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CIVILTÀ

 

CIVILTÀ

Dall’antichità fino ai tempi più recenti la c. è stata generalmente considerata in un rapporto d’identità con la​​ ​​ cultura – intesa in senso prevalentemente classico-umanistico – in quanto designa la forma più alta della vita di un popolo.

1. Tale nozione si fonda sulla preferenza accordata a certi valori; privilegia certe particolari forme di attività o di esperienza umana, ritenute particolarmente indicative del grado di formazione umana e spirituale raggiunta da un popolo; e contemporaneamente esalta quei gruppi umani presso i quali tali forme di esperienza e di attività appaiono particolarmente sviluppate (Abbagnano, 1980, 130-131). Ad es., per i Latini, e per vari secoli,​​ civilitas​​ era la società dei cittadini: il​​ civis,​​ l’uomo della città, raffinato ed evoluto, è contrapposto al​​ ruralis,​​ ossia all’uomo esterno al mondo urbano, e per ciò stesso forestiero ed anche rozzo e villano. Tale concezione di c. ha sempre conservato una notevole connotazione aristocratico / elitaria, sia perché in genere solo una minoranza privilegiata riusciva ad accedere pienamente a tale ricchezza culturale, sia perché l’«uomo civile» tendeva a distaccarsi con disprezzo dal resto dell’umanità. Troviamo la qualifica di​​ volgo,​​ all’interno, di​​ barbari,​​ all’esterno, per designare gli esclusi o gli emarginati, nell’epoca greco-latina, medioevale, umanistico / rinascimentale, illuministica. Celebri, a questo riguardo, le affermazioni di Orazio:​​ Odi profanum vulgus et arceo​​ (Odi,​​ 3,1) e del poeta cristiano Prudenzio:​​ Tantum distant Romana et barbara quantum quadrupes abiuncta​​ est bipedi vel muta loquenti​​ (Contra Symmacum,​​ 2, 817-8).

2. Con l’affermazione della moderna borghesia, quale classe fortemente differenziata, fiorita con il Rinascimento ed esplosa con l’Illuminismo e il Positivismo, la​​ c.​​ ​​ cioè l’autoapprezzamento che si esprimeva nell’attribuzione della​​ civilitas​​ al proprio modo di vita e ai propri ideali, ossia alla propria cultura – «divenne piuttosto il metro sul quale la classe borghese misurava sia gli altri strati sociali, sia anche i popoli stranieri al di là dei propri confini» (Thurn, 1979, 34-35). Sorge così un imperialismo civilizzatore animato da tenace zelo missionario per insegnare ai popoli «non civilizzati» a recepire la cultura europea. Tale mentalità, fondata su una determinata gerarchia di valori e privilegiante l’Occidente cristiano, pur stemperandosi negli estremismi classisti e regionalisti, supporta il classico concetto di c. «come simbolo del traguardo più elevato che viene raggiunto dalle attività culturali degli uomini, di modo che lo si riserva ai livelli più progrediti, nutriti e affascinanti del progresso culturale, mentre lo si nega ai livelli più arretrati, che vengono anche definiti appunto incivili. In questo significato emerge l’aspetto deontologico della cultura superiore, come fonte di orientamenti morali qualificanti e come garanzia di status sociale rispettabile» (Mamo - Minardi, 1987, 638). Una traccia di questa mentalità permane ancora nei nostri giorni: «Alcuni autori riservano il termine c. a manifestazioni superiori e particolarmente importanti della cultura: in tale accezione, il grattacielo è “c.”, la capanna, “cultura”; la bomba atomica è “c.”, la freccia e il​​ boomerang​​ sono “cultura”» (Costanzo, 1988, 506-507).

3. Da quando poi si cominciò a usare il termine c. al plurale – come, per es., fa Toynbee (1889-1975), che lo contrappone a quello di «società primitive» per indicare le società con mondi culturali relativamente autonomi – il termine c. è impiegato semplicemente come​​ cultura​​ (in senso antropologico moderno). Del resto già il classico dell’antropologia culturale,​​ Primitive culture​​ (1871) di Taylor, nella nota definizione, parlava di «cultura o c.». In definitiva, quantunque il concetto di c. presso etnologi e antropologi continui talvolta a sottolineare uno stadio o grado (relativamente) più avanzato di sviluppo di una società, la dicotomia tra c. e cultura sembra non avere reali fondamenti, ragion per cui oggi i due termini vengono considerati comunemente come sinonimi. Oggi, in un contesto di​​ ​​ globalizzazione si parla di incontro tra culture e dialogo interculturale, ma anche di «scontro tra c.».

Bibliografia

Thurn H. P.,​​ Sociologia della cultura,​​ Brescia, La Scuola, 1979; Abbagnano N., «C.», in Id.,​​ Dizionario di filosofìa,​​ Torino, UTET, 1980, 131-133: Mamo D. - E. Minardi, «Cultura», in E. Demarchi - A. Ellena - B. Cattarinussi (Edd.),​​ Nuovo dizionario di sociologia,​​ Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1987, 635-642; Costanzo L., «La cultura», in M. Toscano (Ed.),​​ Introduzione alla sociologia,​​ Milano, Angeli, 1988, 489-525; Torrealta M. (Ed.),​​ Incontro e scontro di civiltà, Roma, EdUP, 2006.

M. Montani