DEVIANZA
DEVIANZA
Il termine d. ha perso, negli anni recenti, parte della sua valenza esplicativa, sia perché le diverse teorie sociologiche che interpretano questo fenomeno ne hanno proposto significati contraddittori (fino ad intenderlo come innovazione e stimolo al cambiamento sociale), sia perché nelle società complesse le norme sociali mostrano elevata flessibilità e non definiscono più in termini precisi i criteri di normalità. In psicologia, poi, è sempre stato poco in uso e le caratteristiche di comportamento deviante sono state espresse con termini quali disturbo, sindrome, → psicopatologia, → nevrosi e psicosi. Nonostante queste difficoltà di utilizzazione e di significato, e la frequente sostituzione con il termine disagio, il concetto di d. è ancora rappresentativo per la descrizione di comportamenti non conformi alle norme. In una prospettiva pedagogica, soprattutto, il termine d. è estremamente valido per la descrizione di processi che non conducono alla realizzazione della piena dimensione umana, sociale e relazionale, indipendentemente dal fatto che siano conformi ai modelli normativi istituzionalizzati e diffusi nelle diverse e specifiche culture. Rimane aperto il problema della classificazione dei comportamenti devianti poiché, vista l’indeterminatezza del significato, il termine può rischiare di designare molte e differenti condizioni. Dinitz (1969) propone una classificazione della d. distinguendola in anormalità (i «diversi» e cioè gli handicappati fisici e psichici), malattia (malati mentali, alcoolisti, tossicomani), crimine (quando intervenga una violazione esplicita delle leggi scritte e si entra invece nell’ambito del concetto di delinquenza), alienazione (disadattamento più o meno cosciente nei confronti della realtà sociale), peccato (violazione di valori concernenti il sacro).
1. La d. e la psicopatologia. Nella criminologia classica ad orientamento positivista la d. viene descritta come inerente a tipologie somato-psichiche; il determinismo biologico di Lombroso (1878) è ancor oggi il riferimento d’obbligo per la discussione della compromissione delle aree intellettuali e morali in taluni individui; prima di lui, Pritchard (1835) aveva descritto casi di «follia morale» e «imbecillità morale» come prototipi di uno stato psicopatologico; successivamente Koch (1891) coniò il termine inferiorità psicopatica per indicare tratti di comportamento con labilità dell’io ed incapacità di adattamento. Contestate dall’approccio psicologico e sociologico alla d., che invece la descrivono come variazione a norme prodotte socialmente e dunque relativizzabili ai contesti di riferimento, tali ipotesi deterministiche sono riemerse attualmente, in specie per descrivere la predisposizione personale genotipica, l’ereditarietà della propensione all’uso di droghe ed alcool e l’associazione a comportamenti violenti o aggressivi con fattori neurologici presenti in alcune sindromi come il discontrollo episodico, il danno minimo cerebrale e la personalità antisociale.
2. La d. e la psicologia. L’approccio psicologico alla d. può essere classificato come studio dei processi intrapsichici e relazionali che la determinano. In questo quadro le principali costruzioni teoriche del pensiero psicologico propongono la d. come l’effetto di spinte all’azione sociale non contenute dai dispositivi (variamente denominati) interiorizzati dall’individuo. Senza più riferirsi a qualche tratto psicopatologico costituzionale discutono intorno a deficit nell’apprendimento, nella strutturazione della personalità, nelle capacità relazionali, nell’autocontrollo, nella gestione dei conflitti interni e sociali, ecc., conseguenti a percorsi problematici o eventi traumatici in età evolutiva. Il contributo della psicologia è dunque notevole soprattutto perché, pur nelle differenti impostazioni, concettualizzazioni e linguaggi, si muove alla ricerca dell’eziologia del disagio interiore e relazionale che può trasformarsi in esplicito comportamento deviante.
3. La sociologia della d. Lo studio della d. in sociologia è fatto tradizionalmente risalire a → Durkheim (1897). Con i concetti sociologici di anomia e d. si attua un radicale spostamento dall’ottica psicologica e psichiatrica fino a qui prese in considerazione verso l’approccio sociale. Anomia e d. sono due condizioni determinate socialmente, la prima significa mancanza di sufficiente interiorizzazione di norme e valori, la seconda è un «fatto sociale» compiuto da un soggetto in cui si incarnano le tensioni della coscienza collettiva. La letteratura sociologica sulla d. prenderà consistenza solo a partire dai lavori della Scuola Ecologica di Chicago, che analizzerà le sub-culture devianti, l’apprendimento dei processi di d. nel rapporto con individui e gruppi orientati al crimine fino a formulare un vasto repertorio di teorie via via più esplicative e complesse. Con la distinzione di Lemert (1981) tra d. primaria e d. secondaria si attua una svolta nella sociologia della d. Per d. primaria si intende l’atto deviante vero e proprio, originario, e per d. secondaria il rinforzo conseguente all’etichettamento sociale del comportamento deviante. In particolare secondo Matza (1976), ove la reazione sociale attribuisca ad un individuo caratteri di pericolosità, di follia e di d., la persona che trasgredisce sistematicamente una norma sociale sarà invitata a conformarsi alle aspettative degli altri. Ma questo invito al → conformismo per l’individuo avverrebbe in termini tendenzialmente attivi ed a livello cognitivo. Il deviante rimarrebbe sempre, o quasi sempre, consapevole e libero nelle sue scelte, anzi la percezione di un’affinità con individui e gruppi devianti produrrebbe, a catena, maggiore consapevolezza – affiliazione – e maggiore accettazione della definizione sociale – significazione – che gli altri danno di lui. Infatti il suo diventare deviante è conseguenza di rielaborazioni intorno a se stesso, intorno a ciò che lui pensa che gli altri pensino di lui. In altri termini è un processo che avviene intorno alle aspettative di significato che la persona matura attende attraverso la realizzazione di un atto deviante. La teoria della rappresentazione sociale affronta il tema della d. approfondendo il concetto che lo stigma derivi dalle visioni collettive dei diversi gruppi presenti nella società. La conflittualità tra gruppi permette a minoranze attive di imporsi con il loro punto di vista sulla maggioranza e di procedere a far cambiare la visione collettiva di certi comportamenti. Ragion per cui un comportamento considerato più o meno gravemente deviante, può trasformarsi in un comportamento conformista e veder comunque diminuito l’etichettamento precedentemente ricevuto. Il punto saliente del pensiero marxista (→ marxismo pedagogico) sulla d. è che le norme sociali da cui si devia sono definite dalla classe dominante allo scopo di mantenere il potere politico ed economico sulle classi subalterne. Pertanto, la d. è sintomo delle contraddizioni del capitalismo e la sua repressione è funzionale alla riproduzione sociale del sistema. Dalla presa di coscienza della condizione deprivata di proletario e sottoproletario, e dalla comprensione del contenuto politico del processo di d. messo in atto dal singolo per raggiungere ad ogni costo la felicità negata dal capitalismo, i devianti possono trasformare la loro d. individuale in processo di → emancipazione per tutta la società. Il → controllo sociale è uno strumento preventivo per contenere i processi di d. che scaturiscono nella società, sia per le contraddizioni del sistema, sia per l’amoralità dei singoli. Il controllo sociale è deterrent dei processi di d., ed il suo funzionamento viene analizzato in relazione alla forza persuasiva che esercita, in specie nei giovani. Hirschi (1969) ritiene che le relazioni nel gruppo dei pari siano le strutture di supporto per il coinvolgimento reciproco dei giovani in azioni devianti, qualora essi siano bisognosi del conforto di opinioni concordanti con le loro. In pratica la d. è una ricerca di conformità e conforto nel gruppo in ragione della caduta di conformismo con le norme dominanti, che non sono state recepite ed accettate. Quando un giovane vive carenze di → socializzazione (iposocializzazione) non interiorizzerà norme e valori che costituiscono la prima struttura del controllo sociale (autocontrollo). La mancanza di deterrenza da parte delle istituzioni – timore di essere escluso, etichettato, punito, arrestato, etc. – agevola la propensione alla carriera deviante. Alla luce delle teorie relazionali la d. può essere letta come un’azione comunicativa (→ comunicazione) del soggetto, costretto entro definizioni sottili e invischianti prodotte dal sistema di relazioni in cui è inserito. La teoria dell’azione comunicativa è molto fertile per colmare alcune lacune delle precedenti teorie. Si tratta di leggere l’atto deviante come espressione comunicativa, anche paradossale, dell’organizzazione interna e relazionale del soggetto che segnala la presenza di un messaggio importante circa l’affermazione della sua identità. Tale messaggio però non è da intendersi come un acting-out dei conflitti intrapsichici come nelle interpretazioni psicologiche della d., né come un comportamento di interazione simbolica più o meno condizionata dalle aspettative previste nel contesto, ma come la ricerca di un effetto reale per ridefinire la posizione del soggetto nel sistema di relazioni cui partecipa. Il concetto di doppio legame di cui un individuo è prigioniero (il doppio legame è un’ingiunzione che contiene a livello metacomunicativo il divieto di obbedire all’ingiunzione) e il concetto di ridondanza (ripetizione di un’azione che sottintende nessi tra atto e contesto) sono centrali per comprendere che nell’azione comunicativa deviante il soggetto ha fatto riferimento a regole ed a significati che ha organizzato internamente sia dal punto di vista cognitivo che emozionale.
4. La d. come processo educativo non riuscito. Alla luce delle teorie relazionali acquista significato più completo l’affermazione della d. come processo educativo non riuscito. Come dimostra H. Franta (1988) le relazioni interpersonali (→ rapporto educativo) sono sempre state concepite lungo la storia della pedagogia come fenomeno fondamentale dell’educazione. In particolare, nella pedagogia personalista, l’uomo non viene mai considerato nella sua individualità ma nel suo relazionarsi al mondo: la sua stessa esistenza è esistenza relazionale. Questo fa dell’educazione un rapporto a due vie. Se l’ → educando non incontra educatori che modellano la propria disposizione relazionale e comunicativa sulla base dei suoi vissuti empatizzati, egli non vedrà soddisfatti i propri bisogni e non riuscirà ad acquisire gli specifici valori indispensabili all’arricchimento della sua personalità. Il bisogno di orientamento dell’educando non sarà autocompreso, con esiti di diminuzione della sua educabilità, autopercezione di disagio esistenziale e relazionale, possibile senso di progressiva affinità con azioni trasgressive, vissute come atti comunicativi che possono sconfinare nella d. primaria. In tal senso la d. come fatto psico-sociologico e personale pone per se stessa in questione la qualità dell’ educazione e si viene a proporre come «ardua» domanda di un’educazione «buona». L’educazione costituisce la prima forma di → prevenzione e, se non c’è stata, richiede un intervento di ri-educazione.
Bibliografia
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V. Masini - G. Vettorato