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FAMIGLIA

 

FAMIGLIA

Il termine f. deriva dal latino​​ familia,​​ dove però, come si dice nel​​ Codice giustinianeo​​ (VI, 38, 5), comprendeva, oltre a genitori e figli, «parenti e beni, liberti e patroni non esclusi gli schiavi» (chiamati appunto anche​​ famuli).​​ Qui la f. è pensata quasi solo dal punto di vista pedagogico, in quanto luogo che facilita o ostacola la crescita personale.

1.​​ Contro e a favore della f. nella tradizione occidentale.​​ Potremmo, a mo’ di schema, far risalire a​​ ​​ Platone e ad​​ ​​ Aristotele la principale fonte ispiratrice delle accezioni prevalentemente negative o positive del termine f. Per Platone, che anche in ciò amava rifarsi al modello spartano, la f. non rappresentava un valido ambiente educativo, essendo l’uomo assorbito dalla vita pubblica e la donna più adatta all’allevamento (anatrophè)​​ che all’educazione dei figli (paidèia).​​ Molto più valida dal punto di vista educativo è la​​ paiderastìa,​​ sia pure nella forma sublimata (che da lui prese nome), nella quale la presenza degli atti sessuali (aphrodìsia)​​ è velata se non annullata, dato che nella coppia d’amanti (uno giovane e uno adulto, modello e guida del primo) viene a stabilirsi «una comunione molto più intima e una più salda amicizia di quella che lega i genitori ai figli» (Simposio,​​ 27, 209 c). A tale filone di pensiero «antifamilistico» si può riallacciare per l’epoca moderna​​ ​​ Rousseau, almeno parzialmente, e poi Marx ed Engels e, nel sec. ventesimo, ad es.,​​ ​​ Wyneken, per il quale «f. e educazione non hanno niente a che fare l’una con l’altra. La f. è un’istituzione che serve da un lato alla propagazione della specie e, dall’altro [...] all’organizzazione del consumo [...] .Se anche i genitori amano i loro figli, non amano la giovinezza che c’è in loro» (Schule und Jugendkultur,​​ Jena, Diederichs, 1919,13). Di poco posteriori e ben più note furono su questa stessa posizione alcune opere di Reich (La rivoluzione sessuale,​​ Milano, Feltrinelli, 1963) e di Horkheimer, Adorno e Marcuse come gli​​ Studi sull’autorità e la f.​​ (Torino, 1974). Questi Autori furono gli immediati precursori degli antifamilisti degli anni sessanta e settanta del sec. scorso, come gli psichiatri R. Laing e D. Cooper, la psicoanalista M. Mannoni, lo psicosociologo G. Mendel, per i quali la f. era il principale ostacolo alla formazione di individui disinibiti e psichicamente sani, capaci di dar vita ad un nuovo e più giusto ordine sociale. Si può dire che essi tendessero a vedere nella f. il fattore genetico di tutti gli egoismi (dal contadino al borghese) e di tutti gli autoritarismi, dal maschilista e patriarcale fino alle tragiche dittature europee del XX sec. Diverso il discorso di neofemministe come B. Friedan, che dopo aver denunciato «la mistica della femminilità» (così il titolo di un libro del 1963), giungeva a dire che la f. rappresenta in realtà una frontiera del femminismo, uno spazio effettivo di controllo del proprio destino. Per Aristotele invece la f. è cellula costitutiva della società, con il padre a rivestire una triplice autorità: di padrone verso gli schiavi, di re verso i figli e di «presidente» (árchon)​​ nei riguardi della moglie. Per lo Stagirita radicale importanza hanno i rapporti tra marito e moglie (carattere​​ sunduastikós,​​ «coniugale» dell’essere umano) e i rapporti tra genitori e figli, nei quali il padre e la madre riconoscono una parte di se stessi (cfr.​​ Politica,​​ I, 2, 1252a e​​ Etica Nicomachea,​​ VIII, 12, 1162). La posizione favorevole si accentuerà con gli Stoici, specie di età romana, attenti particolarmente al rapporto di coppia, fino a postulare con Musonio Rufo, Plutarco, Seneca o Quintiliano una perfetta reciprocità. Si può dire che la posizione favorevole alla f. sia stata ripresa negli ultimi due secoli da Kant,​​ ​​ Pestalozzi, Fröbel e soprattutto da Hegel. Quest’ultimo ha sottolineato la trasformazione, attraverso appunto la f., dell’«egoismo dei desideri» in «qualcosa di etico» e ha aiutato a cogliere l’intimo nesso che lega l’amore di coppia con l’amore per i figli, nel quale il primo si «oggettivizza», rendendo inseparabili le immagini dei coniugi (Lineamenti di filosofia del diritto,​​ Bari, 1971, 160). Innumerevoli sarebbero le citazioni che si potrebbero trarre dall’opera di Tocqueville, in parte anche da Spencer e Durkheim, fino alle rivalutazioni della sociologia americana del II dopoguerra, Burgess e Parsons in particolare e a quelle più recenti del noto etologo Lorenz e del suo allievo Eibl-Eibesfeldt o dei sociologi Brigitte e Peter Berger (1984, 239); e questo vale – almeno in parte – anche per una f. proletaria, come osserva un pedagogista marxista, G. Snyders, poiché almeno la f. «non è così direttamente, come la fabbrica, sotto la presa del padrone [...] è una possibilità per l’operaio di cominciare ad appartenersi, dunque di resistere meglio» (1985,131).

2.​​ La f. nella tradizione religiosa ebraico-cristiana.​​ Fin dal I libro della Bibbia (Gn​​ 1,27-28 e 2,18-24), l’unione coniugale è vista sia come​​ remedium concupiscentiae,​​ finalizzato alla procreazione («Siate fecondi e moltiplicatevi...»), sia come​​ remedium solitudinis​​ («Non è bene che l’uomo sia solo... abbandonerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola»). In quella tradizione l’essere maschio e femmina è detto «somiglianza ed immagine di Dio», di un Dio che nella rivelazione di Cristo apparirà sempre come «alleato» dell’uomo, la cui essenza viene definita dall’evangelista Giovanni come «amore». Specie alcuni Padri greci insisteranno sulla​​ omotimìa​​ (pari onore che si deve a marito e moglie) e prima ancora sulla​​ omónoia,​​ sull’intesa profonda fra i due. Diciamo allora che la riflessione cristiana rafforza sì il filone familistico, tanto per il rapporto di coppia quanto per quello genitori / figli (si ricordino le osservazioni sulla reciprocità fra marito e moglie o fra genitori e figli contenute nelle «tavole domestiche» di alcune lettere paoline), ma porta pure nuovi motivi a favore di quello antifamilistico, come apparirà chiaramente anche nella tendenza teologica e letteraria diffusasi, specie a partire dal Medioevo, che contrappone – secondo le indicazioni dell’opera di D. De Rougemont (L’Amore e l’Occidente, Milano, 1977) –​​ éros​​ e​​ agápe,​​ amore-passione per un altissimo, irraggiungibile ideale e amore coniugale, fondato su una concreta e quotidiana comunione di vita.

3.​​ Valori e problemi della f. moderna e contemporanea.​​ Tra i fattori che hanno portato al sorgere della f. moderna e contemporanea è certo da considerare la mutata organizzazione del lavoro, che ha finito per fare della f. un’unità di consumo più che di produzione, ma che ha anche portato ad un progressivo miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari e sanitarie della popolazione e ad una sempre più generalizzata diminuzione della mortalità infantile. Si devono anche considerare fattori culturali, come la creazione della «nuova poesia d’amore», segnalata già a partire dal XII sec. nell’opera cit. del De Rougemont, o, ancor più, la rivoluzione culturale e spirituale, iniziata con la Riforma (cattolica e protestante), che stimolò, fra l’altro, a portare l’ascesi e la vita metodica fuori dai chiostri nella vita familiare e professionale, viste come occasione privilegiata di effusione della grazia divina. Il mutamento avvenuto nelle strutture, ma, più ancora, nelle relazioni familiari ha modificato le modalità di rapporto non solo fra i coniugi, ma anche fra genitori e figli, con un’interazione continua fra questi due tipi di rapporti, per cui le prime forme di controllo della fecondità portavano a modificazioni nell’atteggiamento verso i figli, ma presupponevano anche un cambiamento nei rapporti fra i coniugi e al tempo stesso rafforzavano questo cambiamento. Di qui il modificarsi dei livelli di tempo, energie, risorse da dedicare ai figli, il crescere del senso di responsabilità dei genitori e delle aspettative nei riguardi dei figli, la disponibilità anche a manifestare loro tenerezza ed affetto. I figli, almeno tendenzialmente, non sono più trattati come «cose» (pueri quasi res parentum​​ diceva l’antico diritto romano-barbarico), ma come soggetti, seguiti nei loro processi formativi dagli stessi genitori, senza troppi pregiudizi per il sesso o l’ordine di nascita. Non vengono, in genere, negati principi di riferimento etico, ma si tende a relegarli in uno sfondo sempre meno rilevante per la vita quotidiana. Così in Italia ci si sposa per circa il 70% ancora in chiesa, non ci si limita in genere a fare «convivenze», ci si separa e si divorzia in misura relativamente limitata (ma decisamente di più fra le coppie «giovani»), si tende ad avere figli «legittimi», ecc. È però altrettanto noto che in Italia si ha uno dei tassi di natalità più bassi del mondo e che è considerevole il tasso di abortività volontaria, analogo a quello dei cosiddetti Paesi più sviluppati (un terzo e più rispetto ai nati vivi negli ultimi anni). Si parla anche per l’Italia di puerocentrismo (valore enfatizzato dell’infanzia, desiderio intenso di un figlio, almeno adottato, ecc.), ma si tratta troppo spesso di un puerocentrismo «narcisistico», di proiezione dei propri desideri e aspettative, con investimenti affettivi di tipo compensatorio o captativo piuttosto che oblativo. È insomma un puerocentrismo diverso non solo da quello evangelico, per il quale il fanciullo rappresenta il modello della sequela cristiana (il Regno di Dio appartiene ai fanciulli e a quelli che sono come loro, «a mani vuote», in attesa di ricevere attenzione e aiuto, senza dar nulla in cambio), ma anche da quello della migliore tradizione pedagogica, almeno da​​ ​​ Comenio in poi, teso alla promozione della personalità del figlio / allievo. Più realisticamente bisogna parlare di f.​​ adult-center​​ e​​ child-free,​​ dove, per dirla con​​ ​​ Erikson (I cicli della vita, Roma, Armando, 1984, 52), «l’eccessiva preoccupazione per il proprio sé» è anche da attribuire alla «patogena soppressione del bisogno procreativo», al sottrarsi ad una connotazione fondamentale dell’adulto in quanto tale, la «generatività» e la «cura» o la loro sublimazione in atteggiamenti e comportamenti di produttività e creatività al servizio delle nuove generazioni. Sempre meno ci si preoccupa di instaurare nei primi anni di vita la «fiducia di base» di cui parla Erikson, come «esperienza dell’accordo tra le proprie esigenze e la previdenza materna» e sempre meno anche si mostra attenzione alle «differenze di stadio» dei propri figli, in contrasto con una funzione fondamentale d’ogni educatore, quella di custodire lo specifico di ogni età, impedendo che una fase si degradi fino ad essere solo funzionale a quella successiva. Si è passati «dall’era della protezione all’era dell’iniziazione», come ha mostrato M. Winn (Bambini senza infanzia, Roma, Armando, 1992, 17-95), mentre N. Postman (La scomparsa dell’infanzia, Roma, Armando, 1984, 115) ha sottolineato come la generalità dei bambini tenda oggi ad affidarsi non tanto all’autorità di genitori e maestri quanto a quella – divenuta di fatto sempre più incontrollabile – dei​​ ​​ mass-media, cioè sempre di adulti, ma che ben poco si fanno carico di preoccupazioni educative. Pur con le notevoli differenze rispetto agli altri «Paesi sviluppati» che ancora caratterizzano l’Italia, si può dire che anche la f. italiana attuale si avvii sempre più verso modelli di organizzazione lesivi di elementari diritti dei minori, quello anzitutto di avere una propria f., con un padre e una madre, non più f. o le cosiddette f. miste, formate da tronconi di precedenti f. fallite (patchwork families). Al modello della f. «moderna» come «cittadella del privato», carica di tensioni, ma «obbligatoriamente unita» (un guscio «vuoto», che pure non si rompe) sta affiancandosi anche in Italia la f. «postmoderna», dalla struttura instabile e imprevedibile nel tempo, fondata più sui diritti individuali degli sposi che sulle loro responsabilità di fronte alla compagine familiare, mentre la relazione amorosa, non più congelata nell’istituto matrimoniale, tende a sciogliersi nell’«amore liquido», di cui parla Z. Bauman. Tale nuova f. richiede di fatto ai figli uno sforzo di adattamento e di comprensione in genere superiore alle loro caratteristiche di sviluppo e alle loro capacità emotive.

4.​​ F. spazio educativo?​​ Affinché la f., oltre ad essere «centro di redditi e di consumi» o «punto di riferimento affettivo», riesca ad essere anche «spazio educativo», con capacità di orientamento etico per i figli e per gli stessi coniugi, occorre anzitutto che gli adulti accettino le loro responsabilità e non giochino ad essere perennemente giovani e che si rafforzi la tendenza ad una consistente comunicazione intrafamiliare, non ridotta a «negoziazioni strumentali» sul tempo trascorso fuori casa o su problemi economici o di lavoro, come alcune ricerche hanno evidenziato. «Non litigano più – osserva P. Donati (1997, 297) – perché parlano di cose banali […]. I genitori educano senza assumere, né chiedere ai figli che si assumano precise responsabilità etiche […]. Il conflitto diventa perciò latente e si sposta su un altro terreno, quello di convinzioni intime, che non sono oggetto di comunicazione». Difficoltà ulteriori derivano dalla restrizione della natalità che porta a ridurre sempre più la «società fraterna», capace di integrare, in misura talora determinante – sia pure non senza contraccolpi di aggressività negativa – l’azione educativa dei genitori, facendo sperimentare, nella quotidiana vita familiare, la radicale uguaglianza di ciascuno riguardo a bisogni, diritti e doveri. Meglio si superano così i diffusi atteggiamenti di permissivismo diseducativo o di immotivata alternanza di posizioni contrastanti, favorendo la progressiva acquisizione di un’autonoma coscienza morale, fondata sulla convinzione della necessità di principi e regole per la convivenza e sul rispetto reciproco, e superando il rischio del protezionismo d’un figlio sempre preceduto dai genitori nei suoi desideri e nella sua ricerca, raramente indotto a provare il senso dell’insicurezza e del confronto (Galli, 1988, 73-83). A differenza, però, di quanto avevano sostenuto i teorici della «morte della f.» degli anni ’60 e ’70, la f. rimane, almeno per i giovani, al vertice di ciò che conta nella vita, un luogo privilegiato di comunicazione interpersonale, come ripetono i Cinque​​ Rapporti Iard sulla condizione giovanile in Italia, dal 1984 al 2003. Rispetto agli anni della contestazione che colpì anche la f., i sociologi parlano di «f. pacificata», mentre sottolineano «l’erosione dell’autorità nella scuola», indicando differenze notevoli tra la prima e la seconda. «I rapporti genitori-figli – osserva L. Sciolla (2006, 21) – mostrano di mantenere una solida legittimazione e autorevolezza, rafforzata dal clima prevalente di dialogo e di reciprocità, tra genitori e figli […] e da un elevato grado di identificazione dei figli, nei modelli culturali trasmessi», mentre nella scuola prevalgono «modelli improntati ad una sorta di indifferenza reciproca». In questo stesso apprezzamento, però, c’è il rischio di una «fiducia eccessiva», che può contribuire a fare restare troppo a lungo i giovani nella f. d’origine, a scoraggiare in loro l’idea di f. come progetto di vita, ad accrescere la paura ad assumersi la responsabilità di farsi una f. propria, continuando a considerare quella di origine come un rifugio. È la realtà, specificamente italiana, della «f. lunga», per l’adolescenza prolungata dei nostri ragazzi, la maggiore scolarizzazione, una mancata politica di opportunità abitative e lavorative per i giovani, la diffusa tolleranza dei genitori «disposti – per dirla con il V Rapporto CISF (Donati, 1997, 256-257) – a concedere tutto il concedibile: dalle chiavi di casa alla relazione sessuale prematrimoniale», garantendo nello stesso tempo vari e consistenti vantaggi pratici, con la loro «presenza e disponibilità quotidiana», con «alti margini di libertà e bassi livelli di partecipazione», anche alle faccende di casa. La f. non si limita a rispecchiare i conflitti sociali ed è piuttosto – come ha scritto Snyders (1985, 140) – «un luogo di tenerezza agitata», con tensioni, dispute, lamentele, ma «controbilanciate dall’affetto» e con possibilità reali di arrivare a positive soluzioni. Non si tratta tanto di puntare nuovamente sul vecchio modello borghese della f. come trampolino di lancio del successo dei figli (una «pedagogia familiare» più che altro preoccupata di cosa «fare» dei figli o di cosa «far fare» loro), ma piuttosto su una nuova qualità della vita e della relazione interpersonale anche nell’ambito familiare. Primo presupposto per fare della f. uno spazio educativo è infatti proprio la capacità di dar vita a rapporti effettivi di dialogo, di reciprocità piena, dove si vuole davvero il bene dell’altro, «si risponde sempre all’altro» (o almeno ci si giustifica se non si risponde) e si sa che «non si userà contro l’altro ciò che è stato comunicato» (Donati, 1989, 44 e 134). Di fatto nella f. più che in altre forme di convivenza possono «dialetticamente» armonizzarsi libertà e responsabilità, autonomia e solidarietà, cura dei singoli e ricerca del bene comune, forza progettuale e disponibilità all’imprevisto, sollecitudine e discrezione, sana aggressività e capacità di perdono, disponibilità alla comunicazione, ma anche all’ascolto e al silenzio rispettoso, alla paziente attesa o all’impazienza non rinunciataria di chi non si arrende di fronte alle difficoltà. Sono tutti questi, fra l’altro, valori preziosissimi per preparare alla più ampia vita sociale e politica, nelle sue due dimensioni fondamentali di trasformazione dei rapporti di forza in rapporti regolati dal «diritto» e di condivisione dei problemi e delle responsabilità di una stessa convivenza umana, in nome della solidarietà. Proprio in un’esperienza concreta d’amore occorrerà trovare la forza di non rimanere legati ad essa, di comprendere nella propria attiva tenerezza gli altri uomini, specie i più piccoli e indifesi, la capacità anche di accedere al «nuovo ethos generativo» di cui ha parlato Erikson nel libro cit. (1984, 52 e 65), che porti ad «una più universale cura, centrata sul miglioramento delle condizioni di vita di tutti i bambini».

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E. Butturini​​