcuni problemi, tuttavia non in contraddizione tra loro: l’Enciclica​​ Divini Illius Magistri​​ (1929-1930) di Pio XI e la Dichiarazione​​ Gravissimum Educationis​​ (1965) del Conc. Vatic. II.

2.​​ Perché la C. deve interessarsi di educazione e di scuola.​​ Dopo il Conc. Vat. II, l’ecclesiologia cattolica colloca nella natura «sacramentale» della C. rispetto al Regno di Dio il fondamento teologico ultimo della sua funzione umanizzatrice nei confronti delle realtà terrestri, tra cui l’educazione e la scuola. Essendo infatti l’impegno fondamentale della C. quello di servire il Regno di Dio (di cui essa è sacramento, cioè segno e strumento) per la salvezza integrale dell’umanità, le comunità cristiane devono sforzarsi di essere​​ testimonianza​​ (con la vita e con la loro azione),​​ annuncio​​ (con la predicazione),​​ attuazione misterica​​ (con la liturgia) di questa stessa salvezza, offerta a tutta l’umanità da Dio nella pienezza dei tempi per mezzo di Gesù Cristo, manifestazione suprema e parola definitiva di Dio al mondo. Ora questa salvezza, annunciata e mediata dalla C. per la presenza in essa dei carismi dello Spirito Santo, è​​ dono gratuito di Dio,​​ ma è anche​​ impegno che investe la totalità dell’esistenza umana.​​ L’agape,​​ donata alla C. dallo Spirito Santo, mentre da una parte orienta tutta la sua azione pastorale alla conversione e crescita in Cristo dell’umanità intera, dall’altra spinge le comunità cristiane a interessarsi in modo particolare delle nuove generazioni; non solo della loro crescita in Cristo, ma anche della loro educazione morale e formazione culturale, in una parola della loro crescita umana, tenendo presente che questa avviene, oggi, in un mondo ampiamente secolarizzato, ideologicamente e religiosamente pluralistico e conflittuale, ampiamente pervaso, attraverso i mass media, di visioni della vita non solo anticristiane ma pure gravemente disumanizzanti. Per questo ed entro questi limiti, essa è​​ Mater et Magistra​​ per l’umanità intera. La situazione che caratterizza il mondo contemporaneo impone sia alla C. universale che alle c. particolari opzioni nuove e coraggiose proprio in campo educativo e scolastico. Per il bene dell’umanità, le comunità cristiane devono preoccuparsi di formare cristiani umanamente e moralmente adulti e maturi. I singoli cristiani poi, ciascuno secondo le proprie competenze e secondo i doni ricevuti, in collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, devono contribuire, sotto l’ispirazione della fede, a una maggiore umanizzazione ed efficienza delle strutture e istituzioni educative e scolastiche esistenti o, dove questa collaborazione non fosse possibile, devono tentare, a proprio rischio, di progettarne delle nuove, rendendole agenzie di autentica maturazione umana.

3.​​ Modalità di attuazione.​​ Sono principalmente tre le condizioni che permettono alla C. di occuparsi di educazione e di scuola, senza venir meno alla sua missione fondamentale di essere «segno sacramentale» del regno di Dio. La​​ prima​​ consiste nel riconoscimento della bontà e relativa autonomia delle realtà e finalità temporali nei riguardi di quelle specificamente cristiane. Il Conc. Vat. II (GS​​ nn. 33-39) lo ha affermato in modo esplicito e inequivocabile, presentando questa dottrina come conseguenza necessaria del dogma della creazione da parte di Dio di tutta la realtà con le sue finalità intrinseche. Perciò la promozione di processi educativi e di istituzioni scolastiche, finalizzati al conseguimento di cultura e di autentica maturazione umana, è un’attività «buona» in se stessa, a prescindere da ulteriori finalità specificamente cristiane, alle quali può essere ulteriormente ordinata. Queste ultime, però, non devono né fagocitare né strumentalizzare in modo indebito le finalità umane di ordine temporale, eticamente buone. Affermare la distinzione tra realtà e finalità di ordine temporale e realtà e finalità specificamente cristiane appartenenti all’ordine soprannaturale, non significa tuttavia, in alcun modo, arrivare ad una loro separazione o addirittura ad una loro contrapposizione. Al contrario, pensandole nell’orizzonte della Parola di Dio, si deve giungere ad affermare una loro implicanza reciproca nella prassi pastorale ed educativa delle comunità cristiane. La​​ seconda​​ si attua mediante l’accettazione, umile e sincera, del contributo della saggezza umana, presente nell’esperienza viva delle diverse culture, e dell’apporto delle scienze dell’educazione, assunti, l’uno e l’altro, con vigile senso critico nell’orizzonte della Parola di Dio, in funzione di soluzioni sempre più adeguate dei problemi pedagogici. Non è possibile infatti ricavare dalla Parola di Dio sull’educazione, contenuta nella​​ ​​ Bibbia, e dalle interpretazioni date ad essa dalla tradizione cristiana lungo i secoli, una pedagogia rivelata valida per tutti i tempi e le culture, ma solo orientamenti generali per poterla poi costruire in dialogo con le scienze dell’educazione. Perciò i credenti devono impegnarsi in questa ricerca della saggezza umana e nell’utilizzazione delle conquiste umane sia nel campo del sapere pedagogico che in quello delle istituzioni educative. La​​ terza​​ condizione è data dalla prospettiva misterica ed escatologica che deve guidare la C. nel suo impegno di umanizzazione del mondo. Il continuo esigere, nella Bibbia, la sottomissione del sapere e dell’agire umani alla Parola di Dio fa evidentemente supporre non solo la possibilità ma anche l’esistenza di tensioni e contrasti tra saggezza umana e saggezza divina anche in campo educativo. Perciò la C., pur rispettando e promuovendo il lavoro della ragione in campo pedagogico, proprio per la sua adesione incondizionata alla Parola di Dio mediante la fede, dovrà essere sempre vigilante e critica verso ogni esercizio della ragione che avvenga in contrasto con il suo Credo. Inoltre pur riconoscendo la bontà e la validità di ogni sforzo educativo per un’umanità sempre più matura, pur collaborando sinceramente con tutti gli uomini di buona volontà all’attuazione di processi di liberazione e umanizzazione degli oppressi, le comunità cristiane dovranno impegnarsi in queste attività temporali, testimoniando, soprattutto con la vita prima ancora che con la parola, di essere animate dalla fede nell’esistenza di realtà e finalità trascendenti. Infine le comunità cristiane, anche quando reagiscono contro ogni forma di oppressione e di emarginazione o si impegnano a promuovere con sincerità e convinzione processi educativi di crescita e maturazione umano-cristiana all’interno delle differenti culture, devono farlo con motivazioni e in una prospettiva differente rispetto a quelle dei non credenti. Esse infatti, fondate sulla Parola di Dio, credono fermamente che la pienezza della perfezione dell’umanità e il compimento definitivo della​​ ​​ maturità umana a livello personale e comunitario non siano utopie illusorie e irraggiungibili. Sono certi che si realizzeranno a conclusione della storia, con la parusia del Cristo glorioso e la resurrezione, con l’instaurazione dei nuovi cieli e della nuova terra per ogni persona umana che si sforza di vivere secondo verità e ama di amore oblativo e operoso il prossimo. La messa in opera – all’interno di questi orizzonti di significato e sulla base di questi fondamenti – di istituzioni educative e di processi di formazione umano-cristiana, mentre da una parte non li sacralizza né clericalizza, dall’altra li umanizza e permette di qualificarli come «cristiani».

Bibliografia

Nipkow D. E., «Erziehung», in​​ Theologische Realenzyklopädie​​ 10 (1982) 232-253; Valentini D., «C.», in M. Laeng (Ed.),​​ Enciclopedia pedagogica,​​ vol. II, Brescia, La Scuola, 1989, 2558-2571; Groppo G. - G. A. Ubertalli, «L’educazione cristiana: natura e fine», in N. Galli (Ed.),​​ L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II,​​ Milano, Vita e Pensiero, 1992, 25-62; Casella F.,​​ Punti nodali della riflessione pedagogica dalla Divini Illius Magistri alla Gravissimum Educationis, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 293-304; Zani A.V.,​​ Il cammino della C. dalla Gravissimum Educationis a oggi, in «Orientamenti Pedagogici» 54 (2007) 203-226.

G. Groppo




CICERONE Marco Tullio

 

CICERONE Marco Tullio

n. ad Arpino nel 106 a.C. - m. a Formia nel 43 a.C, filosofo e uomo politico romano.

1.​​ L’uomo.​​ C. occupa un posto significativo sia nella storia della filosofia, che nella storia della letteratura latina, come pure nella storia politica di Roma. Compie i suoi studi umanistici e giuridici a Roma e li completa in Grecia e nelle colonie greche dell’Asia Minore (Atene, Rodi) particolarmente nel campo filosofico. È fortemente impegnato nella vita politica, sia con la sua attività oratoria in processi di grande importanza, sia per aver ricoperto diverse cariche politiche. Eletto Console nel 63 salva lo Stato dalla congiura di Catilina. Muore per mano dei sicari di Antonio. In questa sede ci interessa particolarmente l’apporto che con il suo pensiero, con i suoi scritti e con la sua attività ha dato alla pedagogia romana: alla sua base culturale, alla sua metodologia e particolarmente alla definizione e alla formazione dell’ideale dell’oratore.

2.​​ C. e la cultura romana.​​ C. è tra i più efficaci creatori di quella sintesi culturale che, superando una stretta chiusura sulla tradizione del​​ mos majorum,​​ ma senza sacrificarla, la apre all’apporto della raffinata cultura greca, dando origine a quella nuova cultura latina che prese il nome di​​ humanitas.​​ Una sintesi che allo stesso tempo è guidata dalla mentalità romana e ad essa è ordinata: l’idealità greca è calata nella concretezza e saggezza pratica romana, di cui C. è tipico modello, portando alla reciproca integrazione in un nuovo equilibrio che definisce l’humanitas,​​ cioè la cultura romana del periodo ellenistico. Una​​ humanitas letteraria,​​ etica e politica.​​ Sottolineiamo in particolare l’apporto dato da C. nel campo filosofico, come realizzatore di un​​ eclettismo​​ che compone elementi prevalentemente stoici con elementi peripatetici e anche platonici, con una prevalenza data all’aspetto pratico su quello speculativo e quindi alla dimensione etica su quella contemplativa.

3. C.​​ e la pedagogia romana.​​ Le competenze di C. sopra accennate, di filosofo, di letterato e di politico, determinano anche gli elementi costitutivi del suo apporto pedagogico per una sintesi umanistica unitaria. Esso si concretizza nell’ideale dell’oratore, che C. elabora soprattutto nelle sue opere​​ De oratore,​​ Orator,​​ Brutus,​​ Hortensius​​ (perduto). Nella figura e quindi nella formazione dell’oratore richiede l’integrazione armonica di due aspetti: quello​​ culturale​​ e quello​​ virtuoso,​​ tanto da formare quasi una endiadi di​​ humanitas et virtus.​​ Il primato va però alla virtù e alla sapienza, in continuità con la​​ virtus romana​​ ereditata dal​​ mos majorum.​​ Ha così un senso preciso la definizione dell’oratore ricevuta da Catone il Censore:​​ vir bonus dicendi peritus.​​ E si spiega anche che nella sua formazione il primo posto vada alla filosofia (intesa nel senso eclettico sopraddetto). La sapienza avrà dunque la precedenza sulla tecnica; l’eloquenza sulla retorica. In questo C. combatte l’opinione che riserva ai filosofi i temi relativi alla morale, al diritto, alla pietà; che debbono invece essere, in modo diverso e più vivo, trattati anche dall’oratore. Su questa base C. richiede nell’oratore la massima ampiezza di cultura e ricchezza di erudizione: letteratura latina e greca, storia, diritto, vasta esperienza; oltre alle discipline della comune​​ ​​ paideia ellenistica. Tale ampiezza di preparazione culturale era necessaria nell’oratore anche per la vastità e pluralità dei temi di cui si doveva interessare. Cultura contro verbosità. Per questo suggerisce che la sua formazione comprenda anche una permanenza integrativa nelle città della Grecia. Alla visione dell’ideale​​ dell’oratore si aggiunge in C. una buona sensibilità pedagogica: l’attenzione alla natura del giovane; il primo posto dato al talento, il secondo all’arte e all’esercizio; l’adeguamento anche delle mete da raggiungere, senza provocare scoraggiamento in alcuni o presunzione in altri.

C. «tipo» dell’orator.​​ L’esperienza politica, il profondo senso della romanità (del​​ mos majorum​​ e della​​ virtus romana,​​ dello​​ Stato romano),​​ la sincera ricerca filosofica, la formazione giuridica, l’ampia erudizione e l’eminente capacità oratoria qualificano la personalità di C. e da essa si proiettano nell’ideale che egli elabora dell’orator. In questo senso​​ ​​ Quintiliano ha potuto asserire che il nome di C. è il nome stesso dell’eloquenza (cfr.​​ Inst. orat.​​ 10,1). È anche questo un elemento importante in prospettiva pedagogica, poter offrire un​​ modello concreto​​ dell’ideale prospettato.

5.​​ Influsso e risonanze.​​ L’influsso esercitato da C. in campo culturale e pedagogico si può costatare a vari livelli. Uno immediato, come si è detto, nell’ambito della cultura ellenistico-romana; con una incidenza determinante sulla formazione dell’oratore, anche quando, con la crisi della Repubblica e l’avvento dell’Impero, il suo impatto sulla vita dello Stato sfumò. A lui sarà debitore anche Quintiliano nella sua​​ Institutio oratoria.​​ Nel ritorno alla classicità degli umanisti rinascimentali (​​ Umanesimo rinascimentale) C. non solo è uno dei punti di riferimento più significativi, ma la sua imitazione porta anche a quel fenomeno di decadenza formalistica che si chiamò​​ ciceronianismo.​​ C. resta uno dei maestri validi nella storia della pedagogia.

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ C,​​ Opere politiche e filosofiche,​​ a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, UTET, 1953;​​ Dell’Oratore, a cura di A. Pacitti, Bologna, Zanichelli, 1974-77, 3 voll.; b)​​ Studi:​​ Narducci E.,​​ Introduzione a C., Roma / Bari, Laterza, 1992;​​ Galino M. A.,​​ Historia de la educación.​​ I.​​ Edades antigua y media,​​ Madrid, Gredos,​​ 1960; Bonner S. F.,​​ L’educazione nell’antica Roma: da Catone il Censore a Plinio il Giovane,​​ Roma, Armando, 1986; Montanari F. (Ed.),​​ Rimuovere i classici? Cultura classica e società contemporanea, Milano, Einaudi, 2003.

M. Simoncelli




CICLO DI VITA

 

CICLO DI VITA

L’idea di c.d.v. implica una sequenza di eventi che scandiscono l’inizio, lo sviluppo e la conclusione di un processo con caratteristiche di unitarietà interna.

1. La vita dell’uomo nel suo sviluppo dalla nascita alla morte, ha indotto spesso uno studio segmentato per fasi. Del c.d.v. si sono occupati la biomedicina (genetica, auxologia, gerontologia), la​​ ​​ psicologia sociale ed evolutiva (fasi e compiti di sviluppo con le relative soglie critiche), la​​ ​​ demografia, che descrive il c. riproduttivo e i modi in cui si succedono le generazioni dei figli a quelle dei padri, la sociologia della famiglia, che utilizza l’approccio evolutivo o del «c.d.v. familiare» suddiviso in vari stadi, cui competono corrispondenti «compiti di sviluppo familiari».

2. L’uso della categoria del c.d.v. ha diversi pregi connessi sia con la maggior aderenza alla realtà che con la modernità metodologica. Infatti l’attenzione longitudinale ai comportamenti meglio coglie gli eventi consecutivi che definiscono il percorso vitale dei soggetti. Inoltre l’attenzione alla sequenza temporale e delle decisioni fa studiare ogni passo successivo come condizionato dai precedenti. Infine per quanto riguarda la​​ ​​ famiglia,​​ l’approccio del c.d.v. familiare​​ («Developmental Approach») permette di analizzarla come sistema vivente che nasce, si sviluppa e muore avendo in sé una minima relazionalità sociale. Questa verrebbe a cadere quando invece se ne studiano soltanto le variabili singole, come nella prospettiva del concetto di «corso della vita»,​​ che per alcuni Autori (Saraceno, 1986) dovrebbe sostituire il c.d.v. Tale approccio allora enfatizzerebbe soprattutto la dimensione individualistica dello sviluppo e della coppia. Nelle società attuali il c.d.v. è molto più complesso che nel passato per una serie di variabili intervenienti di tipo economico, culturale, strutturale e psicologico che alterano e compromettono la regolarità delle sequenze degli eventi attesi o rendono più imprevedibili gli avvenimenti improvvisi.

Bibliografia

Mcgoldrick M. - E. A. Carter, «Il c.d.v. della famiglia», in F. Walsh (Ed.),​​ Stili di funzionamento familiare, Milano, Angeli, 1986, 259-296; Saraceno C. (Ed.),​​ Età e corso della vita, Bologna, Il Mulino, 1986; Scabini E. - P. P. Donati (Edd.),​​ Tempo e transizioni familiari, Milano, Vita e Pensiero, 1994; Id.,​​ Nuovo lessico familiare, Ibid., 1995; Istat,​​ Indagini multiscopo sulle famiglie​​ (2000-2007), Roma, 2000-2007; Romano M. C. - T. Cappadozzi, «Generazioni estreme: nonni e nipoti», in G. B. Sgritta (Ed.),​​ Il gioco delle generazioni. Famiglie e scambi sociali nelle reti primarie, Milano, Angeli, 2002; Bertocchi F.,​​ Sociologia delle generazioni, Padova, CEDAM, 2004; Romano R. G. (Ed.)​​ C.d.v. e dinamiche educative nella società postmoderna, Milano, Angeli, 2005; Donati P. P.,​​ Manuale di sociologia della famiglia, Roma / Bari, Laterza, 2006.

R. Mion




CICLO DIDATTICO

 

CICLO DIDATTICO

Dal lat.​​ Cyclus​​ (cerchio), rappresenta l’idea della serie, chiusa in se stessa, che si riproduce periodicamente; per estensione, nel linguaggio pedagogico-scolastico, corrisponde​​ all’unità comprensiva​​ ​​ una fase della progressione curricolare, in se stessa compiuta – che si ripete modularmente per costituire l’intero del​​ ​​ piano di studi; di fatto, il c si definisce organizzativamente come «multiplo» della classe, che resta l’unità operativa minima.

Storicamente, si può considerare l’analogo della «classe», alla quale si oppone come alternativa mirata a correggerne la rigida scansione annuale, che impone i ritmi dell’artificio cronologico-formale alla varietà dei gradienti di sviluppo individuali.

2. Rispetto alla «classe», c. è una nozione che si distingue per alcuni attributi definienti: a) il riferimento ad uno «stadio»​​ evolutivo della personalità dell’alunno in relazione ai compiti di​​ ​​ apprendimento.​​ Per questo aspetto,​​ il c. si qualifica per la relazione peculiare tra il piano di studi e l’età psicologica del soggetto in formazione, e quindi per​​ la funzione che assolve​​ (come nel francese​​ cycle d’orientation);​​ b) per l’idea di​​ discontinuità​​ che sottolinea, rispetto agli altri c., a ragione della compiutezza interna che esprime; c) viceversa, per l’idea di​​ continuità,​​ connessa alla successione di cui rappresenta una parte; d) per la caratterizzazione del​​ tipo di insegnamento​​ che richiede in relazione allo sviluppo dell’alunno.

3. Introdotto come risposta istituzionale alle istanze dell’attivismo (​​ Scuole Nuove), l’evoluzione dei modelli didattici verso la centratura sulle discipline di studio, sulle metodologie d’indagine e sugli obiettivi da perseguire ha ottenuto di far perdere rilievo ad un termine che si era affermato insieme alle denunce dei ritardi e degli insuccessi scolastici.

4. Il c. è tornato in auge negli ultimi dieci anni in riferimento a due contingenze : a) la riforma della durata ed articolazione interna dell’intero curricolo scolastico – v.​​ riordino dei c.​​ – in particolare per le divergenti politiche in materia di​​ ​​ obbligo scolastico e, più in generale, di «missione» della scuola; b) le strategie di razionalizzazione della rete scolastica, che ha visto la diffusione degli​​ ​​ «istituti comprensivi» e conseguentemente la pratica di «curricoli in verticale» fra diversi gradi scolastici.

Bibliografia

Calidoni M. - P. Calidoni P.,​​ Continuità educativa e scuola di base,​​ Brescia, La Scuola, 2000; Cerini G. - M. Spinosi,​​ La scuola in verticale, Napoli, Tecnodid, 2000; Damiano E. (Ed.),​​ Idee di scuola a confronto, Roma, Armando, 2002.

E. Damiano




CITTADINANZA

 

CITTADINANZA

Con il termine c. si indicano tanto la relazione tra un individuo e uno Stato quanto i diritti e i doveri che tale relazione comporta per l’individuo.

1. La c. moderna è il risultato di un duplice evento storico: l’affermarsi dell’idea di nazione (con la conseguente trasformazione dell’entità politica a cui gli uomini dovevano fedeltà: dalla città, dal clan, dall’aristocrazia alla nazione come entità geografica, culturale e politica) e la distruzione del sistema dei tre «stati» tipica dell’Ancien ré­gime​​ decretata dalla Rivoluzione francese con la conseguente affermazione del principio dell’uguaglianza giuridica di ciascun cittadino. Negli ultimi due secoli questa dimensione della c. si è, d’un lato, arricchita sul versante sociale (con la sempre più avvertita consapevolezza che senza uguaglianza sociale la stessa uguaglianza giuridica finisce per essere meramente formale) e, dall’altro, ha palesato evidenti limiti a fronte della realtà delle grandi comunità governate in modo rappresentativo.

2. Nella cultura politica contemporanea è possibile individuare – ragionando in termini molto schematici – alcune principali posizioni. La prima poggia sul presupposto che non sia più possibile nelle società postmoderne alcun tipo di c. «forte» e cioè poggiata su quel nucleo di valori etico-politici (come ad es. la nazione o i valori borghesi) su cui si è svolta per due secoli la cultura politica occidentale. Nel richiamare preferenzialmente la civiltà del cosmopolitismo ellenistico, anziché quella della​​ polis​​ greca, i sostenitori della c. «debole» rilanciano l’insegnamento di stoici ed epicurei che reputarono superato il modello politico-paidetico della​​ polis​​ e sostennero il valore dell’individuo indipendentemente dall’associazione politica di cui faceva parte. Inoltre essi condividono una concezione di Stato smagrito di qualsiasi contenuto ideale (e, dunque, molto diverso per es. dallo Stato-nazione otto-novecentesco) il cui compito principale dovrebbe essere quello di mediare i conflitti e garantire la molteplicità delle esperienze personali e le pari opportunità per ciascuno, sottraendo la c. a logiche normative, riconducendola ad una rete di rapporti egualitari basati sul reciproco riconoscimento (Habermas, Luhmann). Non mancano anche coloro che, pur riconoscendosi in questo contesto, reputano tuttavia necessarie alcune regole etico-politiche positive generali in grado di promuovere e conservare i valori della democrazia, giudicata il modello politico più perfetto (Bobbio). Negli ultimi anni, segnati dall’intensificarsi dei processi migratori e dal conseguente misurarsi e confrontarsi di culture, religioni, tradizioni diverse, si sono moltiplicati i tentativi per individuare un nucleo di «valori condivisi» o «valori comuni» (Maffettone, Veca, Viano) intorno ai quali elaborare una nozione di c. improntata al reciproco rispetto delle diversità. Questa posizione – che sta notevolmente influenzando i programmi scolastici di numerosi Paesi europei sulla scorta anche delle suggestioni di importanti documenti internazionali (tra tutti il cosiddetto Rapporto Delors,​​ Learning: the Treasure within, 1996) – si sta tuttavia scontrando con le tesi di quelle culture extra europee che rimproverano alla teoria dei «valori comuni» la sua matrice intrinsecamente illuministica ed eurocentrica.

3. Su posizioni del tutto diverse si muovono le tesi comunitariste (MacIntyre, Arendt, Sanders, Taylor) che ripropongono, invece, la validità dell’idea classica di c., prospettando l’esperienza comunitaria della​​ polis​​ greca come esemplare e la​​ Politica​​ di​​ ​​ Aristotele come un testo ancora in grado di parlare all’uomo contemporaneo. La c. è così vista in funzione dell’appartenenza alla comunità e nella prospettiva del bene comune ed è così in- tesa sia come categoria politica e sia come impresa educativa. I comunitaristi ipotizzano infatti uno stretto intreccio tra libertà, solidarietà e responsabilità individuali e comunitarie e le prassi, i riti, i processi socializzanti ed inculturanti attraverso cui essa si costituisce. Anche tra i comunitaristi esistono quanti avvertono tuttavia che l’ipotesi di c. ricca di ideali rappresenta certamente un fondamentale modello teorico, che risulta però di ardua praticabilità nella società complessa nella quale è difficile identificare un nucleo di valori comuni intorno a cui costruire un​​ ethos​​ comunitario. Per questi autori la c. comunitaria dovrebbe costituirsi in forme «societarie» (e non stataliste), facendo riferimento ai diritti dei singoli e dei gruppi sociali così come si realizzano nelle formazioni sociali autonome, quale che sia la loro sfera d’azione (economica, culturale, politica o sociale), intese come insieme o «rete» sociale capace di stabilire ed assicurare nuove e più significative relazioni all’interno della società (Donati).

4. Non è difficile constatare come i due principali modelli di c. oggi vivi nel confronto nella cultura contemporanea (universalistico-individualistico e comunitario) implicano approcci educativi molto diversi. Nell’ipotesi della c. universalistica dominano atteggiamenti formativi ispirati alla tolleranza, al senso di reciprocità delle esperienze, al pieno esplicarsi in senso per lo più individualistico delle attese e aspettative personali, al rispetto della diversità, considerata più come fatto individuale che come valore culturale e collettivo. Nel caso della c. comunitaria prevale, invece, la convinzione che tra la dimensione personale e quella storico-sociale della persona umana non c’è contraddizione e che anzi l’una integra l’altra (la libertà senza solidarietà sconfina nell’egoismo particolaristico). Le categorie pedagogiche prevalenti risultano perciò quelle dell’educazione alla responsabilità (intesa nel duplice senso di responsabilità personale e responsabilità comunitaria), al superamento di sé, alla partecipazione sociale, alla valorizzazione della «memoria» collettiva nella quale s’invera ciascuna esperienza personale.

5. Notevoli suggestioni in prospettiva educativa e pedagogica giungono anche dalle tesi di alcuni autori di ispirazione repubblicana (Gutman, Pettit, Skinner, Viroli) e non (Naval, Höffe) che hanno di recente rilanciato il motivo della «virtù civica» intesa come forma di appartenenza solidale alla società in cui si vive (il cosiddetto «cittadino attivo» o, nel linguaggio americano, il «cittadino patriota»). Lo scopo è quello di sfuggire al rischio intellettualistico connesso alla determinazione del valore condiviso. La virtù civica oltrepassa infatti il principio del valore condiviso, per coinvolgere in presa diretta il cittadino nell’esperienza della socialità civica. Le virtù civiche non pretendono che questi diventi una persona del tutto nuova, ma che più semplicemente sia capace di sacrificare il proprio interesse per il bene comune. Questo approccio di natura politologica manifesta punti di affinità – talvolta anche esplicitamente intrecciandosi – con le iniziative avviate negli Stati Uniti dal Movimento per l’educazione del carattere (tra i suoi maggiori esponenti va segnalato Thomas Lickona). L’obiettivo è quello di creare la «comunità morale» nel senso proposto da Kohlberg attraverso l’esercizio della volontà degli allievi, ponendoli di fronte a impegni severi e stimolandoli a raggiungere risultati eccellenti. Lo scopo è quello di aiutare gli allievi a conoscere l’altro come persona, a stimare i membri della comunità ed a sperimentare sensi di responsabilità verso il gruppo di appartenenza. La scuola della c. attiva non sarebbe perciò tanto o soltanto quella che si riconosce laicamente in alcuni valori condivisi, ma quella che lavora per sfuggire al rischio che la libertà personale si giochi insindacabilmente secondo il principio dell’autonomia il quale più cresce quanto più il soggetto si ritiene svincolato da un orizzonte che lo oltrepassa.

Bibliografia

Marshall T. H.,​​ C. e classe sociale,​​ Torino, UTET, 1976; MacIntyre A.,​​ Dopo la virtù. Saggio di teoria morale,​​ Milano, Feltrinelli, 1988; Damiano E. et al.,​​ L’educazione del cittadino,​​ Brescia, La Scuola, 1990; Lickona T.,​​ Education for character: how our schools can teach respect and responsibility, New York, Bantam Books, 1991; Bendix J., «C.», in​​ Dizionario delle scienze sociali,​​ vol. I, Torino, UTET, 1991, 772-777; Habermas J.,​​ Morale,​​ diritto,​​ politica,​​ Torino, Einaudi, 1992; Zincone G.,​​ Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile,​​ Bologna, Il Mulino, 1992; Donati P. P.,​​ La c. societaria,​​ Bari, Laterza, 1993; Kymlicka W.,​​ La c. multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999;​​ Putman R. D.,​​ Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino, 2004;​​ Toso M.,​​ Democrazia e libertà: laicità oltre il neoilluminismo postmoderno, Roma, LAS, 2006.

G. Chiosso




CIVILTÀ

 

CIVILTÀ

Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rapporto d’identità con la​​ ​​ cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanistico – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo.

1. Tale nozione si fonda sulla preferenza accordata a certi valori; privilegia certe particolari forme di attività o di esperienza umana, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale raggiunta da un popolo; e contemporaneamente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Abbagnano, 1980, 130-131). Ad es., per i Latini, e per vari secoli,​​ civilitas​​ era la società dei cittadini: il​​ civis,​​ l’uomo della città, raffinato ed evoluto, è contrapposto al​​ ruralis,​​ ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione aristocratico / elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad accedere pienamente a tale ricchezza culturale, sia perché l’«uomo civile» tendeva a distaccarsi con disprezzo dal resto dell’umanità. Troviamo la qualifica di​​ volgo,​​ all’interno, di​​ barbari,​​ all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca greco-latina, medioevale, umanistico / rinascimentale, illuministica. Celebri, a questo riguardo, le affermazioni di Orazio:​​ Odi profanum vulgus et arceo​​ (Odi,​​ 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio:​​ Tantum distant Romana et barbara quantum quadrupes abiuncta​​ est bipedi vel muta loquenti​​ (Contra Symmacum,​​ 2, 817-8).

2. Con l’affermazione della moderna borghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplosa con l’Illuminismo e il Positivismo, la​​ c.​​ ​​ cioè l’autoapprezzamento che si esprimeva nell’attribuzione della​​ civilitas​​ al proprio modo di vita e ai propri ideali, ossia alla propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misurava sia gli altri strati sociali, sia anche i popoli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un imperialismo civilizzatore animato da tenace zelo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determinata gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, supporta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene raggiunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più progrediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più arretrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’aspetto deontologico della cultura superiore, come fonte di orientamenti morali qualificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori riservano il termine c. a manifestazioni superiori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba atomica è “c.”, la freccia e il​​ boomerang​​ sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507).

3. Da quando poi si cominciò a usare il termine c. al plurale – come, per es., fa Toynbee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamente autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come​​ cultura​​ (in senso antropologico moderno). Del resto già il classico dell’antropologia culturale,​​ Primitive culture​​ (1871) di Taylor, nella nota definizione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui talvolta a sottolineare uno stadio o grado (relativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono considerati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di​​ ​​ globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.».

Bibliografia

Thurn H. P.,​​ Sociologia della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Abbagnano N., «C.», in Id.,​​ Dizionario di filosofìa,​​ Torino, UTET, 1980, 131-133: Mamo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Demarchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.),​​ Nuovo dizionario di sociologia,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.),​​ Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.

M. Montani




CLAPARÈDE Jean Alfred Édouard

 

CLAPARÈDE Jean Alfred Édouard

n. a Ginevra nel 1873 - m. ivi nel 1940, psicologo svizzero.

1. Fondatore e direttore della rivista «Archives de Psychologie» (1901); direttore del laboratorio di psicologia sperimentale di Ginevra (1904); fondatore dell’Institut J. J. Rousseau (1912); segretario permanente dei congressi internazionali di psicologia (1926) e organizzatore delle conferenze internazionali di psicotecnica (1920). C. ebbe una formazione poliedrica; anche se si maturò nell’ambito del materialismo psicofisico, fu aperto al kantismo, al pragmatismo, e attento alla tradizione protestante espressa nel movimento del​​ cristianesimo sociale.

2. Partendo da una concezione biologica della psicologia, C. sviluppò ricerche nei molteplici settori della psicologia indagando quelle componenti biologiche che trovano nel bisogno, nell’interesse, nell’istinto il punto di partenza dal quale nascono e si differenziano sia le scienze dell’uomo che l’evoluzione stessa dell’individuo. Attraverso la legge dell’interesse momentaneo​​ si comprenderebbe il meccanismo della condotta umana e, attraverso la legge della​​ presa di coscienza,​​ il senso e la direzione della differenziazione e dello sviluppo umano. C. ebbe il merito di studiare i fenomeni psicologici sperimentalmente, senza isolarsi, però, dal processo concreto, cercando sempre una stretta relazione tra il fatto da spiegare e la condotta, ossia,​​ la funzione​​ del fatto psichico. Il concepire l’uomo nella sua interezza, porta C., fra l’altro, a studiare il ruolo dell’​​ ​​ intelligenza (Genèse de l’hypothèse),​​ il legame fra struttura biologica e attitudini mentali (Comment diagnostiquer les aptitudes chez les écoliers),​​ a privilegiare la sperimentazione psicologica, senza però rinchiudersi in essa.

3. Sostenitore della​​ ​​ pedologia, ritenne che qualsiasi​​ ​​ intervento educativo si dovesse fondare sugli interessi reali del fanciullo, al fine di porre tutto in funzione dei suoi bisogni e quindi del suo naturale processo di sviluppo (Éducation fonctionnelle),​​ per rendere la scuola adatta e proporzionata ai suoi poteri (École sur mesure).​​ C. si inserisce, così, nel movimento delle​​ ​​ Scuole Nuove. Nella sua concezione psicopedagogica C. ritiene che lo scopo della scienza sia quello d’indagare i metodi scientifici più adatti ad educare il singolo alla probità, alla democrazia, alla solidarietà, alla comprensione internazionale, allo spirito critico (Morale et politique). Pur essendo forte in lui una tendenza antropologica fondata sulla biologia e sul funzionalismo, prevale una tensione alta per valorizzare l’uomo proprio attraverso la moralità, il civismo, la ricerca della pace.

Bibliografia

Trombetta C.,​​ E.C.: La famiglia,​​ gli studi,​​ la bibliografia,​​ Roma, Bulzoni, 1976; Bucci S.,​​ Inediti pedagogici di E.C.,​​ Perugia, Università degli Studi, 1984: Trombetta C.,​​ E.C. psicologo,​​ Roma, Armando, 1989; Hameline D.,​​ E.C., in «Perspectives»​​ 23 (1993) 161-173.

C. Trombetta




CLARET Antonio María

 

CLARET Antonio María

n. a Sallent (Barcellona) nel 1807 - m. a​​ Fontfroide​​ (Francia) nel 1870, educatore spagnolo, catechista, fondatore dei Claretiani, santo.

1. Lavora come operaio e tecnico tessile prima di entrare in seminario (1829). Ordinato sacerdote (1835), alterna il lavoro parrocchiale con l’impegno nelle missioni popolari e nella diffusione della buona stampa; scrive opuscoli e libri, collabora alla fondazione dell’editrice Librería Religiosa di Barcellona. Nel 1849 fonda i Claretiani («Misioneros Hijos del Corazón de María»). Nominato arcivescovo di Santiago di Cuba, C. realizza importanti opere apostoliche e sociali, promuovendo la creazione di scuole gratuite. Offre il suo aiuto a Antonia París, fondatrice di un istituto per l’educazione delle ragazze: «Instituto de María Inmaculada de la Enseñanza». Nel 1857 rientra in patria come confessore di Isabella II e precettore dei figli.

2. Nel periodo di permanenza a Madrid, esplica un’intensa attività educativa e culturale: organizza un seminario e un liceo a El Escorial, crea la Academia de San Miguel, per artisti e intellettuali cattolici, diffonde le biblioteche parrocchiali. Dopo la rivoluzione del 1868 viene esiliato e muore in Francia. L’interesse pedagogico di C. comprende un ampio ventaglio: catechesi, educazione popolare, orientamento vocazionale, formazione dei seminaristi e delle ragazze, educazione familiare. Nella produzione (più di 94 titoli) emergono:​​ El colegial o seminarista,​​ teórica y prácticamente instruido​​ (1860),​​ La colegiala instruida​​ (1864),​​ La vocación de los niños. Cómo se han de educar e instruir​​ (1864). I Claretiani occupano un posto significativo nell’ambito della scuola (​​ Congregazioni insegnanti maschili).

Bibliografia

a)​​ Fonti:​​ A.M.C.,​​ Escritos autobiográficos, Madrid, BAC, 1985. b)​​ Studi: Pérez Iturriaga T., «San A.M.C.», in A. Galino (Ed.),​​ Textos pedagógicos hispanoamericanos,​​ Madrid, Narcea, 1974, 989-1008; Alaiz A.,​​ Vida de san A.M.C.,​​ Madrid, San Pablo, 1995; Vilarrubias A.,​​ Sant A.M.C. sempre en missió, Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 2004.

J. M. Prellezo




CLASSE SCOLASTICA

 

CLASSE SCOLASTICA

Rappresenta l’unità compositiva della «scuola burocratica», raggruppando un numero più o meno ampio di alunni della stessa età scolastica, tenuti a seguire lo stesso segmento del curricolo formativo, nelle medesime condizioni di tempo e di spazio, sotto la guida dello stesso insegnante (o gruppo di insegnanti).

1. Dobbiamo a Michel Foucault la ricostruzione storica delle istituzioni della modernità, fra le quali la scuola «a classi», lo spazio seriale come una delle grandi mutazioni tecniche dell’insegnamento e della «disciplinazione» degli alunni mediante l’inquadramento spazio-temporale. Questo spiega perché la c. è sempre stata considerata (e discussa) in riferimento al potere dell’insegnante ed alla conduzione disciplinare della scolaresca. L’organizzazione per c. fa la sua comparsa con l’avvento dei primi Collegi rinascimentali e successivamente nelle scuole popolari (​​ Comenio, a Patak); da quel momento in poi si estende fino a diventare​​ la struttura organizzativa modulare minima​​ del sistema scolastico. Nel lessico scolastico sta a designare: a)​​ gli alunni​​ all’insieme dei quali s’impartisce l’insegnamento; b)​​ lo spazio fisico –​​ più esattamente​​ aula –​​ dove ha luogo un insegnamento polivalente (per distinguerlo, per es., dai laboratori o dalla palestra, spazi didattici specializzati).

2. Il dibattito sui ritardi e sull’​​ ​​ insuccesso scolastico ha sollevato in passato appassionate denunce all’idea di c., soprattutto all’inizio di questo secolo e nel contesto dei movimenti delle​​ ​​ Scuole Nuove. La discussione ha generato proposte differenziate di raggruppamenti alternativi al principio dell’età formale​​ ​​ le cosiddette​​ non-graded schools​​ e le tecniche di​​ streaming​​ e di​​ screening –​​ che si possono ricondurre ai seguenti criteri: a) relativi​​ all’interesse​​ per un argomento; b) alla​​ complementarità​​ per l’esecuzione di un progetto; c) alla​​ elettività​​ delle preferenze fra gli alunni; d) al​​ gradiente di sviluppo cognitivo​​ effettivamente controllato; e) al​​ rendimento scolastico;​​ f) alla​​ distribuzione dei compiti​​ nel quadro di attività programmate in comune fra c. diverse (o per l’intera scuola).

3. Tuttavia, la pratica della c. ha resistito alle critiche, risultando un raggruppamento conveniente per organizzare il lavoro formativo, soprattutto se si alternano momenti frontali con fasi di lavoro di piccolo gruppo, a coppie ed individualizzato e se si offrono occasioni con interscambi e ricomposizione di gruppi con altre c. («c. aperte»). La c., non da oggi, è tutt’altro che un’opzione assoluta, si possono dare raggruppamenti intra-c., come inter-c. fino ad organizzazioni per cicli pluriennali. Oggi l’ICT (Internet Communication Technology) consente l’attivazione di c. «virtuali» per l’apprendimento a distanza (​​ e-learning).

4. Sulla scorta del movimento femminista e della «didattica di genere», si è tornato a discutere il criterio consolidato della​​ coeducazione​​ e delle c. miste, riproponendo la differenziazione tra c. maschili e femminili (Salomone).

Bibliografia

Foucault M.,​​ Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1975;​​ Storia della sessualità, Milano, Feltrinelli,​​ 1978;​​ Goodlad J. I. - R. H. Anderson,​​ The non-graded-school. Scuola senza c.,​​ Torino, Loescher, 1972; Shaplin J. T. - H. F. Olds,​​ Team teaching. Una nuova organizzazione del processo educativo,​​ Ibid., 1973; Meirieu P.,​​ Lavoro di gruppo e apprendimenti individuali, Firenze, La Nuova Italia, 1987;​​ Freinet C.,​​ Oeuvres pédagogiques, Paris, Seuil, 1994;​​ Perrenoud Ph.,​​ Les cycles d’apprentissage,​​ de nouveaux espaces-tempe de formation, in «Educateur» 14 (1998) 23-29;​​ De la gestion de classe à l’organisation du travail dans un cycle d’apprentissage, in T. Nault - J. Fijalkow,​​ La gestion de classe, in «Revue des Sciences de l’Education» 3 (1999) 533-570;​​ Salomone R.,​​ Same,​​ different,​​ equal: rethinking single-sex schooling, Yale, Yale Univ. Press, 2003.

E. Damiano




CLASSE SOCIALE

 

CLASSE SOCIALE

È uno tra i più cruciali e più controversi concetti della sociologia. In genere c.s. è l’insieme degli individui o delle famiglie che godono della stessa quantità di reddito, prestigio e potere; più specificamente è la posizione occupata dai diversi gruppi nel sistema della stratificazione sociale.

1.​​ Tratti caratteristici.​​ Secondo una descrizione che, al di là di qualunque interpretazione, indichi i​​ tratti caratteristici​​ e costanti della c.s. possiamo rilevare: a) diversamente dalla​​ casta​​ e dai​​ ceti,​​ le c.s. non dipendono da ordinamenti legali e religiosi. I confini tra le c.s. non sono mai netti, così che non esistono restrizioni formali particolari, né tanto meno al matrimonio tra i membri appartenenti a c.s. diverse; b) la c.s. di un individuo non è semplicemente ascritta, ma in buona parte anche acquisita; c) le c.s. si fondano sulle differenze e / o disuguaglianze di potere, di prestigio e di ricchezza, come per es. nel trattamento salariale, nelle condizioni di lavoro, nella proprietà e nel controllo delle risorse materiali.

2.​​ Due accezioni di c.s.​​ Nella letteratura corrente sono emerse due accezioni di c.s.: una definita​​ realista od organica,​​ predominante nel pensiero politico e nella sociologia europea, ed una definita​​ nominalistica od ordinale,​​ predominante nella sociologia americana.​​ In una definizione realista od organica​​ c.s. è quel complesso assai vasto di individui, che si trovano in una posizione simile nella struttura sociale storicamente determinata da rapporti politici ed economici. È un soggetto collettivo, capace anche di azione unitaria, dove l’interdipendenza tra le c.s. (in senso cooperativistico o conflittuale) è alta. L’insieme delle c.s. costituisce una «struttura di c.». La c.s. è il fondamento della disuguaglianza sociale (e non viceversa) in fatto di potere, di ricchezza e di prestigio che si osserva tra le persone, pur in presenza di una riconosciuta uguaglianza giuridica.​​ In una definizione nominalistica,​​ la c.s. è costituita da uno strato di persone sociali che hanno in comune determinate caratteristiche di​​ ​​ status: non solo ricchezza, prestigio e potere, ma anche​​ ​​ stili di vita, educazione e​​ ​​ cultura. L’appartenenza ad una c.s. condiziona infatti in modo oggettivo, cioè indipendentemente dalla coscienza o dalla volontà del soggetto, alcuni fondamentali aspetti della vita, come la professione, il livello del reddito, le possibilità educative, la speranza di vita,lo stile di vita, il prestigio di cui si gode, la possibilità di intervenire nelle decisioni politiche locali e nazionali.

3.​​ Nella storia del pensiero sociologico.​​ L’attuale teoria delle c.s. deriva quasi interamente dagli scritti di Marx , di​​ ​​ Weber, della Scuola di Mosca e di Pareto. Ciò non significa che molti altri autori non abbiano fornito intuizioni valide sulla struttura di c. e sulle forme di disuguaglianza. Marx fonda la definizione di c. sulla opposizione e sfruttamento che i proprietari del capitale e dei mezzi di produzione (i capitalisti) esercitano su coloro che vendono la loro forza-lavoro (il proletariato). Secondo Marx il sistema capitalistico è la fonte delle disuguaglianze sociali e di un differente accesso alle risorse. Contributi più recenti a tale teoria sono stati apportati da Lukacs, da Gramsci e ultimamente da Althusser. Essi hanno corretto l’idea della coercizione e del controllo sul proletariato, esercitato materialmente dallo Stato capitalistico, con la categoria della manipolazione ideologica, dell’indottrinamento e della propaganda. Secondo Althusser, infatti, nella società capitalistica è presente un complesso di istituzioni («gli apparati ideologici di Stato») che riescono a indottrinare e manipolare il proletariato. Weber invece inserisce tra i criteri per la formazione della c.s. anche quelli non economici, come il livello di educazione, la qualificazione professionale, l’occupazione, il reddito, il prestigio, l’etnia di appartenenza, l’affiliazione religiosa, l’autorità, il potere, la capacità di gestire i processi politici e decisionali. Per questo gli si attribuisce l’intuizione di «modello multidimensionale» della stratificazione sociale. Mentre la c.s. è data oggettivamente dai fattori economici, lo status dipende dalle valutazioni soggettive delle differenze sociali espresse dagli individui ed è associato ai diversi stili di vita dei gruppi. La maggior parte dei sociologi ritiene che lo schema weberiano offra una base più flessibile e sofisticata per l’analisi delle c.s.

4.​​ Le c.s. in Italia.​​ L’analisi più documentata e convincente è stata compiuta dall’economista Paolo Sylos Labini, il cui criterio per la stratificazione è stato non tanto il livello di reddito, quanto il modo in cui lo si ottiene. Sulla base di tale categoria l’A. ha distinto sei grandi di c.s.: la borghesia, le c. medie costituite dalla piccola borghesia impiegatizia, dalla piccola borghesia relativamente autonoma e dalla piccola borghesia di alcune categorie particolari, quindi la c. operaia e il sottoproletariato. Rimangono però sempre aperti gli​​ interrogativi​​ circa l’origine delle c.s., le coordinate del potere, i rapporti tra le c. e lo status, il grado di integrazione / differenziazione interna, l’influsso di ciascuna all’interno dei sistemi.

Bibliografia

Lukacs G.,​​ Storia e coscienza di c.,​​ Milano, Sugar, 1967; Dahrendorf R.,​​ C. e conflitto di c. nella società industriale,​​ Bari, Laterza, 1970; Mauke M.,​​ La teoria delle c. nel pensiero di Marx ed Engels, Milano, Jaca Book, 1970; Giddens A.,​​ La struttura di c. nelle società avanzate,​​ Bologna, Il Mulino, 1975; Sylos Labini P.,​​ Saggio sulle c.s.,​​ Bari, Laterza, 1988;​​ Carabana J. - A. De Francisco (Edd.),​​ Teorías contemporáneas de las clases sociales,​​ Madrid, Pablo Iglesias, 1993; Crompton R.,​​ C.s. e stratificazione, Bologna, Il Mulino, 1999; Marshall Th.,​​ Cittadinanza e c.s., Bari, Laterza, 2002; Bevilacqua E.,​​ La società nascosta. C.s. e rappresentazioni ideologiche nell’Italia contemporanea, Milano, Angeli, 2003.

R. Mion